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Funny Games

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Sadico. Crudele. Spietato. Questo l’adeguato epitaffio al termine di questa pellicola datata 1997 ad opera dell’allora sconosciuto regista austriaco Michael Haneke (director, tra gli altri, de “La pianista”, “Il tempo dei lupi” e recentemente presente a Cannes). La trama, volutamente scarna, parte da un incipit abbastanza comune, il trasferimento di un nucleo familiare (Georg, sua moglie Anne e Georg jr.) in una vasta, fatiscente ed isolata residenza fuori città; mentre i tre cominciano ad ambientarsi, Paul e Peter si introducono, con un pretesto pressappoco futile (delle “innocue” uova), nella vita dei coniugi, stravolgendola dall’interno, sequestrandoli e seviziandoli, asservendoli al loro infantile capriccio di svago efferato, un gioco a tempo, il cui termine decreterà la corrispettiva morte degli assediati.

Tangibile e verosimile risultano essere il panico e l’angoscia, l’incredulità al cospetto di questi due guys apparentemente affabili, bianco-vestiti, amanti del golf… e delle torture domestiche. Sconcertante ed al tempo stesso tremendamente sincera e lineare la logica che li anima (“Ma perché lo fate?… Perché no?”), una riscoperta del “valore dell’intrattenimento” tradotta in ore di interminabile agonia, strazianti indovinelli, estenuanti umiliazioni, paranoiche dissertazioni, beffardo autocompiacimento.

Il merito indiscusso di Haneke consiste nella sua capacità di renderci “presenti” sul posto, costretti ad osservare impotenti la mattanza, passivi voyeurs del degrado civile… e questa “identificazione/immedesimazione mediatica” viene resa con finezze e stravaganze registiche (vedi ammiccamenti e strizzate d’occhio di Paul verso l’obbiettivo/spettatore, oppure un efficace quanto inatteso “effetto rewind” nel finale). Il movie scorre incessantemente come una colata magmatica, in assenza di sconvolgenti “dirottamenti narrativi”, con una scelta di ambienti (quasi tutti interni) di chiara matrice teatrale (vi è ad empio un’unica ripresa a telecamera fissa di quasi 10 min., senza dialogo alcuno), un interessante ed acuto “contrasto estetico” (il bianco dei killers – al pari di Alex di “Arancia meccanica” e del dr. Lecter ne “Il silenzio degli innocenti” – mistifica ed occulta i cupi meandri delle loro psico-patologie), un originale e peculiare adattamento delle musiche (dall’austero ma rasserenante classicismo di Mozart alle deflagrazioni rumoristico/sperimentali di John Zorn); encomiabili le prestazioni di tutti gli attori, fanciullo compreso, ulteriore dimostrazione della confutabilità del binomio fama/talento.

Altra particolarità di “Funny Games” riede nel “non mostrare” il centro d’azione, spostandone il fulcro, deviando il nostro sguardo, come in una camera di specchi, “chiudendoci le palpebre”, come faremmo se ci trovassimo “in loco”:Haneke con quest’opera rientra a mio avviso nel novero di quei “registi del non visto”, come Tourneur, ovvero dimostra di essere un cineasta dalla spiccata “propensione maieutica”, tesa al rapimento visivo/emozionale delle cavie miranti. Il poeta della disaffezione.
“Tutte le forme d’arte, oggi, possono porre solo domande. Mai dare risposte. E’ una condizione fondamentale”.
“Ho difficoltà ad accettare che non si trovi il tempo per inseguire ciò che si cerca. Io provo, con i miei mezzi estetici, a richiamare l’attenzione su questo. Di più non posso fare come regista. Non sarò in grado di fermare il declino dell’occidente.”

M. Haneke

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