Ce ne vuole a fare un film quando le idee scarseggiano e non si sa da che parte andare. Eppure alcune volte il caos, il vuoto interiore, la fuga possono essere elementi capaci di far nascere una scrittura inaspettata, libera, anarchica. Non è comunque il caso de L’abbuffata, dove un Mimmo Calopresti in piena vacuità creativa realizza un film da strapparsi i capelli. Il pretesto narrativo ha la consistenza di un soffio d’aria, tre ragazzi vogliono fare un film. Intorno a questo spunto Calopresti costruisce una serie di situazioni che si accumulano fino ad arrivare ad una durata temporale passabile per un lungometraggio, questa è forse l’unica caratteristica che potrebbe definire questo lavoro come film.
Calopresti assicura di aver voluto fare un’opera giovanile, positiva, speranzosa, ma il risultato è talmente ipocrita e fasullo che si perde la fiducia nelle parole del regista e soprattutto nel suo operato.
I tre ragazzi vivono a Diamante un piccolo paese del Sud. Nello stesso paese c’è anche un regista, interpretato da Abbatantuono, che si è isolato dal mondo per ritrovare l’ispirazione. Le sue battute, che vorrebbero ammiccare alla crisi del cinema italiano, sono penose come tutti i riferimenti “alti” ai grandi registi del nostro cinema. Come se dire il nome di Fellini o Rossellini bastasse a fare della critica cinematografica o della storia del cinema, quando invece è il modo più squallido per farsi passare per pseudo-intellettuali. Calopresti si ritaglia poi una parte da attore, in pratica mette in scena se stesso, e anche lui ci rifila due tre battute tardo esistenziali da brivido. Poi invita i tre ragazzi a Roma, perché è a Roma che si fa il cinema. I tre, insieme alla sorella di uno di loro, partono per la città eterna e lì si trovano spaesati e confusi. Grazie alle amicizie di Mimmo incontrano Valeria Bruni Tedeschi che sta lì per caso, recita un paio di battute e si scola qualche bicchiere di vino. Lei è anche la donna di Depardieu. I tre ragazzi ritornano a Diamante e ricevono una telefonata di Depardieu che li raggiungerà nel paese per girare il loro film. Le scene con Depardieu a cui assistiamo inorriditi sono solo quelle in cui lui mangia e beve. Ora se si vuole credere a queste scene come un omaggio a Ferreri o come una critica al consumismo si faccia pure, magari però Depardieu nel periodo in cui ha girato non aveva niente da fare, magari come il personaggio che interpreta si voleva fare una vacanza nel sud d’Italia, magari ha mangiato pure bene e cosa più importante di tutte, gratis. In una scena c’è la presenza di un testa di porco davanti al piatto in cui sta mangiando. Purtroppo la somiglianza è impressionante. Tra i personaggi inseriti a casaccio alcuni miracolati della televisione nostrana come Nino Frassica, Flavia Vento e G-Max.
Cinema che sorride e ammicca quello di Calopresti, quasi veltroniano nella sua positività, da sinistra buonista e fiduciosa, cinema da demolire quindi, che come non mai racconta frottole e pure male, che spaccia storie e vite per mascherare il nulla di cui è fatto. Basti anche pensare che quasi venti minuti del film sono girati con una videocamera digitale. Certo, si vorrebbe far credere che quelle sono le immagini che i ragazzi stanno girando per i provini del loro film, ma è anche vero che sono immagini molto banali, buttate lì, che in pratica non ci è voluto niente a girare e che purtroppo costituiscono quasi un quarto del film stesso.
Se questa è l’aria che si respira in certi ambienti sarà meglio turarsi il naso, immergersi nelle cose e cercare di raccontarle veramente. Basterebbe solo essere sinceri, una qualità che sta diventando sempre più rara nel nostro cinema (come nella nostra società) e per questo sempre più preziosa.