IN PRINCIPIO FU IL TRICICLO
Il futuro non è la morte, poiché questa non ha bisogno di assensi per compiersi; il futuro, invece, è questo tempo incompiuto che ci aspetta, inesorabilmente simile a noi: a ciò che siamo stati, e a quello che non saremo. Esso scava le rughe che lo specchio rimanda, ed è minaccioso e potente; allo stesso modo non cessa mai di esercitare il suo richiamo e ci sfida con promesse e lusinghe, o ci minaccia col suo terrore incalcolabile[1].
Fu il Triciclo perché il titolo originariamente apposto dall’autrice è precisamente questo; lo si deduce anche dal monito posto a mo’ di prologo della narrazione, che così recita: Guarda bene nello scaffale / delle nuove proposte: /c’è Luce ed il triciclo /di suo fratello Martino, preso momentaneamente in prestito / per questo viaggio nella memoria (pag.9)
Triciclo come archetipo di infanzia violata, e di ogni e ciascuna violenza che da questa parte, giacché chi usa violenza ad i bambini, si può star pressoché certi che ne usi anche a tutti gli esseri viventi, umani e non, purché più deboli di lui, dunque impotenti a difendersene.
Triciclo come una sorta di “macchina del tempo”, di riappropriazione della memoria delle violenze subite, e spesso obliate per non impazzire.
«Martino, la vita è un triciclo che, pedalandole come si deve, si può arrivare alla benedetta conoscenza del proprio passato» (pag. 139)
Quel pedalandole non è un refuso: è un tentativo stilistico di superare il neutro maschile. Tornando alle vicende inerenti il titolo, composite esigenze editoriali, essenzialmente legate alla “visibilità” del prodotto, comprensibilissime in un Paese che detiene uno dei suoi più tristi primati: quello della pochissima gente che legge, e dunque del pochissimo amore per la cultura, hanno fatto sì che si giungesse al titolo dell’edizione messa in commercio e valentemente lanciata da tutto lo staff di una casa editrice coraggiosa.
Non sono qui a fare Cicero pro domo sua: chi mi conosce lo sa; né per sviolinare alcunché (figuriamoci: mi ritengo molto più vicina ad un orso, caratterialmente parlando!). Voglio solo spendere il mio plauso ad un editore, l’amico Giulio Perrone, che si avvale essenzialmente di uno staff al femminile: per una studiosa di genere (quando me lo fanno fare) è una gran bella felicità, poter constatare un sì alto tasso – perdonatemi il terminaccio tecnico – gergale – di femminilizzazione in un’azienda privata!
Il “mestiere” di recensora per questo antiromanzo, giovanissimo “figlio”, ancorché non del tutto consapevole, di quella corrente letteraria, detta nouveau roman od école du regard, che nacque e si sviluppò in Francia durante la seconda metà degli anni Cinquanta, non è facile: Monica è infatti la mia compagna di vita e di percorsi[2]
Eppoi, ha scritto un testo davvero conturbante, che devasta emotivamente, essendo un flusso di coscienza di rara force de frappe; una scrittura potente, devastante, perché di devastazioni si parla: violenze alle donne (omo ed eterosessuali); pedofilia; violenze familiari ad adulti e bambini; violenza all’ambiente; violenza diciamo intellettiva del sistema formativo, d’ogni ordine e grado, ai propri discenti; violenza socioeconomica (mancanza cronica di serie opportunità di lavoro).
La violenza è un singhiozzo, dunque singhiozzante è il ritmo dello scritto di Monica, e con continui, rocamboleschi, cambi di registro e di tempi della narrazione: chi si aspetta le unità aristoteliche di tempo e di luogo, qui non le troverà.
Troverà invece una lucida denuncia dell’arretratezza in cui, anche se non si ama dirlo dai più, da queste parti si vive; credeteci sulla parola.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Monica Cito (Telese Terme, Benevento, 1972), giovane romanziera e poetessa italiana. Questo è il suo primo romanzo, è scritto sulle bandelle della copertina dell’edito in commento. Invece no: è il primo romanzo edito; il primo giace, come quello di Luce, nell’ottembre del ricordo