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Diario di Viaggio

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Diario di Viaggio – 5

Oggi dobbiamo andare a fare visita al “benefattore”, il padre di Kawai sensei. Sono abbastanza preoccupato. Ho paura di fare qualche figuraccia; anni di studio della lingua e di curioso interesse per la civiltà e le usanze giapponesi mi hanno fatto diventare particolarmente sensibile a quelle questioni di etichetta cui i giapponesi tengono tanto. Il fantomatico (non l’ho mai visto) signor
Kawai ci ha già aiutato più di quanto una normale cortesia dettata dalla circostanza facesse presupporre. A quanto mi hanno detto, è un giapponese tutto di un pezzo, amante delle cose raffinate. La mia conoscenza della lingua mi sembra improvvisamente così inadeguata. Ho come l’impressione che l’onore non solo mio, ma anche dei miei sensei, che tanto si sono prodigati per rendermi partecipe della bellezza e delle stranezze della lingua giapponese, sia ora in gioco. Mi rendo conto di esagerare un po’, in fin dei conti sono un gaijin e nessun giapponese pretenderà mai che parli perfettamente la sua lingua, ma lo stesso mi sento in soggezione. Dopo tanto tempo forse sono diventato un po’ giapponese anch’io, come se una patina di vernice orientale pian piano avesse cominciato a filtrare e a penetrare gli strati lignei del mio essere italico.
I fatti sono questi: dobbiamo al signor Kawai la nostra comoda ed economica (per gli standard giapponesi) sistemazione in albergo. Ci ha persino mandato in Italia prima della partenza delle foto dell’hotel scattate di persona per aiutarci ad individuarlo! Inoltre, saputo che avremmo soggiornato per la maggior parte del tempo proprio a Kyoto, si
è fatto in quattro, scomodando un amico di vecchia data per avere due biciclette usate ad un prezzo stracciato, perchè “potrebbero essere utili”. Oggi dobbiamo appunto andare a prelevare le bici. La casa del signor Kawai non è molto distante dall’hotel, una passeggiata di quindici, venti minuti. Percorriamo una anonima via di periferia che si snoda accanto ad una linea ferroviaria locale. Abbiamo con noi l’immancabile cartina completa di dettagliate descrizioni dei dintorni, disegnataci da Kawai sensei prima della partenza. Dunque, dopo il passaggio a livello… quello è l’edificio di cemento a tre piani… ecco, è in quella laterale lì…
Finalmente arriviamo di fronte ad una minuscola ma deliziosa casetta, completa di qualche metro quadrato di giardino e da una autorimessa nella quale se ne sta incastrata con precisione millimetrica una mercedes nera. La targhetta in caratteri occidentali sul cancello di ingresso non lascia adito a dubbi. Un uomo in maniche di camicia e sandali sta potando un alberello che cresce tra il cancello e la casa, funambolicamente arrampicato su una scaletta di alluminio. Possibile che sia proprio lui? Non appena nota i due gaijin che lo osservano titubanti, esclama a viva voce un “oh! finalmente siete arrivati!” (in giapponese, naturalmente) che mi prende in contropiede. Le pompose e complicate formule di saluto che ero andato ripetendomi mentalmente nell’ultima mezz’ora mi si annodano tutte sulla lingua. Hajimemashite.
Borri desu. Ma l’affabilità e la vivacità del signor Kawai ci mettono poco a vincere il mio iniziale imbarazzo. Ci invita a “salire” in casa e lo seguiamo; sulla soglia mi sembra d’obbligo un deferente shitsurei shimasu. Mi tolgo le scarpe ed infilo le pantofole appositamente predisposte per gli ospiti. Il padrone di casa pare piacevolmente colpito, seppur di sottecchi, della nostra conoscenza dell’etichetta, per quanto minima. In casa, altre presentazioni: ecco la moglie, che ci accoglie con un sorriso che pare indelebile. Ecco la famiglia della mia insegnante… Ci fanno accomodare in un minuscolo salotto, pieno zeppo di libri e oggetti vari. L’intera casa sembra un distillato delle parole “piccolo” e “accogliente”, una sorta di nido arredato con molto buon gusto.
A fatica supero l’apprensione di fare qualche imperdonabile gaffe, e inizio una conversazione un po’ stentata. I coniugi Kawai parlano solo giapponese. Probabilmente il marito conosce anche un po’ di inglese, ma visto che mi rivolgo a lui in giapponese, lui fa altrettanto.
Naturalmente entrambi mi sommergono di complimenti per la mia bravura.
Io invece comincio a sentire tutti i miei limiti; d’improvviso la mia conoscenza del giapponese mi sembra totalmente inadeguata. Devo dare fondo a tutte le mie risorse per capire il signor Kawai e rispondergli. Spesso mi vedo costretto a chiedergli di ripetere. Moo ichido yutte kudasaimasen ka?
Ad un certo punto mi accorgo che sto parlando con un madrelingua giapponese da quasi mezzora e che entrambi ridacchiamo per una battuta. La soddisfazione che provo è improvvisa ed enorme.
Consegnamo al nostro benefattore qualche chilo di parmigiano, portato appositamente dall’Italia in dono su consiglio di sua figlia e mia sensei. Pare che abbia una certa passione per questo formaggio italiano, che qui deve essere veramente difficile da trovare. Lui a sua volta ci fa dono di un numero enorme di depliants, guide turistiche, libretti con orari dei treni, cartine di Kyoto e dei suoi dintorni, mappe con la rete dei trasporti urbani… Insomma, il vademecum del perfetto turista. Rimango sbalordito dall’estremo puntiglio con cui il signor Kawai si deve essere preparato alla nostra visita. La sua generosità sembra non avere limiti, è quasi imbarazzante. Sua moglie ci porta del tè verde (sen-cha) accompagnati da fettine multicolori di ottimo yookan. Sono anni ormai che i nostri sensei in Italia ci hanno iniziato alle delizie del tè giapponese, e consumiamo con gusto l’offerta. I due coniugi mostrano un genuino stupore nel vedere due occidentali che apprezzano visibilmente dei sapori ritenuti prettamente giapponesi. Il signor Kawai ammette persino, non con una certa aria di rammarico, che tra i giovani giapponesi sono ormai in molti coloro che non apprezzano più il tè. So desu ka? Sonna ni oishii na noni…, dico, provocando l’ilarità della signora. Due occidentali con gusti giapponesi… In effetti è proprio buffo!
Dopo quasi un’ora di piacevole conversazione, andiamo a prendere possesso delle biciclette. Sono in ottimo stato pur essendo usate (la mia è messa molto meglio di quella che uso abitualmente in Italia) e ci costano veramente poco, appena 3000 yen l’una. Kawai ci consiglia di comprare al più presto due lucchetti ai grandi magazzini. Non che ci siano molti episodi di furto, ma una bicicletta non chiusa con l’apposito lucchetto viene automaticamente catalogata da chiunque la veda come abbandonata, per cui chi ne ha bisogno si sente autorizzato a prenderla. Il lucchetto serve dunque più come avviso che quella bicicletta non è abbandonata che come reale protezione contro un improbabile tentativo di furto. Quando sarà il momento di tornare in
Italia, se all’hotel non vorranno tenerle, il signor Kawai ci consiglia di lasciarle appunto senza lucchetto: qualcuno senza dubbio le utilizzerà.
Contenti, salutiamo i coniugi Kawai e inforchiamo le biciclette nuove.
Rischio di consumarmi la lingua a furia di ringraziarli. Finalmente, dopo aver promesso di tornare a trovarli, mi decido a dare la prima pedalata e mi avvio. I Kawai mi osservano partire come se non avessero mai visto qualcuno andare in bici. Da lontano mi giunge un ki o tsukete kudasai. Devo proprio stare attento: non mi sono ancora abituato al fatto di dover tenere la sinistra anzichè la destra.
Questo apparentemente banale cambiamento fa sì ad esempio che occorra guardare prima a destra e poi a sinistra quando si attraversa una strada. Abunai, abunai… Fortunatamente le piste ciclabili sono pressochè ovunque. A Kyoto tutti i marciapiedi sono affiancati da una apposita corsia per le biciclette; spesso però i ciclisti invadono anche il resto del marciapiedi, facendosi largo tra i passanti a suon di campanello. Sembra quasi che siano loro i padroni di quella parte della strada, al contrario di quanto avviene da noi. Comunque adesso anche noi facciamo parte della elìte dei ciclisti… Dopo poco mi adeguo alle usanze locali e suono il mio bravo campanello per chiedere strada ai passanti.
Dopo pochi minuti siamo di ritorno all’albergo. Che geniale invenzione la bicicletta!
Nel pomeriggio purtroppo il cielo si rannuvola e non promette niente di buono. Decidiamo di spostarci con l’autobus; vogliamo andare a visitare Uno dei simboli di Kyoto e dell’intero Giappone, il celeberrimo Kinkakuji, il Padiglione D’Oro.
Ci rechiamo alla fermata. Sono un po’ preoccupato: in Italia ho dovuto spostarmi con l’autobus in città che non conoscevo ed è sempre stato un calvario. Dovremo stare attentissimi al tragitto, forse sarà meglio chiedere all’autista…
Alla fermata ho il primo shock. Sulla colonnina informativa, assieme alle consuete tabelle degli orari dei vari autobus, catturano la mia attenzione degli strani cerchietti a fianco dei numeri di linea. Li squadro perplesso. Che saranno mai? D’improvviso in uno di essi s’illumina la figurina stilizzata di un autobus, e con un lampo di comprensione capisco di cosa si tratta. Di fianco ad ogni numero di autobus vi sono tre cerchietti che simboleggiano le fermate precedenti a quella dove ci troviamo ora. Grazie probabilmente ad un sistema di impulsi radio, le colonnine informano chi aspetta della attuale posizione dell’autobus numero x. Non riesco a credere ai miei occhi.
Quando l’ultimo cerchietto si illumina, l’autobus fa capolino in fondo alla strada. Arrivato dinanzi a noi si ferma e una voce registrata diffusa da un piccolo altoparlante di fianco alla porta scorrevole da cui si sale ci annuncia che quello è l’autobus numero 104, che va al
Kinkakuji. Casomai non avessimo visto il numero mentre l’autobus era in arrivo. Saliamo a bordo: il riscaldamento è al massimo, l’aria calda esce da sotto ogni sedile avvolgendoci in un confortevole tepore. I sedili sono imbottiti e ricordano le poltroncine dei cinema.
Per quanto cerchi con lo sguardo non riesco a trovare graffiti, tagli o altri segni d’inciviltà. Un altoparlante interno ripete a intervalli regolari il nome della fermata successiva: è impossibile sbagliarsi.
Le stesse informazioni scorrono su un visore LED ben visibile di fianco all’autista. Ogni tanto partono anche messaggi che invitano a non gettare oggetti in terra e a lasciare liberi i posti riservati agli anziani. Non che qualcuno accenni soltanto a trasgredire queste norme, del resto. Mi sembra di viaggiare in un sogno. Mi sento coccolato, protetto. Dopo un breve tragitto, viene annunciata la fermata che ci interessa. Spingo il pulsante per prenotarla. Subito parte un messaggio registrato che recita con voce suadente “Alla prossima ci fermiamo. Si ringraziano infinitamente gli onorevoli passeggeri”. Si scende davanti. L’autista è in livrea e guanti bianchi. La corsa si paga al momento di scendere, gettando 220 yen in una apposita apertura di una macchinetta automatica di fianco al conducente. Naturalmente nessuno “fa il furbo”. Getto le monetine nella vaschetta e mentre scendo, vengo ringraziato anche dall’autista, che fa lo stesso per tutti quelli che scendono.
E’ troppo: sono proprio su un altro pianeta.

5 – Continua

Massimo Borri

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