Francis Ford Coppola è un regista che ha sempre pagato in prima persona le scelte fatte. Più di ogni altro della sua generazione ha cercato di ribadire che il regista non era solo un semplice tecnico, ma un artista che attraverso le immagini esprimeva il proprio mondo interiore, le proprie idee. E allora ogni film diventava una lotta contro gli studios per conquistare una autonomia sempre maggiore. Ma Coppola non ha mai disdegnato le operazioni più commerciali, ben sapendo che per cambiare un sistema di cose prima di tutto bisogna entrarci dentro e da lì cominciare ad ingrandirsi, prendersi i propri spazi, avere il coraggio di scommettere e ancor di più quello di saper perdere.
Perché ne ha perse molte di scommesse Coppola, ne ha persi parecchi di soldi stando dietro ai suoi progetti e ai suoi sogni, ma questo non lo ha mai fermato, anzi gli ha dato la capacità di sapersela cavare in ogni occasione, di sapersi rialzare e di continuare su una strada personale, autentica.
E si arriva a questo suo ultimo lavoro, che esce a dieci anni di distanza da L’uomo della pioggia (un film fatto proprio per gli studios). E Coppola non si smentisce, scrive e gira un’opera personalissima, a tratti biografica, che vede la mano del suo autore costruirla e realizzarla e che del suo autore diventa poi l’espressione. Ed è questo processo, paradossalmente, a lasciare un senso di smarrimento davanti alla visione della pellicola. L’essere stati disabituati a intendere il cinema come un’opera personale, poetica, metaforica come lo possono essere un romanzo o una lirica. Coppola si riappropria delle possibilità artistiche di fare cinema in maniera autonoma da convenzioni e mode. Di esprimere attraverso questo mezzo prima di ogni altra cosa un’esigenza dell’anima, così come accade in ogni forma d’arte. L’essere stati assuefatti a visioni preconfezionate e codificate, che dovevano solo mettere in scena storie, raccontandole per immagini è quanto molto del cinema contemporaneo ci ha imposto. Perdere il concetto di autore o volerlo rifilare ad ogni costo è un altro dei problemi del nostro presente cinematografico. E allora Coppola lavora, prima di tutto, sulla scrittura filmica (sia narrativa, che visiva) e costruisce il proprio modo di raccontare. Parla di letteratura del cinema e arriva quasi ad inventarsi un nuovo modo di narrare, in bilico tra la forma del romanzo e quella del film, amalgamando elementi letterari (come l’io narrante, le aperture poetiche, le metafore, i simbolismi) e cinematografici (i dettagli delle inquadrature, la sintassi filmica, le possibilità del montaggio, l’uso dei colori e degli effetti digitali), come se Coppola prima di tutto avesse voluto scrivere un libro per poi trasformarlo in immagini e avesse usato la natura visionaria delle immagini stesse per improvvise aperture riflessive, cariche di suggestioni, come se alcuni elementi del libro (il doppio, il rapporto tra sogno e realtà, il tempo) potessero essere espressi unicamente in questo modo. Viene in mente un libro con immagini in movimento tra le pagine. Qualcosa che alterni la voce dello scrittore alla possibilità concreta di vedere ciò che il libro trasmette. Qualcosa di nuovo e rivoluzionario.
La storia narrata è quella di un professore settantenne (Tim Roth) che viene colpito da un fulmine e in seguito a questa traumatica esperienza inizia a ringiovanire. Il professore si accorge anche di avere acquisito capacità mentali straordinarie grazie alle quali cercherà di portare a termine l’opera a cui ha dedicato tutta la sua vita – un libro sul linguaggio, il tempo e la coscienza.
Afferma lo stesso Coppola – “La storia mi riguardava da vicino. Come il suo personaggio principale, Dominic, ero torturato e bloccato dalla mia incapacità di portare a termine un lavoro importante. A 66 anni mi sentivo frustrato: da otto anni non facevo un film; le mie aziende andavano a gonfie vele, ma la mia vita creativa era inappagata.”
Tratto da un racconto di Mircea Eliade il lavoro di Coppola si prefigura, stando alle sue parole, già come qualcosa di molto personale. Una immedesimazione umana con il protagonista e quindi anche la possibilità, narrando la sua storia, di parlare di sé stessi. E poi tre temi fondamentali per la vita umana, la scrittura e il cinema. E cioè il linguaggio, il tempo e la coscienza. Si capisce quindi che il film ha una stratificazione semantica quanto narrativa notevole. Una dimensione assolutamente nuova in cui si intrecciano storie, visioni, paradossi, riflessioni filosofiche, teoria del cinema, linguaggio umano, letterario e cinematografico. Un insieme di stimoli, spunti di riflessione, ragionamenti che finiscono per dare a Coppola la possibilità di una scrittura innovativa, capace forse un domani di rivoluzionare il vocabolario del cinema (se già non lo ha fatto) ma questo lo si capirà solo con il tempo. Se questo film farà nascere nuovi orizzonti espressivi significa che Coppola sarà riuscito nel suo intento, riuscire a fare qualcosa di nuovo, non ripetere sempre gli stessi film, lasciarsi alle spalle i propri capolavori, continuare, quindi, a creare. Altrimenti rimarrà la prova di un regista ancora desideroso di sperimentare, che avendo finalmente raggiunto una propria autonomia produttiva si imbarca solo in quei progetti che sente più vicini, più consoni alla sua natura.
Come tutti i grandi sognatori Coppola ci parla della possibilità di andare oltre se stessi, rischiando e imparando a perdere, senza per questo smettere mai di guardare oltre, lungo quegli orizzonti in cui arte e vita continuano a sfiorarsi.