Dove nasce il sole
(SND, 2001)
Parentesi insolita, questa, per chi segue abitualmente la rubrica musicale di KU. Costoro saranno probabilmente rimasti sorpresi nel notare non solo la data di pubblicazione non freschissima, ma soprattutto il titolo in italiano: evento mai verificatosi su queste colonne… i tempi cambiano? Non esattamente. Capita però che qualche settimana fa abbia avuto il piacere di conoscere via e-mail Diego Tuscano, voce del gruppo di cui mi appresto a parlare, il quale mi ha cortesemente inviato i due CD fin qui realizzati dai SanniDei; lavori che recensisco volentieri, visto che si inseriscono musicalmente nel filone che tante soddisfazioni mi ha regalato nei panni di ascoltatore e recensore.
I SanniDei operano con la loro musica una fusione parecchio intrigante, componendo musica dal taglio prettamente rock-blues anglosassone ed incorporandovi testi in italiano. Dalle parole dello stesso Diego, nonché dalla bio del gruppo, ho appreso che le influenze dei quattro componenti del gruppo sono assai eterogenee, comprendendo giganti del rock fine anni ’60 – anni ’70 (Led Zeppelin, Free, Lynyrd Skynyrd…), nomi di vaglia del panorama contemporaneo (Black Crowes, Ben Harper, Gov’t Mule…); nonché classici nostrani (Ivan Graziani, PFM, Fabio Treves Blues Band…), sui quali ammetto senza riserve la mia ignoranza ma dei quali prendo nondimeno atto. Partire da queste premesse e costruire qualcosa di coerente parrebbe un’impresa di portata non indifferente: una legittima curiosità mi ha accompagnato pertanto al momento di scartare questo Dove nasce il sole e inserirlo nel lettore…
L’album si apre con Balle spaziali, forse il pezzo più moderno in scaletta. Momentaneamente dimentico dei punti di riferimento citati poco sopra, vi ho letto tra le righe sapori funk-rock e soluzioni vocali non eccessivamente lontane da RHCP ed Incubus in particolare: da questi i SanniDei si distinguono però in virtù del respiro più ampio con il quale affrontano i quasi otto minuti del brano. Molto 70s sono invece le aperture strumentali e lo spazio concesso all’assolo di chitarra, piuttosto esteso ma altrettanto piacevole.
La title-track è un grazioso e luminoso affresco dall’atmosfera gioiosamente acustico; quel genere di canzone che ci si può ritrovare a cantare fra amici di fronte al fuoco in una pigra serata invernale, insomma. Semplice e diretta, per questo senza età.
Con i suoi sei minuti e mezzo, Segnali di malinconia è un altro brano corposo, e fortunatamente non sarà l’ultimo: fa piacere notare che non tutti i gruppi contemporanei abdicano alla tirannia dei tre minuti radiofonici… Dal punto di vista musicale qui si vira decisamente verso il southern rock: siamo di fronte ad una Workin’ for MCA italica, se volete, ma effettivamente nemmeno i Gov’t Mule sono poi così lontani.
All’altezza di Senza paura trovo conferma alle suggestioni funk-rock già percepite in precedenza, in particolare nel fraseggio delle strofe e nel bridge chitarristico alla The Crunge che conduce al refrain. Niente male, davvero.
L’aria che respiro occupa il posto quasi centrale in scaletta e si apre in caldo stile Allman Brothers: a me personalmente ha ricordato anche i Great Plains, gruppo country-rock misconosciuto ma assai piacevole. Ancora una volta si apprezza il coraggio di non voler chiudere un brano in fretta e furia, ma di volerlo al contrario sviluppare a fondo: nei nove minuti di durata c’è infatti posto per sobri interventi strumentali, cambi di ritmo, pause e riprese. Nel finale c’è tempo e modo di ricordare anche Free Bird o Sweet Home Alabama, soprattutto nelle loro incarnazioni live.
Più strada faccio, più mi sembra di individuare un approccio american piuttosto che british alla materia. Anche Così divertente si avvale di chitarre dal taglio inconfondibilmente southern, impiantate su una solida e potente base rock-blues. I SanniDei sanno essere potenti senza cadere negli stereotipi heavy; ovvero, alzano il volume senza eccedere in feedback, suonano forte senza suonare rumoroso.
Non ho voglia ha un giro semplice ma ipnotico, poi si apre fino a condensare e riassumere in quattro minuti tutta la filosofia musicale sfoggiata fin lì dal gruppo: una specie di bigino, che ripercorre a passo accellerato i paesaggi sonori attraversati nel corso del disco.
Il minuto e mezzo di cover di Sunny day dei Free è l’ultimo brano ‘ufficiale’, ammantato di una veste vintage grazie agli effetti di editing impiegati. Parrebbe il riconoscimento di un debito contratto con il quartetto inglese… eppure, alla luce di quanto ascoltato, confermo la mia tesi (la quale non subisce scossoni dall’ascolto della ghost-track conclusiva, un bizzarro coacervo di loop elettronici, voci pesantemente filtrate e passaggi chitarristici alieni): i SanniDei si inseriscono con maggiore naturalezza nel solco tracciato da Lynyrd Skynyrd ed Allman Brothers Band piuttosto che in quello riconducibile ai Free. Non che si tratti di un giudizio di merito: tanto di cappello in entrambi i casi!
Al di là infatti di quale sia la principale fonte di ispirazione dei SanniDei, quello che conta è il prodotto finito. Questo non mi ha fatto cambiare idea relativamente all’eterna disputa fra cantato in italiano e cantato in inglese; ma mi ha fatto scoprire un gruppo assolutamente interessante, piuttosto lontano dai cliché del rock italiano di largo consumo, capace invece di far propria una tradizione musicale eminentemente straniera e riproporla con personalità, senza scadere in una piatta e banale imitazione. Nel prossimo numero vi farò conoscere la mia impressione sul loro lavoro più recente, Liberamente, che ascolterò durante le feste e sul quale vi relazionerò in maniera appropriata tra un mese.
Nel frattempo, auguri a tutti. Ci si risente nel 2004…
Fabrizio Claudio Marcon
SanniDei