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Brian Wilson: Pet Sounds

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Brian Wilson
Pet Sounds – Live in London
(Sanctuary Visual Entertainment, 2003)

Nel 1966, sull’onda (e, visto il genere, non si tratta di un eufemismo…) dell’enorme successo conquistato quali massimi cantori del surf, delle spiagge, delle belle ragazze, delle custom cars americane e della California in genere, i Beach Boys se ne uscirono con un album che li avrebbe proiettati definitivamente nell’olimpo del pop: il lavoro in questione porta il nome di Pet Sounds.
Da allora sono passati trentasette anni ed i Beach Boys esistono ancora: sono perfino venuti in concerto dalle nostre parti lo scorso 8 novembre. Certo, il nome è sempre quello; però quella che era nata come la band dei fratelli Wilson ora non ne comprende più neanche uno, dopo la morte di Dennis e Carl e la decisione di Brian di cercare soddisfazioni in proprio. Non ce ne vogliano dunque gli altri beach boys, ma tutto considerato a traghettare l’eredità del gruppo nel terzo millennio risulta più credibile l’unico Wilson superstite. Quest’ultimo, arrabattatosi alla meno peggio tra problemi di droghe in un passato ormai relativamente lontano, è oggi come oggi riconquistato ad una forma più che accettabile. Il passare degli anni non lo ha risparmiato, ma di fronte ad un microfono e alla tastiera di un pianoforte Brian non ha perso smalto. Anzi, si sente talmente a proprio agio da aver deciso di recente di presentare dal vivo, in versione integrale, proprio Pet Sounds: un album così moderno al tempo della sua uscita da risultare pienamente godibile ed interessante ancora oggi, a quasi quattro decenni di distanza.
Registrato nel corso di più serate alla Royal Festival Hall di Londra, il DVD Pet Sounds – Live in London contiene esattamente quello che promette: un’esecuzione completa, dal vivo, di quello che molti ritengono il capolavoro assoluto dei Beach Boys. Non solo non manca nessun brano, ma è stata addirittura rispettata la scaletta originale! Ovviamente ne sono cambiati gli interpreti: Brian è affiancato nell’impresa da una band assai numerosa, del resto indispensabile per riprodurre sul palco la complessità degli arrangiamenti originali. Al centro della scena però sempre lui, il vecchio alfiere della surf music, passato quasi indenne attraverso mode mutevoli e traversie personali, ancora capace di interpretare con immutata credibilità le proprie canzoni più personali e memorabili. Le esecuzioni sono fedeli, puntuali, pienamente soddisfacenti: difficilmente, per dirne una, rimanere insensibili alle armonie vocali di God Only Knows, quella che (come lo stesso Brian accenna al pubblico) Paul McCartney definì la propria canzone preferita di sempre.
Proprio lo spirito di sana rivalità tra Beach Boys e Beatles fornì, a quanto si apprende dal lungo inserto-intervista Pet Stories, lo spunto a Brian per entrare in studio e registrare Pet Sounds: condividendo con il lyricist Tony Asher una grande ammirazione per il beatlesiano Rubber Soul, Wilson decise infatti di collaborare con lui per dar vita ad un album che potesse quantomeno pareggiarne i meriti. Di ritorno, Pet Sounds avrebbe stimolato i Beatles a prodursi in un ulteriore passo avanti: ecco dunque Sgt. Pepper… ma ora stiamo divagando.
Ritorniamo perciò a Brian, il quale sostanzialmente scrisse Pet Sounds da solo, mentre il resto dei Beach Boys era in tour. Dalle dichiarazioni di Asher, ma soprattutto degli altri musicisti che collaborarono alle sessions, emerge prepotentemente la statura artistica del leader. Come ricordano i vari sessionmen impegnati nella gestazione del disco, Brian era l’unico a sapere esattamente cosa stesse succedendo in sala prove; l’unico a sentire nella propria mente i brani nella propria forma definitiva ben prima che questa prendesse forma; l’unico a poter impartire ai vari musicisti istruzioni talvolta quasi incomprensibili, apparentemente campate in aria, inseguendo un sound che nessun’altro aveva il privilegio di poter anche solo immaginare. Alla fine, però, arrivava invariabilmente il momento fatidico in cui tutti i pezzi del mosaico cadevano al proprio posto, la canzone veniva mixata e completata con le parti vocali: solo allora il mistero veniva svelato, e tutti potevano appurare come le singole sezioni si fossero fuse a comporre un insieme mirabilmente coeso. Lavorando alacremente su tracce registrate separatamente, Brian non perdeva mai la visione del quadro d’insieme ne’ la voglia di sperimentare: entrava in studio con le idee già chiarissime, ma non disdegnava di modificare questo o quel dettaglio quando si accorgeva che la resa finale ne avrebbe beneficiato. Un brano come Good Vibrations richiese qualcosa come ottanta sessions distinte, svoltesi in svariati studi nell’arco di un paio di mesi: alcuni musicisti venivano convocati per suonare non più di una decina di minuti, poi ringraziati e congedati mentre Brian recuperava i nastri così ottenuti e si rituffava da solo all’inseguimento del sound giusto.
Una simile capacità di controllo e una tale visione d’insieme si ritrova solo nei veri geni della musica: fa pensare a Jimmy Page intento a sovraincidere strati e strati di tracce di chitarra per Achilles Last Stand; oppure a Jimi Hendrix, capace di suonare intere sezioni al contrario, senza mai perdere il filo, allo scopo di ottenere poi un effetto di eco a ritroso. Ebbene, la genialità di Brian Wilson domina l’intero DVD qui recensito: nella musica, grande e senza tempo, ma anche nelle dichiarazioni di chi ebbe il privilegio di lavorare con lui. Tutti professionisti che nel 1966 erano già oltre la trentina ed avevano suonato con la creme del pop contemporaneo, ma che notarono nondimeno come quel ragazzino entrato in studio con tutte le partiture già scritte fosse decisamente di un’altra categoria…

Fabrizio Claudio Marcon

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