KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

DeadBurger – intervista con Vittorio Nistri

16 min read

 

 

In aprile del 2007 è uscito per Goodfellas il quarto album dei fiorentini Deadburger, intitolato “C’è ancora vita su Marte“. 22 brani realizzati con la collaborazione di Vincenzo Vasi (Roy Paci, Capossela ecc), Jacopo Andreini (Ronin, Enfance Rouge, OvO ecc), Enrico Gabrielli (Mariposa, Afterhours, Marco Parente), Paolo Benvegnù, Fabio Magistrali, ed altri. I Deadburger sono: Alessandro Casini (chitarra, computergraphics), Vittorio Nistri (elettronica, tastiere, manipolazioni sonore), Simone Tilli (voce, tromba), Lorenzo Moretto (batteria), Carlo Sciannameo (basso). I Deadburger esordirono partecipando, e vincendo, Arezzo Wave edizione 1996. Da allora non hanno mai smesso di sperimentare. Se amate l’art rock, “C’è vita su Marte” è semplicemente un bel disco che consiglio di avere.

Il nome “Deadburger” è stato suggerito da Soylent Green, un visionario b-movie di fantascienza degli anni 70, uscito in Italia col titolo “2022 I Sopravvissuti. Spiegano i Deadburger: “A parte la toccante ultima interpretazione di Edward G. Robinson, morto subito dopo le riprese, non era un gran che come film. Se ha acquisito uno status di cult, citato in situazioni di nicchia (la minimal techno di Roman Flügel) come nei Simpson, lo deve alla forza disturbante del soggetto. Il film è ambientato in un futuro prossimo (…ehi, manca poco al 2022!!) stremato dalla crisi energetica e alimentare, dove lo Stato non solo consente, ma addirittura autorizza, l’eutanasia, per poi riciclare i corpi dei suicidi sotto forma di tavolette nutrizionali verdi, commercializzate col nome Soylent Green. L’immagine di Charlton Heston che, scoperta la verità, grida alla folla “Soylent Green IS THE PEOPLE!”, è entrata di diritto tra i capisaldi della fantascienza apocalittica.
Due le ragioni che ci hanno indotto a scegliere un nome ispirato a questo film.
La prima è che l’immagine del Panino Di Morto veicola in sé un’idea di riciclaggio spinta alle sue estreme conseguenze. E i Deadburger credono nel riciclaggio, purchè inteso non come riproposizione di cose già fatte, ma come strumento creativo per farne di nuove.
Campionare schegge di esistenza (avvenimenti personali, arte, politica, mutazioni sociali, immagini, suoni, parole, idee) ed utilizzarle come mattoncini del Lego per costruire qualcosa di altro. Con l’obiettivo di una musica non autoreferenziale, che scaturisca dalla vita piuttosto che da altra musica
. La seconda ragione è l’attualità dell’immagine di una società che divora sé stessa. Ci è parsa appropriata per un momento storico dove viene considerato vincente chi (persona fisica, multinazionale, stato) riesce ad accaparrarsi e bruciare la maggior quantità possibile di risorse – tanto, se poi scarseggeranno, saranno cazzi dei perdenti.

 

 

Discografia:

 

DEADBURGER (Fridge Records 1997)

CINQUE PEZZI FACILI” (Sony/Fridge 1999)

S.T.0.R.1.E. (Wot4 2003)

“C’E ANCORA VITA SU MARTE” (Goodfellas 2007)

 

Per ulteriori informazioni sul gruppo, e un’ampia selezione di brani da scaricare http://www.deadburger.it/

Per acquistare l’album:

http://www.goodfellas.it/

 

 

Davide

 

Bel disco. Una delle cose che mi ha colpito è che sia stato pubblicato da un’etichetta. Sappiamo che c’è sempre meno attenzione verso un certo tipo di musica e che, quindi, gli autori devono sempre più spesso ricorrere a delle autoproduzioni.

 

Vittorio

 

Sono contento che l’album ti piaccia. E’ appena uscito e stanno arrivando ora le primissime reazioni, e sembrano tutte positive – il che non può che farci piacere, vista la quantità strabordante di rifiuti che questo disco ha collezionato, prima di trovare Santa Goodfellas disposta a pubblicarlo.

E’ un album su cui abbiamo lavorato moltissimo, e nel quale crediamo fino alle radici dei nervi. Ma vedere arrivare qualche riscontro positivo è comunque prezioso per noi, perchè, anche se sei convinto di una cosa, un qualche bisogno di conferme ti prende lo stesso, dopo il quarantesimo rifiuto.

Avevamo inviato il master a quasi 30 etichette discografiche indie italiane (praticamente, tutte quelle che conosciamo, nessuna esclusa); e di queste, tre (una di indie rock anglofilo, una di rock italiese e una di postrock e cose sperimentali) ci hanno risposto che non era “il loro genere“. Le altre non si sono prese la briga di dirci nemmeno questo.

Avevamo inoltre fatto ascoltare il master a una decina di organizzatori di concerti, proponendoci per delle date (con disponibilità del gruppo ad andare ovunque, anche sulla base del puro e semplice rimborso spese), sentendoci rispondere dagli operatori del circuito rock che era “troppo poco rock“, e dagli operatori del circuito sperimentale che era “troppo rock“.

Poi, come a volte capita, la situazione si è sbloccata nel modo più casuale. Poichè non ci venivano in mente altre etichette cui sottoporre il master, abbiamo contattato Goodfellas – che conoscevamo non come etichetta, ma solo come distributrice di dischi prodotti da altri – pensando di chiedere loro nominativi e indirizzi di eventuali nuove labels indie. E invece… a Simone Fringuelli della Goodfellas il nostro lavoro è piaciuto, e l’ha pubblicato lui.

Così il disco esce non solo con distribuzione Goodfellas, ma proprio prodotto della Goodfellas Records.

 

Davide

 

1971: Is there life on Mars? 2007: There is still life on Mars! Dopo quasi quarant’anni di obliqua  musica rock, abbiamo finalmente una risposta?

 

Deadburger

 

Rispetto agli anni in cui Bowie era l’Uomo Caduto Sulla Terra, la vita su Marte è diventata per certi versi più facile (grazie ai progressi della tecnologia) e per altri (forse, tutti gli altri) più difficile. E probabilmente, tra altri quarant’anni, sarà ancora più difficile, in una misura che oggi nemmeno possiamo imaginarci. Ma la risposta alla domanda “Is there life on Mars?” sarà sempre affermativa, perché l’esistenza è ostinata.

E’ anche contraddittoria (oggi gli USA surriscaldano il pianeta per accumulare fortune, domani gli USA spenderanno fortune per combattere il surriscaldamento), ma comunque caparbia: va avanti, sempre e comunque. Per vederla arrendersi ci vuole proprio la completa estinzione.

Anche accantonando i massimi sistemi (solari), e focalizzandosi sul microcosmo della musica: ce ne sono, pure qui, di scintille che non ne vogliono sapere di spengersi. Pensa ai musicisti che operano nell’ambito delle musiche non convenzionali.

Chi fa  musica “di genere” (easy listening, cantautori, pop, r’n’r, metal ecc) ancora può coltivare la speranza di un qualche riscontro economico, ma per le musiche “off the beaten path” la percentuale statistica di quelli che riescono a vivere della propria musica si fa veramente irrisoria. Eppure ci sono musicisti che ancora rubano ore al sonno e agli affetti per continuare a suonare, comporre, sperimentare, registrare… sbattendosi per portare la propria musica in concerti sottopagati, o per realizzare album curatissimi e con un senso dall’inizio alla fine – pur sapendo che, nell’era del download rapsodico, la maggioranza degli ascoltatori se ne frega del concetto stesso di “album”.  

Non c’è argomentazione razionale che spieghi cosa spinga questi musicisti ad andare avanti, eppure lo fanno.

 

Davide

 

Come ho fatto a finire in questo deserto” è un bel brano d’apertura, con un testo che colpisce. Mi ha ricordato che gli uomini, vivendo, hanno la bella chance di provare e rinnovare l’esperienza del perdersi, di quando in quando, ma di un perdersi ricco, fecondo, anche se talvolta doloroso, proprio per non finire nel deserto di chi non contempla mai la possibilità e la bontà del perdersi, tenendo tutto sotto ragionevole controllo. Al termine del brano avete usato un campione vocale di Ben Vautier, artista Fluxus, che ripete “io non so” in varie lingue. La poetessa Wislawa Szymborska  scrisse dei bellissimi versi sul “non so” e disse “…apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. […] Anche il poeta, se è un vero poeta, deve ripetere a se stesso “non so“. In questo “non so” potrebbe essere racchiuso il vostro approccio creativo?

 

Deadburger

 

Sicuramente. Chi è interessato alla sperimentazione deve convivere con la rinuncia costante alle certezze.

E’ una rinuncia che a me personalmente non pesa; anzi, trovo bellissimo che ci sia ancora la possibilità di esplorare. Perché non credo che, dal momento che tutte le combinazioni di note e accordi sono già state esperite, alla musica non resti altro che rimasticare in eterno cose già fatte. Preferisco pensare che ci sia ancora lo spazio per lavorare su colori, suoni, arrangiamenti, emozioni, fino a rendere nuovamente creative quelle note e quegli accordi.

Quanto ai Deadburger: di certezze non ne hanno mai avute troppe, e col nuovo album si sono lasciate alle spalle anche quelle poche che avevano.

I nostri primi dischi, pur con tutte le loro variazioni dal tema, si muovevano comunque nell’alveo di un “genere”: il crossover rock/elettronica, versante industrial (Nine Inch Nail) o electro (Primal Scream), il tutto filtrato nell’ottica della della cultura cyberpunk. A riascoltare oggi i nostri primi due album si sente che già c’erano deviazioni di vario tipo, e riferimenti alla realtà italiana che in qualche modo smagrivano il cordone ombelicale coi modelli stranieri – ma il cordone,  nondimeno, c’era. La nostra musica era riconducibile ad alcuni “binari” precisi.

Detto per inciso: muoversi lungo dei binari aveva i suoi vantaggi (la stampa e gli organizzatori di concerti preferiscono promuovere cose semplici da inquadrare, e noi a quel tempo lo eravamo – venivamo visti, nel nostro piccolissimo e fatte le debite proporzioni, come una specie di Nine Inch Nail de noantri). Ma, col passare del tempo, certi schemi hanno cominciato a starci sempre più stretti. Abbiamo preso a deragliare, a sperimentare, e il primo risultato è stato l’album “S.t.0.r.1.e“, dove aprivamo il nostro industrial rock a suoni e influssi diversi.

Adesso, con “C’è Ancora Vita Su Marte“, abbiamo abbandonato le mezze misure. Abbiamo reciso anche gli ultimi legami con industrial e electro – ambiti nei quali abbiamo già dato quello che potevamo dare – e imboccato una strada più incognita e meno etichettabile. Con tutti i pro e i contro che questo comporta.

 

Davide

 

Mi interessa molto far sapere come procedete nella creazione dei vostri brani.  Il vostro metodo – anche definito “anarchia e struttura” – di improvvisazione e successivo file-scarving, sovraincisioni e (ri)montaggi e labor limae degli abbozzi, i burger tapes provvisori al modo dei Faust tapes (N.d.r. Faust, gruppo storico del Krautrock)…

 

Deadburger

 

Col nuovo album abbiamo rimesso in discussione tutte le procedure di composizione e arrangiamento di cui ci eravamo avvalsi in passato, cercando una terza via tra improvvisazione e composizione.

Quando abbiamo cominciato a registrare non avevamo in mano una sola composizione né un solo testo – giusto una sensazione genericissima delle coordinate emotive (la disappartenenza; la sopravvivenza in un ambiente alieno) cui improntare il lavoro. Siamo partiti da una selezione di cellule sonore ridotte veramente al minimo: per ogni brano, un semplice loop, e (ma non sempre) una micro-frase che arrecasse un imprinting tonale.

Hai presenti le staminali? Cellule primitive, non specializzate, che possono trasformarsi in qualunque tipo di cellula corporea – ossa, nervi, muscoli, fluidi. Ecco, avevamo in mente qualcosa del genere: cellule sonore semplici, primitive, passibili di svilupparsi in brani musicali compiuti il cui aspetto finale era tutto da scoprire.

Per sviluppare ciascuna singola cellula in una canzone avevamo di fronte a noi centinaia di opzioni. Noi non volevamo né scegliere un’opzione a caso, né seguire un percorso (un binario) deciso in partenza. Volevamo sperimentare prima di tutto su noi stessi: scoprire quale musica avessimo dentro, a livello inconscio.

Così, sulle cellule-loop, abbiamo improvvisato liberamente, seguendo soltanto l’istinto. Tutte le improvvisazioni sono state registrate. Questa è stata la fase dell’anarchia – suonavamo, sperimentavamo, senza avere idea di dove stessimo andando. 

In seguito abbiamo riascoltato e selezionato i files delle improvvisazioni, scoprendo, anche con sorpresa, che le  staminali sonore avevano cominciato a specializzarsi. Ognuna di esse aveva acquisito una propria identità, nel senso che si era dotata di una definizione armonica, di abbozzi di melodia e di groove, e di un’atmosfera. Queste caratteristiche erano più che sufficienti per consentire a me, che sono il responsabile delle liriche, una intuizione – un flash, istintivo anch’esso – dei vari testi (o dei titoli che costituiscono i “testi” dei brani strumentali).

Fin qui era stato l’istinto a guidare il lavoro. Da qui in poi, si trattava di aiutare i singoli brani a raggiungere il loro stadio di maturazione finale, seguendo le direzioni che si erano chiarite spontaneamente, e i colori suggeriti dai testi. Questa è stata la fase della struttura – un lungo e appassionato lavoro di taglia-e-cuci, editing, sovraincisioni, coinvolgimento di altri musicisti, arrangiamenti “a posteriori”, filtraggi, manipolazioni.

Da questo modus operandi sono scaturiti brani che non avrebbero mai potuto nascere ritrovandosi in cantina a suonare. Una volta nati, il discorso cambia: li possiamo ben provare in cantina e suonare dal vivo – e anzi, ci piace moltissimo farlo. Ma resta il dato di fatto che l’aver usato, in fase compositiva, un approccio diverso da quello di un gruppo rock tradizionale, ha permesso ai brani di acquistare determinate caratteristiche che altrimenti non avrebbero avuto.

 

Davide

 

Tra i miei pezzi preferiti, la “lynchiana” Un luogo dove non sono mai stato e Cose che si rompono. Quest’ultimo è basato su un campione di Chris Cutler degli Henry Cow (mi basta il nome, insieme a cose a cui musicalmente somigliate come il fu Canterbury Sound, Pere Ubu, Materials/Golden Palominos ecc. per sciogliermi…) Avete detto che l’uso dei campioni a volte non è solo una questione di sonorità, ma può essere anche un omaggio al lavoro di un musicista che apprezzate particolarmente (Magnesio, con il sax improvvisato di Jacopo Andreini, è su alcuni campioni di Sun Ra Arkestra). Nel caso di Chris Cutler, avete scelto un simbolo del rock in opposition. Che senso dare ancora al “rock in opposizione”? Secondo voi in opposizione a cosa, oggi, se non che, per cominciare, da trent’anni e più a questa parte a se stesso, ma in perfetto accordo, invece, con la “nicchia” che rappresenta e bello è in fondo che (nicchia) vi rimanga?

 

Deadburger

 

Oggi la maggior parte della musica rock e pop riflette o l’io/me/myself di chi la fa, o l’esistenza virtuale che i media ci fanno credere nostra. Nell’uno e nell’altro caso tende a precludersi alla realtà esterna. In particolare, evita di sporcarsi le mani con politica, perché tanto tutti i partiti fanno schifo, e poi mica si può fare politica con le canzoni. (Né con i libri, né con le manifestazioni di stampa od altro – si vota il candidato che buca meglio lo schermo, e poi che se la sbrighi lui).

Si, c’è anche la rockstar che dedica una canzone a un “tema sociale”, ma il più delle volte è folklore genericamente buonista, ben attento a non irritare nessuno.

Questo è lo scenario prevalente, e non c’è da sorprendersi: fin dai tempi del mecenatismo, il grosso degli artisti va dove ci sono più fondi a disposizione. Trent’anni fa “l’impegno” vendeva, quanto meno alle giovani generazioni per contrapporsi alle vecchie. Oggi che leggere e documentarsi è divenuto sinonimo di secchioni senza pupe; che molti figli si rivelano più reazionari dei genitori; e che il politically correct serve solo come bersaglio da sbeffeggiare per credersi trasgressivi… “l’impegno” vende poco, e il grosso degli artisti se ne tiene alla larga.

Ma proprio perché è questa la situazione, io credo che di una concezione antagonista dell’arte ci sia più bisogno oggi che trent’anni fa. Di film, libri, dischi che si confrontino con la realtà, sforzandosi di interpretarla, di stimolare una presa di posizione. Quelli in circolazione oggi sono una quantità sparuta; domani spero possano essere molti di più, perché non mi auguro affatto che l’attuale nicchia rimanga in eterno tale. Non mi crogiolo nel mito dei beautiful losers e dell’Hasta La Sconfitta Sempre Comandante – mi sentirei meglio, e meno straniero, se vivessi in un pianeta in cui la maggioranza delle persone smettesse di riconoscersi nei valori incarnati da un Flavio Briatore.

I Deadburger hanno sempre coltivato, fin dai loro esordi, un legame attitudinale con il Rock In Opposition. Nel nuovo album questo legame è arrivato a lambire, sia pure marginalmente, anche aspetti prettamente musicali: abbiamo inserito – rivisitati in chiave contemporanea, e ibridati con altri suoni – alcuni richiami alle sonorità della stagione del RIO. Per esempio, certi arrangiamenti di tipo “avant”, o l’omaggio a Chris Cutler nel brano che hai citato.

 

Davide

 

Ho intanto apprezzato anche i vostri precedenti dischi (mi piace ancora chiamarli dischi). “La donna più bella in città” in particolare, e il quartetto d’archi con la voce distorta di “Ricambi“. Meno la cover disco-industrial di “Io sto bene…” dei CCCP… anche se poi si evolve fino a diventare qualcosa di totalmente autonomo e, quindi, “anti-cover”. Il senso unitario c’è e, secondo me, è la vostra capacità di commistione tra circonvoluzioni cerebrali e circonvoluzioni viscerali, crescente dal primo lavoro al vostro ultimo. In termini di diffusione potenziale, per fare quel che fate avete scelto la via – ragguardevole – ma più difficile, cioè non tanto nel senso musicale, ma nella scelta della lingua italiana… Come dire, la nicchia (è un termine a cui a me piace dare un’accezione positiva) si restringe e non poco. Mai tentati dall’inglese?

 

Deadburger

 

Prima di tutto, grazie per quello che hai detto sulla commistione cervello-viscere. Noi pensiamo che sia proprio questa l’essenza dei Deadburger, ma raramente ne troviamo traccia in quello che viene scritto su di noi. Spesso i recensori si focalizzano esclusivamente sull’aspetto “idee” della nostra musica, e questo può dare a chi non ci ha mai sentiti l’idea di una musica tutta di testa, presumibilmente algida e distaccata. Mentre è tutto il contrario. Chi conosce i nostri dischi, o ci ha visti in concerto, sa che per i Deadburger le emozioni sono importanti quanto le idee, e l’istinto quanto la riflessione.

Per il discorso della “nicchia”, mi ricollego a quanto detto nella risposta precedente: non troviamo nessun motivo di compiacimento nell’essere un gruppo di nicchia. Saremmo felici di vendere più dischi e di trovare più concerti. Ma la priorità per noi rimane fare la musica in cui crediamo.

La lingua inglese sicuramente ci aprirebbe più porte. Per le musiche non ortodosse, esiste in altri paesi un bacino di ascoltatori incomparabilmente più ampio. Ci frena però l’aspetto della pronuncia e dell’accento. David Bowie, su “Absolute Beginners”, era imbarazzante quando cantava “Vuolareh uoh uoh uooh“. E anche l’immenso Robert Wyatt è risultato al di sotto dei suoi standard quando si è cimentato, in un italiano claudicante, nella cover di “Del mondo” dei CSI. Temo che, cantando in inglese, faremmo una analoga impressione alle orecchie degli anglosassoni.

Simone Tilli è secondo me un cantante che, per potenza, indole sperimentale e intensità interpretativa, potrebbe competere con gran parte  dei vocalist indie-rock stranieri; ma in inglese non sarebbe spontaneo né credibile come lo è nella sua (e nostra) madrelingua.

 

Davide

 

Mi interessa molto sapere di più del vostro obiettivo di conseguire una elettronica organica, biologica, che accentui cioè la componente emotiva della musica (mantenuta entro una cornice rock che diviene art-rock). Non pensate che sia stato sempre il medesimo obiettivo di tutta la tecnologia, a cominciare da quella dei buchi nelle tibie di un orso e nell’osso d’aquila per farvi flauti e avanti? Dal momento che tutto ciò che l’uomo inventa è tecnico e tecnologico, strumentale, acustico o elettronico che sia, non pensate che la componente emotiva dipenda esclusivamente dall’incontro delle anime tra creatore e ascoltatore? Non pensate che tra il creatore e l’ascoltatore v’è comunque la loro biologia e organicità nondimeno emozionale a risolvere la questione?

 

Deadburger

 

E’ vero che fin dai flauti d’osso gli esseri umani hanno utilizzato i frutti del loro ingegno per esprimersi; ed è vero che di un computer si può fare un uso buono o cattivo, come di una chitarra o di qualsiasi altro strumento. Diciamo però che, tra tutti gli strumenti per fare arte inventati dagli esseri umani, la tecnologia digitale è quello che presenta i maggiori rischi di cattivo utilizzo. Perché rende più facile il lavoro dell’artista, e la facilità spesso impigrisce, togliendo lo stimolo a spremersi cuore e meningi.

Questo vale per tutti i settori espressivi. Ad esempio, il cinema: la grafica in 3D ha reso possibile visualizzare, in modo realistico, qualunque fantasia del regista o dello sceneggiatore; eppure c’erano più film fantasiosi ai tempi degli effetti speciali meccanici. Che erano costosi e non sempre verosimili, per cui non si poteva abusarne, e nei film continuavano a rivestire grande importanza elementi come il soggetto, la sceneggiatura, i dialoghi. Oggi che la tecnologia ha abbattuto i costi dei visual effects e ne ha aumentato il realismo, gli studios focalizzano la propria attenzione su di essi, investendo meno su soggettisti o sceneggiatori. E si moltiplicano i film spettacolari nelle immagini ma piattissimi quanto a idee e emozioni.

Stesso discorso per la musica. L’hard disk recording, il midi, le tecnologie di editing hanno facilitato la realizzazione di dischi formalmente perfetti e che “suonano” alla grande; ci sarebbe stato da aspettarsi un nuovo rinascimento musicale, un’esplosione vertiginosa di nuove idee finalmente realizzabili. Invece è sostanzialmente aumentata la percentuale di dischi inutili, la cui perfezione formale spesso maschera un vuoto pneumatico.

Con ciò, non voglio sembrare un anti-tecnologico. Sarebbe un controsenso, perché io devo tantissimo all’elettronica e alle tecnologie digitali. Ho cominciato a suonare tardi (dopo la laurea, quando la maggior parte dei musicisti appende gli strumenti al chiodo) e non ho mai acquisito una tecnica strumentale rilevante. Gli altri Deadburger sono grandi strumentisti ma io no, sono più un non-musicista alla Brian Eno – che poi è un modo cortese per dire che come strumentista sono proprio scarso. Ma ho delle idee, e la tecnologia digitale è il medium che mi consente di realizzare la musica che mi sento dentro, superando i limiti fisiologici delle mie mani goffe.

Dunque non no nulla contro la tecnologia, tutt’altro. Quello che non mi piace è vederla usata per mascherare deficienze d’anima o di creatività. Se un disco non ha emozioni vere né idee, a me non interessa, anche se suona splendidamente, con tutti i grooves e i timbri giusti al posto giusto.

Come addetto agli electronics nei Deadburger ho sempre cercato di evitare che la tecnologia prendesse il sopravvento sulla componente umana. Oggi più che mai: col passare del tempo, sono diventato sempre più umanista – nel senso che ormai non sopporto più le macchine che suonano come macchine.

In passato le ho utilizzate, perché, in generi come l’industrial e l’electro, una certa neutralità (o disumanità) può essere funzionale al disegno di atmosfere futuribili e di trance ritmiche. In questa ottica trova una ragione d’essere anche l’uso di macchine che suonano, volutamente, come tali: le drum machines (che, ancorché programmate ingegnosamente, avranno sempre una precisione e una rigidità impossibili per un batterista in carne e bacchette); i sequencer e le tastiere midi quantizzate (in cui magari permane l’estro armonico o ritmico del programmatore, ma certo non il tocco umano del tastierista).

Nei primi dischi dei Deadburger sono ricorso più volte a questo tipo di soluzioni, e, credo, in modo abbastanza efficace; ma la rigidità delle macchine ha costituito per me un peso crescente. Adesso che i Deadburger si sono svincolati dal mondo industrial e electro, ho potuto voltare pagina.

In tutto il nuovo album non c’è un sequencer né una singola tastiera quantizzata, e tutti i grooves principali (con la sola eccezione della title track) sono guidati dalla batteria acustica di Lorenzo Moretto. Quest’ultima spesso dialoga con loop ritmici, e occasionalmente con rhythm machines; ma oggi non mettiamo più la batteria acustica “a tempo” sopra i ritmi elettronici, bensì il contrario. Edito i files dei loops ritmici e delle rhythm machines per metterli fuori tempo sopra la batteria acustica, assecondando le fluttuazioni e le irregolarità dell’esecuzione di Lorenzo.

Prova ad ascoltare “Deposito 423 facendo caso a quando, sopra la jam di basso e batteria, fanno il loro ingresso le percussioni elettroniche: sono tutto fuorchè quadrate; si avviluppano alla batteria acustica, come suoi prolungamenti,  e l’assecondano persino negli errori. Questo è un esempio di cosa intendo per elettronica organica, che asseconda la componente umana della musica, invece che disumanizzarla.

Un altro filone di elettronica organica che abbiamo cominciato a esplorare con questo album è quello esemplificato dai brani “Amber” o “Come tagliare le mani a un fantasma“. Il primo è stato realizzato quasi esclusivamente col basso elettrico di Carlo, e il secondo al 100% con la voce di Simone; poi, tanto il basso quanto la voce sono stati processati e manipolati elettronicamente, fino a diventare tutta un’altra cosa – conservando però la caratteristica “organica” e emozionale implicita nella loro genesi, che è stata frutto non di microcircuiti ma di dita o di corde vocali.

 

Davide

 

Interessanti, numerose (e rilevanti) le collaborazioni su “C’è ancora vita su Marte“. Avete voglia di riassumerle qui per i lettori? Che valore vi avete attribuito strada facendo? Sembrerebbe di ricerca e crescita in reciproco feedback… Ossia compagni di ricerca ma in un creativo, fecondo reciproco perdersi? Cioè, cosa c’è da cercare e ricercare, trovare e ritrovare se non si perde sempre al contempo un qualcosa?

 

Deadburger

 

Le nostre collaborazioni sono sempre mirate, nel senso che quando contattiamo qualcuno abbiamo un’idea precisa su come e dove ci piacerebbe coinvolgerlo. Non gli domandiamo genericamente se gli va di fare qualcosa con noi: gli proponiamo uno o più brani specifici, dove secondo noi il suo strumento, il suo stile e la sua personalità si potrebbero inserire bene.

A volte (raramente) gli sottoponiamo una partitura già scritta; più spesso, gli forniamo solo le coordinate emotive del pezzo, cioè gli spieghiamo l’atmosfera e le sensazioni che vorremmo raggiungere, lasciando poi che il collaboratore sviluppi a modo suo queste indicazioni, con la più completa libertà espressiva.

Capita spesso che gli interventi dei collaboratori ci forniscano stimoli per ulteriori evoluzioni dei brani. In questo caso, a posteriori, modifichiamo i brani, allungandoli o accorciandoli, intervenendo sui groove o sugli stacchi. In questo senso, il feedback è veramente reciproco.

Cerchiamo di valorizzare al massimo gli interventi degli ospiti, e forse è per questo che musicisti molto più bravi e conosciuti dei Deadburger accettano di collaborare con noi, che non abbiamo niente da offrire loro in cambio, se non la nostra gratitudine. 

Nel nuovo album abbiamo avuto la gioia di ospitare musicisti che sono tra i nostri preferiti di sempre, come:

Paolo Benvegnù, che con la sua voce ci ha permesso di traghettare in porto due brani cui, da soli, non riuscivamo a conferiree l’atmosfera che avevamo in mente;

Vincenzo Vasi (ex Ella Guru, oggi con Capossela, Roy Paci e mille progetti avant-jazz o sperimentali), polistrumentista incredibile, che con noi ha suonato vibrafono, theremin, e una marziana bass-orchestra;

Enrico Gabrielli (membro stabile di Mariposa e Afterhours e collaboratore di Marco Parente, Morgan, ecc), grande clarinettista cui dobbiamo lo struggente arrangiamento di fiati che conclude “La signorina Richmond“;

Jacopo Andreini (Ronin, OvO, Enfance Rouge e diecimila altre cose), che avevo conosciuto nel 2004, in occasione di una performance insieme ai St Ride per il trentennale della scomparsa di Demetrio Stratos. Polistrumentista totale, nel nostro album ha contribuito col sassofono alto a due brani.

Abbiamo inoltre potuto contare sui preziosi apporti di vari musicisti nostri concittadini: il contrabbasso di Nicola Vernuccio (una colonna portante della scena jazz fiorentina), la bella voce di Paola Maria (cantante dei Gestalt), il violoncello di Viola Mattioni (poi entrata nei Tanakh di Jess Poe), il flauto di Irene Orrigo (membro de Il Motore Immobile, gruppo nato dalle ceneri degli Otto Pi Notri), il fagotto di Camilla Malcontenti e il sax di Alessandro Bosco.

Menzione speciale, infine, per Fabio Magistrali, che ha curato i missaggi. Fabio è riuscito a dare alla babele di sonorità dei Deadburger quella resa e quell’equilibrio tra acustico/elettrico/elettronico che era sempre mancato ai nostri dischi precedenti. Quando dicono che il Magister è un mago, dicono il vero.

 

Davide

 

Istruzioni per l’uso della signorina Richmond“, è una poesia antropofaga di Nanni Balestrini da voi musicata e cantata… Dalle ragioni del vostro nome, era inevitabile che prima o poi faceste i conti con l’eccellenza della controcultura antropofaga (e autofaga)… Ovvero?

 

Deadburger

 

La poesia di Balestrini è sempre stata una mia “fissa”: era una vita che avevo voglia di musicarla, sia per la consonanza tra il suo contenuto e la genesi del nostro nome, sia come auspicio perché la controcultura possa tornare a interessare un numero di persone più ampio dell’attuale (Balestrini rappresenta la stagione che vide la maggiore diffusione della controcultura anche qui da noi). Però per fare queste “traduzioni” da un linguaggio a un altro – dalla poesia alla musica – serve un’idea forte, una chiave di lettura personale, altrimenti il tutto si riduce allo sterile citazionismo post-moderno, che a me e a tutti i Deadburger è sempre stato sulle palle.

L’idea è sopraggiunta da sola durante la fase compositiva del Marte-burger.

Una delle “staminali” sonore su cui stavamo lavorando consisteva in un loop di marimbas, preso da un cd etnografico di musica del Burkina Faso, originariamente in 4/4 ma che avevo tagliato e cucito in 3/4. Non sono un appassionato di musica world e di solito non campiono mai dischi world; non saprei dire perchè in quel caso avevo fatto un’eccezione – “sentivo” che lo avrei utilizzato, anche se non avevo idea di come.

Su questo loop ciascuno dei cinque membri della band, individualmente e separatamente, registrò un’improvvisazione.

Io improvvisai con la tastiera una linea iterativa semplice e molto bassa, che in seguito è diventata la frase del contrabbasso. Lorenzo, il batterista, cominciò col registrare un tempo rock-jazz, ma poi, dopo alcuni minuti, si stufò e passò a un tempo tribale in 3/4 (questa dinamica, scaturita spontaneamente, è stata mantenuta e valorizzata nell’arrangiamento: il momento in cui il brano diventa di colpo tribale è uno dei più potenti dell’intero album). Alessandro delineò con la chitarra un’apertura di pura psichedelia, e Carlo col basso un arpeggio di inaspettato lirismo (anche queste idee sono state in seguito mantenute nell’arrangiamento finale del brano, dove chitarra e basso appaiono per un intervento breve ma perfetto per intensità e ragione di essere. Non occorre fare centinaia di note, né suonare una canzone dall’inizio alla fine, per lasciare un segno).

E poi ci fu l’improvvisazione vocale di Simone. Fu la chiave di volta che consentì alla cellula primitiva di marimbas di specializzarsi e diventare una canzone. Simone accese il microfono e tirò fuori dal niente una melodia ipnotica senza parole, ripetuta su varie altezze tonali. Una specie di coro neuro-gospel – come un funerale a New Orleans officiato da uno psicotico.

E’ stato questo il flash:  l’incontro tra il senso di perdita (il funerale) e la volontà di distruzione/autodistruzione di un american psycho mi ha fatto venire in mente la poesia di Balestrini, con la sua visione allucinata di un Riche Monde che si smembra e divora da solo. A quel punto, il coro neuro-gospel ha trovato le proprie parole (“La signorina Richmond è di nuovo in città“) e Simone, preso in mano per la prima volta il testo originale della poesia, lo ha recitato con un crescendo emotivo impressionante (la voce solista che si sente nell’album è quella, completamente improvvisata, del primo e unico take registrato).

E’ come se la Signorina Richmond avesse scelto da sola la propria colonna sonora. Noi ci siamo limitati ad assecondarla, sia nella fase di stesura della musica che in quella delle successive rifiniture (nelle quali abbiamo coinvolto Nicola Vernuccio al contrabbasso e Enrico Gabrielli al clarinetto: timbri da funerale a New Orleans e spleen da lungo addio), come pure nei filtraggi elettronici (nella parte tribale ho “psicotizzato” il contrabbasso con plug in di distorsione, tremolo ecc).

Forse a Miss Richmond, che ha un senso dell’umorismo tutto suo, la cellula di marimbas è piaciuta perchè presa a musicisti del Terzo Mondo. I paesi ricchi sono tali anche perché, per secoli, si sono serviti liberamente delle ricchezze altrui.

 

Davide

 

Mi ha colpito Enzo Biagi in una intervista a Pasolini di molti anni fa… Sarebbe meglio dire che mi colpì Pasolini. Biagi, in quell’occasione forse un po’ blagueur, affermò che nella moderna televisione, quanto meno la sua di quel momento, Pasolini avrebbe potuto dire qualunque cosa liberamente, democraticamente. Pasolini rispose di no e ne avrebbe evitata la messa alla prova provocatoria e triviale a cominciare da una questione di suo personale e universale buon gusto… Vi dò la stessa possibilità irrealistica di dire qualunque cosa di scomodo…

 

Deadburger

 

Sarebbe davvero irrealistica? Forse sbaglio, ma immagino che i webmagazines siano meno inclini alla censura rispetto ad una trasmissione televisiva o ad un giornale cartaceo, non fosse altro perché per fare un webmagazine occorrono investimenti finanziari molto minori – se anche dovesse scoppiare qualche polemica, non ci sarebbe da renderne conto agli azionisti.

E poi c’è una questione di audience. Se un comico fa una battuta sulla Chiesa in un teatro o su un sito Internet il Vaticano lo ignora; se la fa alla diretta del 1 Maggio, per il Vaticano diventa terrorismo, persecuzione, praticamente l’Armageddon.

In definitiva credo che, se lo volessero, i Deadburger su Kult Underground sarebbero davvero liberi di dire “qualunque cosa di scomodo” – e gli argomenti possibili sarebbero tantissimi. Ma anche noi, come Pasolini nel bell’episodio che citi (e  che ti ringrazio di avermi fatto conoscere), preferiamo declinare l’offerta.

Se ci viene chiesta una opinione su argomenti specifici, anche molto polemici, non ci tiriamo indietro, nè ci trinceriamo dietro espressioni vaghe o giri di parole (è così anche per le nostre canzoni; vedi, nel nuovo album, quella su Nicola Cucullo); ma avviare una polemica “a freddo”, decontestualizzata da discorsi più ampi, avrebbe una connotazione diversa. Oggi qualunque nullità desiderosa di un attimo di visibilità mediatica la cerca attraverso la “provocazione”. Siamo talmente inondati da provocazioni che nemmeno ci facciamo più caso (chi si scandalizza più quando un Calderoli sintetizza il Family Day con un brutale “viva la famiglia, abbasso i culattoni“?). Per superare la soglia dell’assuefazione non resta che gridare sempre più forte – e non è una gara che ci interessa.

Ai Deadburger l’impatto frontale va benissimo, e le voci alte non ci spaventano, perché con il rumore conviviamo da sempre; ma il tutto, per come la vediamo noi, deve avere un senso, un’obiettivo – altrimenti sarebbe solo rumore per il rumore, e ce n’è già troppo in giro.

 

Commenta