Vi sono avvenimenti storici – intere stragi talvolta – che rimangono per sempre marginali, quasi dimenticati da tutti, come se certe vite valessero infinitamente meno di altre, o come se fosse addirittura fastidioso ricordare certi errori. Così la storia seppellisce tutto tra le sue pieghe e il tempo inghiotte inesorabilmmente nelle sue sabbie mobili quelle figure umane.
Solo la pazienza di qualche studioso, capace di unire alla ricerca storica l’abilità nel narrare, riesce a riportare alla luce quei fatti e ad elaborare congetture sul loro svolgimento, laddove manchino dati incontrovertibili o dove la diceria popolare abbia già trasportato i protagonisti in un’aura mitica.
Nell’ottobre 1944 la Carnia venne occupata dai tedeschi e dai loro alleati cosacchi, cui era stata promessa la realizzazione di una patria ideale proprio in quei luoghi. I cosacchi si spostarono quindi con carri, bestiame e famiglie, nella speranza di poter trovare una sistemazione e una terra propria, tante volte promessa e mai ottenuta. In Carnia compirono vasti saccheggi e orribili atrocità ai danni delle popolazioni locali, finendo poi essi stessi ingannati e sterminati. Infatti nel 1945, di fronte all’avanzata alleata, i cosacchi risalirono in Austria, da dove erano discesi, decisi a sfuggire ai sovietici che avanzavano. In cerca di una salvezza si diedero agli inglesi, che, venendo meno alle promesse fatte, li consegnarono ai russi. Vistisi perduti, molto cosacchi preferirono suicidarsi annegandosi nella Drava, molti altri vennero giustiziati selvaggiamente.
Questa vicenda storica, semi-dimenticata e piuttosto oscura, viene ricostruita da Magris da un punto di vista assai originale in questo libretto, che costituisce anche il suo esordio come narratore.
Il testo ha la forma di una lettera scritta da un anziano sacerdote ad un suo amico, pure consacrato.
Durante i terribili giorni dell’occupazione cosacca il narratore era stato incaricato dal vescovo d’intercedere presso i cosacchi a favore delle popolazioni locali, vittime delle violenze e delle ruberie degli invasori.
La sua conoscenza della lingua tedesca e di quella francese lo rendevano adatto per quel compito.
Da due anni il sacerdote, ormai in pensione, ha reso pubblica – sempre su incarico del vescovo che probabilmente vuole inserirla negli archivi diocesani – una relazione su quei fatti, che è stata apprezzata e notata da un giornale diocesano. Ora la rilegge e cerca di ricordare nuovi particolari.
Durante la sua missione, peraltro durata solo pochi giorni (27ottobre-4 novembre ’44), il sacerdote ricorda di aver parlato con un graduato, un “generale” o un “colonnello”, per cercare di alleviare le condizioni delle popolazioni locali e questi gli era sembrato ben disposto, anche se poi non era stato possibile ottenere grandi risultati.
Mentre affiorano i ricordi storici e le varie congetture sugli eventi, compaiono qua e là, soprattutto nella parte iniziale, particolari della vita del sacerdote, che ormai vive in una Casa del Clero e ha come soli passatempi la rievocazione memorialistica di questa vicenda storica cui ha, almeno parzialmente, partecipato, e l’incontro al sabato pomeriggio con alcuni amici al Caffè San Marco di Trieste.
“Ogni nostra azione ha un effetto così breve e, subito dopo, le cose sembrano tornare a succedere indifferenti e necessarie, come se non contasse nulla aiutare un altro o fargli del male, essere buoni o ingiusti. Ma forse siamo noi incapaci di vedere le conseguenze del nostro agire, o lo sono io, ormai un pensionato dello spirito” (p. 10).
Il tema del ricordo, della memoria attraversa l’intera rievocazione, ma è, almeno all’inizio, una sorta di “gioco”, un’occupazione per la mente del narratore, che poi finisce per appassionarsi ai fatti, per compiere ricerche, incontrare personaggi e testimoni, fino ad affermare che quella vicenda è lo specchio della sua esistenza.
Memoria di un anziano, memoria vacillante eppure tramandata, ma senza certezze assolute: “illazioni” sono spesso quelle che fa il narratore. Raccoglie ipotesi, oppure immagina quel che può essere accaduto, deduce.
L’incontro col misterioso ufficiale è determinante: il sacerdote vuole credere che quell’uomo fosse il famoso comandante cosacco Krasnov, il generale bianco, autore di romanzi storici.
Da questa sua affermazione inizia la ricostruzione di una vicenda storica tutta giocata sull’equivoco e sull’inganno, una vera beffa della storia ai danni dei cosacchi e di conseguenza delle popolazioni friulane.
Krasnov credeva di esser chiamato a costruire in Carnia una nuova patria ideale per i cosacchi,in realtà era una pedina nelle mani dei tedeschi, s’illudeva di comandare, fingeva di non vedere le stragi e le violenze compiute dai suoi stessi uomini ai danni di un’altra popolazione incolpevole.
A sua volta il narratore si convince di aver realmente incontrato il generale, ma di fatto non ne è sicuro.
In terzo luogo vi è un ulteriore inganno che riguarda la morte di Krasnov e il suo cadavere.
Nel 1957 tre ufficiali tedeschi vanno al cimitero di Villa Santina in Carnia, presso una tomba senza lapide, qui riesumano e riconoscono la salma di Krasnov, che viene traslata in un camposanto presso il lago di Garda, dove riposano i resti dei soldati tedeschi e dei loro alleati.
Secondo questa versione Krasnov era stato ucciso dai partigiani il 2 maggio ’45 in Val di Gorto mentre si ritirava verso l’Austria con i suoi cosacchi.
Dalla terra era emersa, tra gli altri resti, soltanto l’elsa della sciabola.
“Un’elsa bruna e ricurva, finemente intarsiata, che sembra suggerire la solitudine: promessa di gloria e sigillo di vanità, breve illusione di sicurezza e di sostegno per la mano che la stringe e crede di sentirsi meno sola nel fluttuare delle cose.
La terra ha restituito quell’elsa, non la lama: un’arma che non può colpire, stendardo senza reggimento o cavallo senza cavaliere. Quell’elsa, nella fotografia, ha qualcosa d’impavido, un gesto magniloquente di sfida, che minaccia ciò che non potrebbe mai porre in atto. Un gesto falso, ma ostentato con coraggio autentico” (p. 22-23).
Qui s’inserisce però la seconda versione della morte di Krasnov: il 27 maggio ’45 si sarebbe sfilato la sciabola in Austria, nella valle della Drava, per darla agli inglesi, cui si era arreso insieme ai suoi uomini dietro assicurazione che mai sarebbero stati consegnati ai sovietici. I fatti poi andarono diversamente e Krasnov venne fucilato a Mosca nel 1947. Quest’ultima risulta essere la versione più attendibile e certa dei fatti.
Il narratore si chiede le ragioni di questa contraffazione della verità, cerca i motivi dell’equivoco, non la verità, e di qui va ricostruendo e rievocando la figura di questo generale-scrittore e del suo popolo.
“La menzogna è altrettanto reale quanto la verità, agisce sul mondo, lo trasforma, è davanti a noi, la possiamo vedere e toccare, fungo velenoso….”(p. 39).
Come in “Un altro mare” compare il gusto di Magris per l’indagine su fatti marginali, nascosti, inganni della storia, quasi a dimostrare come tutto sia relativo e la verità sempre sfaccettata, complessa.
Due date di morte per Krasnov, due date di morte per Enrico Mreule, figure che rischiano di perdersi nel niente, l’uno per propria stessa volontà, l’altro per oblio della storia e soprattutto di chi scrive la storia.
Krasnov viene delineato con l’aiuto delle opere che ha scritto e che lo riflettono. Era un aristocratico di vecchio stampo, anti-partigiano, cultore dell’ordine e della disciplina, ma soprattutto un illuso, convinto di essere padrone del destino, di fatto usato come una pedina, incapace di vedere la realtà dei fatti.
L’analisi diviene approfondita quando il narratore constata che Krasnov credeva di difendere l’ordine costituito rappresentato dallo zar, in realtà difendeva soltanto il caos della sua armata, l’indipendenza del suo popolo contro la rivoluzione e il suo appiattimento di ogni diversità.
Vari personaggi e ipotesi vengono chiamati in causa e contribuiscono a definire meglio Krasnov e il suo popolo, i cosacchi, vittime dell’inganno della storia, vero emblema del niente .
“Tutta quest’avventura è una marcia all’indietro, verso il niente, e attraverso le quinte di cartapesta che coprono il niente, un continuo ritorno sui propri passi” (p. 40)
I cosacchi, popolo fiero e indipendente e perciò scomodo, entrano in Carnia dall’Austria, poi escono per la stessa strada e non approdano a nulla, popolo senza terra, all’inseguimento di una promessa, in fuga, massacrati e poi dimenticati. Colpevoli e innocenti allo stesso tempo, come il loro generale.
“Forse il male è proprio quest’ambiguo scambio di parti, questa mescolanza di colpa oggettiva e di incolpevole abbagliamento individuale, questa frode impalpabile, che logora ciò che vi è di più nobile in noi e fa di ogni peccatore anzitutto una vittima, un ingannato” (p. 43).
Convinti di trovare una patria, avevano distrutto quella altrui, capitanati da un uomo pervaso da una “deviata passione di libertà” (p. 57).
Fedeli solo a sé stessi, liberi, poco controllabili e poco affidabili, disposti a combattere laddove possono difendere la loro esistenza senza legge, i cosacchi verranno schiacciati del Potere, che non tollera diversità, non tollera fantasia e avventura. L’ossessione di Krasnov era la fine di quest’indipendenza e dell’originalità.
Per questo ha finito per collocarsi fuori dalla storia e per autocondannarsi.
“Quell’elsa affiorata fra le zolle mi fa pensare a quel tronco, che ora sarà ancor più cancellato, ma non ancora del tutto, mi fa pensare alla brevità ma anche alla durata della nostra vita e mi sembra conciliare il grande sì che diciamo al nostro tramonto, accettandolo serenamente, con la piccola resistenza che giustamente gli opponiamo, anche quando crediamo, come credo io, di essere sazi e stanchi di vita, perché anche un pomeriggio in più al caffè San Marco è poca cosa rispetto all’eternità ma è pur sempre qualcosa e forse non tanto poco” (p. 74).
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
CLAUDIO MAGRIS (Trieste 1939) è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Trieste e collabora al Corriere della Sera.
Tra le sue opere: “Il mito asburgico” (1963), “Lontano da dove” (1971), “Itaca e oltre” (1982), “L’anello di Clarisse” (1984), “Illazioni su una sciabola” (1984), “Danubio” (1986), “Dietro le parole” (1988), “Stadelmann” (1988), “Microcosmi“ (1997, premio Strega), “Utopia e disincanto” (1999) e “La mostra” (2001).
Claudio Magris, “Illazioni su una sciabola”, Garzanti, Milano 1992.
Il libro richiederebbe un’introduzione storica sui fatti.