“La bella estate”, pubblicato nel 1949, contiene tre romanzi brevi: “La bella estate” intitolato originariamente “La tenda” scritto nel 1940, “Il diavolo sulle colline” (1948) e “Tra donne sole” (1949).
Ciascuno di essi potrebbe costituire un testo a sé stante, ad unirli è un’atmosfera di giovanile scoperta del mondo, il rapporto città/campagna, la frequente disillusione e il disagio che permeano i personaggi più deboli e più giovani, il desiderio e la fretta della trasgressione.
Per quest’opera Pavese ricevette il Premio Strega nel 1950.
LA BELLA ESTATE
Il testo risale ad una fase di “naturalismo” pavesiano seguente a “Paesi tuoi”. È un romanzo d’ambientazione cittadina e dell’iniziazione alla vita e all’amore di Ginia, sedicenne sartina che vive col fratello Severino, ma è come se vivesse da sola perché il giovane lavora di notte come operaio presso la società del gas.
Ginia è una ragazza libera e indipendente, curiosa della vita e delle sorprese che può riservare.
“A quei tempi era sempre festa” – così inizia il romanzo. Ginia ama il divertimento, i balli, ritrovarsi con le amiche, la trasgressione. Un’ansia di vivere e di assaporare in pieno l’estate con le sue occasioni sembra circondarla.
“Qualche volta pensava che quell’estate non sarebbe finita più, e insieme che bisognava far presto a godersela perché, cambiando la stagione, qualcosa doveva succedere”.(p.19)
Ginia conosce la ventenne Amalia, disinibita ed esperta, che fa la modella e la introduce nel mondo dei pittori.
Ad una prima lettura “La bella estate” appare un romanzo di boheme torinese, legato a quell’universo artistico che Pavese conosceva attraverso l’amico Mario Sturani. Attratta da Amalia, Ginia si fida ingenuamente dell’amica, conoscerà Guido, il pittore-soldato bello, alto e biondo col quale vivrà la sua iniziazione sessuale, ma scoprirà anche quanto quel mondo sia fatuo e ingannatore. Guido si servirà di lei senza amarla e quando, spinta da un senso di rivalità verso Amalia, Ginia si convincerà a posare nuda per Guido, scoprirà che, dietro una tenda, Rodrigues, l’amico di Guido, la sta spiando col pieno consenso del suo fidanzato. Confusa e sconvolta Ginia scappa via.
“Quando fu sola nella neve le parve d’essere ancor nuda. Tutte le strade erano vuote, e non sapeva dove andare. Tanto poco la volevano lassù, che non si erano neanche stupiti di vederla a quell’ora. Si divertiva a pensare che l’estate che aveva sperato, non sarebbe venuta mai più, perché adesso era sola e non avrebbe mai più parlato a nessuno ma lavorato tutto il giorno, e così la signora Bice sarebbe stata contenta”.(p.81)
Tutte le attese, le aspirazioni sono finite e Ginia finirà per affidarsi ad Amalia, che è lesbica e innamorata di lei: “Andiamo dove vuoi – conducimi tu” sono le sue ultime parole.
La disillusione è grande ed apre ad un senso di disadattamento alla vita che verrà in seguito sviluppato da Pavese nei romanzi successivi.
Andando oltre una prima lettura compaiono in questa storia piuttosto semplice alcune tematiche essenziali: il contrasto tra l’innocenza di Ginia e la corruzione di Amalia e Guido, che conducono la giovane alla perdita dell’innocenza (in questo caso rappresentata dalla perdita della verginità), il tema nudità/vestito che ricorre. Amalia posa nuda per i pittori e Ginia, che si trova ad assistere alla scena, prova ribrezzo e vergogna da un lato e dall’altro una sorta d’invidia, un desiderio d’imitazione tipico di chi è molto giovane verso colei che appare sicura di sé e libera.
Ginia vive un rapporto ancora in fieri col proprio corpo e la propria sessualità, vi è il desiderio di sperimentare e la paura, le inibizioni da superare nel mostrarsi nuda, nell’esser disinvolta come Amalia, il cui ruolo è quello d’introdurla all’età adulta.
Vi sono in Ginia i dubbi e le inquietudini dell’aprirsi alla vita e vi è un doloroso processo di crescita che approda soltanto alla solitudine. Quel mondo che l’aveva affascinata si rivela gradualmente bacato, falso: Amalia è malata di sifilide, è in realtà una donna sola che, all’inizio del romanzo, non porta neppure le calze perché non può permettersele e dunque accetta di posare nuda per sopravvivere. Guido è un ingannatore che non l’ama affatto.
Scoperti i misteri del sesso a Ginia rimarrà un profondo senso di solitudine, la “bella estate” col suo valore simbolico ritornerà, ma non sarà come la protagonista se l’aspettava.
Il tema del suicidio, che si svilupperà in crescendo nei tre romanzi del volume fino all’acme di “Tra donne sole”, qui è solamente accennato, è un pensiero subito allontanato.
La nausea esistenziale è soltanto agli inizi.
IL DIAVOLO SULLE COLLINE
“Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai”.
Così si apre “Il diavolo sulle colline”, romanzo di ben altra maturità e profondità rispetto a “La bella estate”. Ancora una volta i personaggi principali sono dei giovani con la loro ansia di vivere, le loro discussioni esistenziali, i loro problemi, la voglia di divertirsi, di tirar l’alba girovagando per paesi e colline, tra balere e osterie.
Pavese nel frattempo ha elaborato la tematica del mito ed essa si rivela tra le pagine del racconto e nelle descrizioni.
Protagonisti sono tre amici: Oreste, il più legato alla campagna, studente in Medicina, ambisce a ritornare, una volta laureato, al suo paese per esercitarvi la professione; Pieretto, più cittadino, amante delle discussioni sui grandi temi dell’esistenza, ha girato diverse città prima di venire a Torino, studia Legge come il narratore, torinese, ma con genitori d’origine paesane.
Durante uno dei loro vagabondaggi notturni i tre ragazzi incontrano in collina, lungo la strada deserta, un’auto ferma nella quale si trova un uomo in stato d’incoscienza dovuto alla cocaina.
Oreste lo riconosce: è Poli, rampollo d’una ricca famiglia che possiede una villa dalle sue parti. Si tratta di un incontro determinante che farà scoprire ai tre un mondo totalmente diverso dal loro e porterà a ulteriori sviluppi l’intreccio narrativo.
Per il personaggio di Poli, Pavese s’ispirò al marchese Grillo di Moncalvo, da lui realmente conosciuto a Serralunga e poi a Torino, col quale ebbe lunghe conversazioni.
Nella prima parte d’ambientazione cittadina (l’estate in città, le remate sul Po) i giovani vengono a conoscenza della storia in cui Poli s’è invischiato: legatosi a Rosalba, donna più vecchia di lui, egli desidera liberarsene nonostante i penosi tentativi di lei per tenerlo legato a sé. Alla fine Rosalba gli spara, ferendolo gravemente, e la compagnia si disperde. Oreste e Pieretto vanno dapprima al mare e il narratore rimane in città per poi raggiungere, come concordato, i due amici in collina, al paese d’Oreste.
Qui i tre ritrovano affiatamento ed è la natura, ormai caricata di spessore mitico, ad assumere valenza essenziale. Vi sono poche, ma essenziali descrizioni e scorci d’intensità straordinaria.
“La casa d’Oreste era un terrazzo roseo e scabro e dominava nella gran luce un mare di valli e burroni che faceva male agli occhi. […]
Il paese era una viuzza sassosa, dove si aprivano cortili e qualche villa con balconi. Vidi un giardino tutto pieno di dalie, zinnie e gerani – lo scarlatto e il giallo dominavano, e i fiori di fagiolo e di zucca. Tra le case c’eran angoli freschi, e scalette, pollai, vecchie contadine sedute”.(p.122).
È quel paesaggio che già il narratore aveva scoperto da solo durante le sue gite in barca sul Po: “La collina sovrastante era bella al ritorno, fumando la prima pipa, e per quanto fosse giugno, a quell’ora la velava ancora un’umidità, un fiato fresco di radici. Fu dalle tavole di quella barca che presi gusto all’aria aperta e capii che il piacere dell’acqua e della terra continua al di là dell’infanzia, di là da un orto e da un frutteto. Tutta la vita, pensavo in quei mattini, è come un gioco sotto il sole”.(p.113)
È l’infanzia – “Della mia infanzia non mi restava altro che l’estate”. (p.109) – che ritorna nel ricordo e viene così conosciuta.
Durante la loro favolosa estate i tre ragazzi scoprono un loro luogo segreto nella valle di un torrente in cui si recano a prendere il sole nudi: è un posto mitico dove compiere un’esperienza ancestrale più vicina al bestiale che all’umano.
“Quel brivido di starcene nudi e saperlo, di nasconderci a tutti gli sguardi, e bagnarci, annerirci come tronchi, era qualcosa di sinistro: più bestiale che umano. Scorgevo nell’alta parete dello spacco affiorare radici e filamenti come tentacoli neri: la vita interna, segreta della terra”. (p.130)
È la natura primordiale, non ancora violata, genuina, impersonata anche dai due cugini contadini di Oreste.
“Ciascuna collina era un mondo, fatto di luoghi successivi, chine e piane, seminati di vigne, di campi, di selve”. (p.149)
Il ripetersi del rito dell’esposizione al sole presso il pantano viene interrotto da una novità: al Greppo, la vasta tenuta di proprietà della sua famiglia, soggiorna in convalescenza Poli. I tre decidono di andarlo a trovare e in seguito si stabiliranno da lui per un periodo.
Il Greppo appare subito come un altro mondo, profanato rispetto alle altre colline, incolto, selvaggio.
“Ma quello che stupiva era il groviglio, l’abbandono: dopo qualche vigna deserta, mangiata dall’erba, nella selva s’accavalllavano piante da frutto, fichi e ciliegi coperti di rampicanti, salici e gaggie, platani, sambuchi. All’inizio della salita c’era un bosco di grandi carpini e pioppi tenebrosi, quasi freddi: poi via via che uscimmo nel sole la vegetazione si alleggeriva ma nelle forme familiari s’intromisero piante insolite come leandri, magnolie, qualche cipresso, e tronchi strani che non avevo mai visto, in un disordine che dava alle casuali radure l’aria di solitudini esotiche”. (p.150)
Gli abitanti del Greppo non curano la collina ed essa li ricambia, il mondo cittadino di Poli e dei suoi amici ha fatto irruzione nella campagna inselvatichendola, facendone apparire gli aspetti più abnormi, innaturali, mostruosi.
Qui trovano Poli in compagnia di Gabriella, sua moglie, della quale ignoravano l’esistenza, donna affascinante che sta cercando di recuperarlo ad una vita normale. Scoprono che Rosalba, respinta, si è suicidata.
Al Greppo la vicenda romanzesca ha risvolti imprevisti e soprattutto i personaggi dialogano a lungo sull’esistenza, su Dio, sulla vita e sulla morte.
Qui si vivono esperienze essenziali, anche laceranti, bruscamente concluse con l’irruzione di un gruppo di chiassosi milanesi amici di Poli, superficiali e fatui, le cui tracce i tre ragazzi avevano già notato al loro primo arrivo al Greppo.
Scopriranno che Poli è malato di tisi e Gabriella lo condurrà a Milano per farlo curare.
L’esperienza giovanile si chiude così e ciascuno va incontro al proprio destino. Poli appare come un personaggio sconfitto, un diverso pervaso da un disagio e da una disperazione esistenziale non estranei a Pavese stesso.
Fondamentali – assieme al paesaggio – sono i dialoghi: non esiste quasi nessuna descrizione fisica dei personaggi, che dunque si delineano attraverso le loro parole. La conversazione magistralmente riportata da Pavese evita digressioni o noiose argomentazioni, che avrebbero rallentato il percorso del romanzo e permette all’Autore di sviluppare diversi registri narrativi specifici per ogni personaggio.
TRA DONNE SOLE
Ultimo romanzo del trittico “Tra donne sole” si apre con una delle scene più inquietanti – se letta alla luce degli eventi successivi – dell’opera pavesiana.
La protagonista, Clelia, torna a Torino, sua città d’origine, dopo molti anni per organizzare l’apertura di un nuovo atelier, succcursale di quello romano in cui lavora. Appena giunta all’albergo vede trasportare via una ragazza che ha tentato il suicidio.
Sembra che in questa figura femminile Pavese abbia prefigurato inconsciamente le modalità della sua stessa morte: in luogo estraneo, tramite sonniferi, con discrezione, in assenza di ragioni apparenti.
L’ambientazione è qui cittadina, in una società borghese che unisce caratteristiche bohemienne di “La bella estate” con tratti di un mondo frivolo e pettegolo, cinico e mondano, morbosamente curioso delle vicende di Rosetta, la suicida.
Una prima contrapposizione si ha tra questa società e Clelia, donna dal carattere duro e volitivo, che ha costruito da sè la sua fortuna. Partita povera per Roma con un uomo, Clelia ha raggiunto grazie al suo lavoro e alle sue capacità quegli ambienti che le sembravano inarrivabili ed ora le appaiono vili e infernali. Clelia è una donna che ritorna e scopre di sentirsi estraniata non solo di fronte a una certa società, che disprezza e condanna, ma anche di fronte ai luoghi dell’infanzia.
“Conoscevo le case, conoscevo i negozi. Fingevo di fermarmi a guardare le vetrine, ma in realtà esitavo, mi pareva impossibile d’essere stata bambina su quegli angoli e insieme provavo come paura di non nessere più io”.(p.224)
Durante una delle sue solitarie passeggiate per la città si reca nel suo vecchio quartiere ed entra nel negozio della merciaia Gisella: “Quello era tutto il mio passato, insopportabile eppure così diverso, così morto. M’ero detta tante volte in quegli anni – e poi più avanti, ripensandoci -, che lo scopo della mia vita era proprio di riuscire, di diventare qualcuna, per tornare un giorno in quelle viuzze dov’ero stata bambina e godermi il calore, lo stupore, l’ammirazione di quei visi familiari, di quella piccola gente. E c’ero riuscita, tornavo; e le facce la piccola gente eran tutti scomparsi”. (p.253)
L’unica realizzazione di Clelia rimane il lavoro col quale ha ottenuto quel che voleva, è diventata indipendente, vive a contatto del mondo aristocratico, ma non ne condivide l’atteggiamento morale. Udire pettegolezzi sul tentato suicidio di Rosetta, quel continuo cicaleccio suscita in lei disprezzo e desiderio d’isolamento come rivendicazione di diversità.
“Il vero vizio […] era questo piacere di starmene sola”.(p.287)
Nelle sue frequentazioni salottiere Clelia finisce per conoscere anche Rosetta, il personaggio più giovane e fragile, inadatta alla società e alla vita.
Clelia si domanda spesso il perché del suicidio di Rosetta – e non per curiosità morbosa come fanno gli altri, intenti a organizzare una recita di Carnevale mentre il dramma si consuma sotto i loro occhi.
“Rosetta, stupita, mi disse che non sapeva nemmeno lei perché era entrata nell’albergo quel mattino. C’era anzi entrata contenta. Dopo il veglione si sentiva sollevata. Da molto tempo la notte le faceva ribrezzo, l’idea di aver finito un altro giorno, di essere sola col suo disgusto, di attendere distesa nel letto il mattino, le riusciva insopportabile. Quella notte almeno era già passata. Ma poi proprio perché non aveva dormito e gironzava nella stanza pensando alla notte, pensando a tutte le cose sciocche che nella notte le erano successe e adesso era di nuovo sola e non poteva far nulla, a poco a poco s’era disperata e trovandosi nella borsetta il veronal…”(p.279)
Il suicidio non è stato per amore, neppure per una storia finita molto tempo prima con Momina, ricca, separata, cinica rappresentante del suo ceto sociale, ma anch’ella capace di sentire l’insensatezza di quel mondo e lo schifo di vivere come rivelano i suoi dialoghi – essenziali qui come ne “Il diavolo sulle colline” – con Rosetta e con Clelia. “Il mondo è bello se non ci fossimo noi”.(p.317)
Vi è dunque un dualismo tra la forte e libera Clelia, tutta dedita al suo lavoro, vero riscatto sociale, e la fragile Rosetta avviata al suo tragico destino.
In lei la nausea di vivere si fa sentire sempre più forte e finisce per avvolgere tutto.
“Voleva stare sola, voleva isolarsi dal baccano; e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo”.(p.288)
Alla fine Rosetta si uccide davvero e la suggestione della morte prevale.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908 – Torino, 1950), romanziere e poeta italiano.