Radovan Karadzic E Saddam Hussein, 2 Pesi E 2 Misure
«Se i principi applicati nella sentenza di Norimberga dovessero diventare un precedente, allora al termine della prossima guerra i governi degli Stati vittoriosi giudicherebbero i membri degli Stati sconfitti per aver commesso delitti definiti tali unilateralmente e con forza retroattiva dai vincitori. C’è dunque da sperare che questo non avvenga»
(H. Kelsen, 1947)
Il 21 luglio scorso, la comunità internazionale ha salutato con entusiasmo la cattura a Belgrado di Radovan Karadzic[1], avvenuta dopo ben 13 anni di latitanza in cui le forze di polizia di tutte le potenze impegnate nei Balcani hanno dato la caccia a quello che si considerava uno dei maggiori responsabili delle atrocità commesse durante i vari conflitti succedutisi nella ex-Yugoslavia nei primi anni ’90.
Esultanza a parte, però, dovremo ora verificare come il diritto internazionale riuscirà a gestire questo spinoso caso che metterà alla prova il suo sistema penale, anche perché è ancora troppo fresco il ricordo di un analogo precedente che si è concluso, nel dicembre del 2006, con l’esecuzione per impiccagione di Saddam Hussein[2], ex-rais dell’Iraq occupato, o liberato.
Doveroso ricordare che, se la comunità internazionale risulta essere “anarchica” per definizione perché costituita da soggetti sovrani autoreferenziali, storicamente ha spesso cercato di dotarsi di strumenti di regolamentazione, in particolare quando eventi traumatici hanno minato le basi della umana convivenza. Proprio per questo motivo, si fa risalire alla fine dell’ultimo conflitto mondiale (1945) la nascita del diritto penale internazione, in concomitanza con la creazione dei Tribunali di Norimberga e di Tokyo[3], rispettivamente competenti a conoscere e giudicare fatti relativi a ufficiali tedeschi e giapponesi durante le operazioni belliche appena conclusesi.
I fondamenti teorici di tali corti internazionali possono farsi risalire all’opera del giurista Hans Kelsen[4], in particolare al suo “La pace attraverso il diritto” del 1944, con il quale si formalizza la necessità di dotare la comunità internazionale di un effettivo organo giurisdizionale indipendente dai poteri politici e con giurisdizione universale verso gli Stati e verso gli individui. Questo, secondo Kelsen, sarebbe stato l’unico modo per garantire il mantenimento della pace tra le nazioni.
Il passo successivo fu la creazione dei due Tribunali speciali, di Norimberga e di Tokyo: speciali perché creati ad hoc al fine di esercitare la propria giurisdizione nei confronti solo di alcuni soggetti, solo per alcuni atti, espressamente individuati dalle potenze vincitrici tra i responsabili politico-militari dei paesi usciti sconfitti.
Speciali anche a motivo delle norme, sostanziali e di procedura, che si trovarono ad applicare: un sistema nel complesso creato appositamente, in aperta contraddizione con il principio classico nullum crimen sine lege.
Indubbiamente, questa esperienza fu di insegnamento alla comunità internazionale e i giuristi si impegnarono da subito nel tentativo di elaborazione di un sistema penale internazionale che risultasse più rispettoso dei principi universalmente riconosciuti nei moderni stati di diritto (garanzia di un effettivo diritto di difesa degli imputati; presunzione di innocenza; priorità della fattispecie penale alla commissione del fatto; etc.).
Nonostante ciò, nei primi anni ’90, in seguito ai drammatici avvenimenti che sconvolsero la ex-Yugoslavia e il Rwanda, in ambito di Nazioni Unite vennero create due nuove assise: il Tribunale Penale Internazionale per la ex-Yugoslavia[5] e il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda[6], con statuto e mezzi propri.
Queste corti, tuttavia, soffrono alcuni degli stessi limiti delle esperienze precedenti, in particolare nel loro carattere di “specialità”.
Per ovviare a simili critiche, si è giunti allora al 1998 quando, in occasione della Conferenza internazionale di Roma convocata dall’Assemblea Generale dell’ONU, si è ratificato lo Statuto del Tribunale Penale Internazionale (TPI)[7], primo vero organo giurisdizionale penale con competenza generale: nonostante lo sforzo dei cultori dei diritti umani, tale Statuto, de facto un trattato internazionale, è entrato in vigore solo nel 2002 al momento del deposito del sessantesimo strumento di ratifica e a tutt’oggi sono poco più di 100 i Paesi[8] partners.
Stando alla teoria, con la creazione del TPI si sarebbe dovuto ovviare a quelle critiche mosse ai tribunali speciali e, in particolare, come faceva notare il Kelsen, al fatto che “la punizione dei criminali di guerra avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e non la prosecuzione delle ostilità in forme apparentemente giudiziarie, in realtà ispirate ad un desiderio di vendetta“.
Se questo è l’impianto normativo e organizzativo che si è venuto a realizzare nel corso degli ultimi decenni, tuttavia gli Stati hanno continuato a far prevalere i propri specifici ed egoistici interessi sul senso di giustizia che dovrebbe guidare la condotta di ciascuno.
Ed ecco che anche le suddette corti si sono dovute scontrare con il limite di giudicare solo i vinti e non i vincitori: si veda l’attacco condotto contro la Serbia dalle forze Nato nel 1999, senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, considerato dai più autorevoli giusinternazionalisti come gravemente lesivo della Carta delle Nazioni Unite o ancora l’occupazione militare di Afghanistan o Iraq, conseguenza di una guerra di aggressione ma senza alcuna ripercussione nei confronti dei responsabili delle potenze occupanti, senza commentare il fatto che gli Stati Uniti non abbiano ratificato il Trattato di Roma sul TPI e si impegnino in ogni modo per ostacolarne l’attività[9].
Detto questo, e considerando che Saddam Hussein, presidente di uno stato-canaglia nemico degli Stati Uniti, dopo aver assolto per più di un decennio al proprio compito di baluardo dell’occidente contro il pericolo dell’integralismo khomeinista, è stato braccato, arrestato e tradotto in giudizio come un criminale comune e, al termine di un processo farsa condotto da un tribunale asservito alla potenza occupante (gli stessi Usa), condannato a morte e giustiziato[10], ben poche speranze permangono a che Radovan Karadzic riceva un trattamento maggiormente rispettoso di un moderno ordinamento giuridico.
Non foss’altro per un paio di argomentazioni non trascurabili, una di ius positum, l’altra legata alla “fatalità”: fortunatamente per il soggetto di cui sopra, lo Statuto del Tribunale per la ex-Yugoslavia non prevede la pena capitale tra quelle comminabili e, dunque, almeno in linea teorica, l’imputato, se riconosciuto colpevole dei reati ascritti, rischia al massimo l’ergastolo; d’altra parte, la recente cronaca giudiziaria del tribunale dell’Aja ci ha già mostrato improvvise e misteriose morti di imputati eccellenti[11] che intervenivano ad interrompere anzitempo il corso inesorabile della giustizia umana ponendo la parola fine all’accertamento di verità e responsabilità.
La sincera speranza, sempre ultima a morire, di chi scrive è che in un futuro non troppo remoto i membri della comunità internazionale possano trovare un equilibrio tra i propri individuali interessi e il generale senso di giustizia che risulta imprescindibile per la convivenza in questa casa comune, sempre più piccola e sempre più popolosa, e vincano insieme la lotta imperitura contro il vero male, che non è nell’altro, nel diverso, nel barbaro, ma che è in ciascuno di noi.
Con Saddam Hussein, non ci siamo riusciti ed abbiamo dovuto assistere allo scempio dell’esecuzione in diretta televisiva, grado estremo dell’inciviltà; con Karadzic, a prescindere dalle responsabilità personali che dovranno essere accertate nel corso del procedimento penale, speriamo di poter brindare al conseguimento di un ulteriore traguardo verso la realizzazione di un moderno ordinamento giuridico internazionale.
Anche Kant, con la sua Per la pace perpetua del 1795, in cui teorizzava l’avvento di un “diritto cosmopolitico”, ne sarebbe entusiasta: noi facciamo la nostra parte!
«… è senza dubbio un paradosso inquietante il fatto che gli sconfitti ex-presidenti della Repubblica Jugoslava e dell’Iraq siano oggi incarcerati e sottoposti a processo da parte di Tribunali speciali sostenuti dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati, mentre i capi di Stato e di governo delle maggiori potenze occidentali che hanno condotto vittoriosamente guerre di aggressione, macchiandosi dell’assassinio di migliaia di persone innocenti – trentamila solo in Iraq – e di altri crimini previsti nei codici penali di tutti i paesi del mondo e puniti negli Stati Uniti con la pena di morte, non ne hanno sinora subito le conseguenze»
(D. Zolo, 2008)
(immagine di testa: Imputati al processo di Norimberga, 1946)
[1] Cfr. voce relativa, in Wikipedia, l’enciclopedia libera, http://www.wikipedia.it.
[2] Cfr. dello stesso A., La condanna di Saddam Hussein tra politica e diritto internazionale, in KULTUnderground n.136, 2006.
[3] Cfr. voci relative in Wikipedia, l’enciclopedia libera, http://www.wikipedia.it.
[5] International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY), istituita il 25 maggio 1993 con la Ris. n.827 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha sede a L’Aia, cfr. http://www.un.org/icty.
[6] International Criminal Tribunal for Rwanda (ICTR), istituita l’8 novembre1994 con la Ris. n.955 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha sede ad Arusha, cfr. http://www.ictr.org.
[7] International Criminal Court (ICC), ha sede a L’Aia, cfr. http://www.icc-cpi.int.
[8] Al 1° giugno 2008, 106.
[9] Cfr. D. Zolo, Il doppio binario della giustizia penale internazionale, in Jura Gentium, IV (2008), 1.
[10] Cfr. A. Cassese, Il processo a Saddam e i nobili fini della giustizia, in Repubblica del 19.10.2005 e C. Garbagnati, D. Zolo, Il processo a Saddam Hussein tra diritto e vendetta, in Jura Gentium, I (2005), 1.
[11] Si veda il caso di Slobodan Milosevic, deceduto in carcere all’Aja durante lo svolgimento del processo a suo carico nel 2006.