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Gomorra

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Il materiale di partenza non era dei più semplici. Il testo di Saviano è infatti un romanzo ibrido, a metà strada tra un insieme di racconti e il reportage giornalistico, con tanto di nomi, cognomi, date e cifre. Eppure Gomorra è un libro estremamente scorrevole, fruibile, che dà forma alla narrazione attraverso lo sviluppo di diverse tracce in possibili racconti. E proprio da queste tracce sono partiti Garrone, Saviano e gli altri sceneggiatori per manipolare il materiale narrativo e trasformarlo in storie da raccontare al cinema, quindi attraverso immagini e suoni e non solo parole.
Storie che prendono vita in una Napoli martoriata dall’ignoranza e dalla violenza, storie di ordinaria follia attraverso le quali vengono mostrati alcuni dei meccanismi della Camorra (la droga, i rifiuti, la guerra con gli scissionisti, il denaro) e soprattutto la sue radici profonde nel vivere quotidiano, nei luoghi e negli spazi degradati di cui si è appropriata. L’idea vincente di Saviano e Garrone è stata quella di mostrare la quotidianità della Camorra senza snocciolare in maniera didascalica dati e notizie, in questo modo ci si immerge nell’orrore di molte vite senza futuro, imprigionate nella desolazione (esistenziale, morale) più assoluta. L’etica di questo mondo si manifesta in tutta la sua dolorosa mostruosità. Il denaro, prima di tutto. Mani che contano rotoli di banconote, il frusciare dei soldi, biglietti da cento e da cinquanta che passano da una persona all’altra. Poi i modi per guadagnarseli. Lo spaccio di cocaina e eroina, la struttura di questa industria, tutti quelli che vi lavorano. E poi i sogni deviati di due adolescenti, che tra pistole e coca sperano di diventare come Tony Montana, anche loro ripetendosi – il mondo è nostro, in una infantile immedesimazione con i modelli sbagliati, che qui sono quelli dei malavitosi, dei gangster. Perché paradossalmente le storie di Gomorra sono delle storie, che al cinema, funzionano benissimo. Se non le guardassimo con occhi sconvolti perché così agganciate alla realtà del nostro Paese, potremmo pensare a loro come il frutto del lavoro di un grande sceneggiatore che si è inventato situazioni e personaggi vicini ai gangster movie e al noir, con un pizzico di Tarantino e a un bravo regista che è riuscito a riportare sullo schermo la stessa livida desolazione di quelle storie, dei corpi sfatti e obesi che le attraversano, di quei luoghi fatiscenti che ne riempiono gli spazi.
Garrone sceglie di raccontare in maniera realista, puntando su volti e voci (quasi tutta la pellicola è parlata in napoletano stretto, con sottotitoli) che diano il senso della loro immediata appartenenza al mondo della Camorra, che si presenta come vera e propria (sotto)cultura alla quale aderire, con le sue regole, mode, linguaggi, musica (i neomelodici napoletani). Alcune volte Garrone mette a fuoco solo il volto di un personaggio, lasciando sfuocato l’ambiente in cui si trova, che arriva allo spettatore sotto forma di rumori, di qualcosa di indistinto, come se le persona, ormai inserita in questo stesso ambiente, non si rendesse neanche più conto del degrado in cui si trova. Perché questo è un altro dei grandi drammi di quei luoghi, la mancanza di immaginazione, di inventarsi un futuro diverso, che non sia quello dell’universo camorristico. E allora intere famiglie e nuove generazioni lasciate disperatamente a se stesse, in un mondo dove lo Stato e le sue leggi latitano ci si deve adeguare a quelle che sono le regole del gioco dettate da altri, l’illegalità come pratica per tirare avanti e sopravvivere.
Le scelte registiche di Garrone sono precise, attente, fredde nella loro oggettività. Per aumentare il grado di realismo il regista usa molto la macchina a mano, segue i suoi personaggi, si incolla ai loro volti. Poi inserisce immagini fisse, di palazzi, discariche, capannoni abbandonati. Quadri desolanti  che servono a creare una pausa visiva, un momento di riflessione, per rendersi conto della brutale fisicità di quei luoghi, che sono il teatro di drammi e tragedie dettate da un’arrogante ignoranza. La morte arriva sempre all’improvviso, si inserisce tra le persone e colpisce, veloce, precisa, senza lasciare speranze. E Garrone sfrutta questi momenti contro lo spettatore, colpendo anche lui con quella stessa improvvisa violenza.
Gomorra è un film malato, angoscioso, importante. Che finalmente si fa carico di un impegno, di una volontà. Quella di mostrare attraverso le immagini una realtà che molti vorrebbero cancellare, rendere invisibile, inesistente. Immergersi in quella realtà e rappresentarla su uno schermo è una presa di posizione ben precisa. La scelta di chi ancora crede nei film come atto d’accusa e nel cinema come forma di lotta.
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