L’elefante è il simbolo del partito repubblicano statunitense, notoriamente incline alla vendita d’armi e giudicato (dal resto della popolazione) come il maggior responsabile del tasso di violenza del paese a stelle e striscie.
Il titolo è però l’unico riferimento esplicito alla politica che Gus Van Sant, il regista balzato alla ribalta con "Belli e dannati" premiato a Venezia e poi protagonista di una carriera antagonista con "Drugstore cowboy", "Da morire", "Cowgirls" fino ai recenti Oscar per "Will hunting", mette nell’omonimo film ispirato, ma non ricalcato, alla vicenda della strage nella scuola di Columbine ad opera di due studenti armati fino ai denti. "Elephant" è glaciale, non intrusivo, sospeso sui gesti consueti degli alunni inconsapevoli che due dei loro compagni stanno, altrettanto svagatamente, architettando una strage. La telecamera segue i ragazzi negli infiniti e freddi corrioi della scuola, nei prati circostanti offuscati dalle nuvole. Sono ragazzi come tanti; chi partecipa ai seminari sull’intolleranza razziale, chi si dedica al trucco e allo shopping, chi cerca con la propria macchina fotografica di andare oltre quell’apparenza di normalità. Tutti, nessuno escluso, sono dipinti da van Sant, regista, sceneggiatore e montatore, come assuefatti ad uno stile di vita apparentemente irreale, sospeso tra l’indifferenza dei compagni, immerso in un glaciale clima d’ordine e regole. Osserviamo la ragazza che sfugge alle sue compagne dalle belle gambe per bearsi in una palestra vuota oppure Benny, nero, che nel fuggi fuggi generale dovuto ai primi spari mantiene la calma senza rendersi esattamente conto dell’accaduto.
Alex e Eric sono come loro, nessuno li nota mentre nella loro testa si forma un piano allucinante, quello di fare una strage dei compagni a colpi di fucile. I due sono ben equipaggiati, le armi arrivano per posta dopo aver fatto click su Internet. Il loro ingresso nella scuola il giorno fatidico non sembra destare tanto clamore, sebbene siano vestiti come mercenari e portino con se armi di ogni genere. Poi succede. Succede che, lucidi come non mai, percorrono gli stessi corridoi solitamente silenziosi sparando su chiunque capiti a tiro, freddamente. Il film non ha una vera e propria fine, come se Van Sant volesse dirci che non c’è fine, che sta ancora succedendo.
Il film è una bella sorpresa. La palma d’oro a Cannes, oltre al premio per la miglior regia, è sicuramente meritato. "Elephant" è freddo e anonimo quanto inquietante e travolgente. La normalità è la vera casa della paura, come nei film di Stephen King o come, e non sembra essere un caso, nei migliori Hitchcook. Van Sant non cade mai, e dico mai, nello scontato o nel ritrarre la cronaca sanguinolenta di quegli istanti. Forse, forse, l’unico neo è la scena che ritrae i due killer mentre iniziano una doccia insieme, ma ricordando che il regista è gay dichiarato e militante è difficile pensare ad una provocazione vuota quanto ad un ulteriore indagine degli aspetti più nascosti dei protagonisti. Il film, nato come produzione TV col nome, tra gli altri, di Diane Keaton, è anche un esercizio di stile di un regista che, secondo un parere del tutto personale, deve essersi svegliato sudato e impaurito dai due orribili blockbuster "Will Hunting" e "Scoprendo Forrester", banali e ampiamente rimasticati da anni. Col recente remake di "Psyco", un’incredibile rifacimento esattamente identico all’originale, deve aver ritrvato definitivamente la voglia di sè, e "Elephant" ne è il degno risultato.
Elephant
Benatti Michele