Abel Ferrara aggiunge un altro tassello alla sua riflessione sul senso del peccato e della redenzione. Grazie ad uno straordinario Harvey Keitel compie un viaggio nell’inferno umano, attraversa il peggio che ogni uomo possiede e guarda cosa si nasconde nel fondo dell’abisso.
Il Tenente è un uomo senza morale o forse al di là della morale. E’ immerso nelle cose, nel loro funzionamento perverso, nell’angoscioso e inutile ripetersi di un lungo viaggio verso il niente. La droga è lo strumento principale attraverso il quale annullarsi e stordirsi. I soldi sono il fine principale dell’azione umana. Il sesso è manifestazione della propria animalità. O spudorato esibizionismo. Tutto il resto è solo contorno, una pausa tra una scommessa e i prossimi rifornimenti di crack, coca, eroina.
Inaspettatamente accade qualcosa. Un miracolo, forse. Magari l’espressione del cattolicesimo nella sua forma più pura e autentica. Una suora viene selvaggiamente stuprata da due ragazzi. Il Tenente cerca in ogni modo di persuadere la suora (che ha riconosciuto i suoi aggressori) a confessare i loro nomi. Il Tenente vuole fare giustizia. Proprio lui che delle leggi morali sembra fregarsene più di ogni altro. E allora la suora ci insegna qualcosa. Dice che la violenza di quei due ragazzi è stata la preghiera più sofferta e vera che potessero fare. La suora dice che il suo amore li ha perdonati. Che non vi è giustizia più importante di quella che Dio ci insegna. Che il perdono è quanto di più vicino a Dio ognuno di noi possa sperare di ottenere.
Qualcosa scatta nel Tenente. Un’allucinazione in chiesa gli fa vedere il Cristo, in questo incontro c’è tutto il senso della sua ricerca, del tentativo di trovare un’impossibile redenzione. Il Tenente, alla fine, avrà il coraggio di vedere la luce proprio nel fondo dell’abisso. E lo spettatore insieme a lui.
Ferrara costruisce un film irrisolto ed anche imperfetto. A tratti compiaciuto della propria disturbante perversione (Keitel che si masturba davanti a due ragazze in macchina) con una macchina da presa che non si tira indietro davanti a nulla (quasi insostenibile la scena del buco di Zoe Lund ed Harvey Keitel) ma con una tensione morale che difficilmente, al cinema, riesce ad arrivare a questi livelli. Lo stesso Scorsese invidia a Ferrara questo film e soprattutto il modo in cui il regista riesce a tratteggiare il peccato e la necessità di una redenzione. La dottrina cattolica, se fosse veramente capita da chi si professa credente, ne avrebbe di cose da insegnare.
Per esempio che il vero amore e il vero perdono sono espressioni del più autentico masochismo. Che nasce dall’annullamento di se stessi per l’altro.
Oppure che la luce non si trova rivolgendo lo sguardo verso il Cielo ma solo attraversando il buio più profondo.
Ferrara lavora su questi temi proprio in questi termini. Concede al cattolicesimo e a Dio la capacità di trasformare gli uomini e facendo attraversare al suo protagonista l’inferno compone uno dei viaggi più tragici e sconvolgenti che in un film si siano visti. E alla fine, la redenzione del Tenente sembra ancora più sacra (e umana allo stesso tempo), perché scritta con il sangue da chi per tutta la sua vita non ha fatto altro che peccare.