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Barbara Nativi

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Barbara Nativi era e rimane nella mente di chi l’ha conosciuta (o di chi come me ha solamente letto di lei) una teatrante straordinaria: figura di tutto tondo nel panorama del teatro contemporaneo e europeo e mondiale. Gli onorevolissimi premi che ha ricevuto dalla critica sono stati i frutti maturi del suo lavoro costante e teso di autrice, regista, attrice, organizzatrice, gestore di compagnia, traduttrice e scout editoriale. Fu lei rappresentate del teatro della Limonaia e organizzatrice a Sesto Fiorentino dell’Intercity festival che avvicinò drammaturghi e registi stranieri al nostro paese per sprovincializzare la scena italiana e per condividere al di là dei confini un’esperienza artistica sempre rivolta al contemporaneo. Di lei dopo la sua scomparsa avvenuta un paio d’anni fa ci resta ora un libro dove sono raccolti dieci testi teatrali rappresentati tra il 1988 e il 2005. Il libro è edito da Ubulibri con il titolo Teatro ed è stato curato da Dimitri Milopulos (fedele e spettacolare non che geniale costumista e scenografo di Barbara) e Andrea Nanni (che possiamo ricordare tra l’altro per il premio Scenario), l’introduzione è doppia e ed è di due grandi esperti: Franco Quadri e Cesare Molinari che nel loro scrivere ci guidano verso la conoscenza della personalità e del lavoro dell’artista. I testi sicuramente tracciano un percorso di crescita di una sempre rinnovata scrittura per una scena sempre presente mai disposta a inginocchiarsi superficialmente sotto l’ala protettrice della parola. Un percorso come minato da spinte opposte: dal barocchismo di un dramma corale con più di trenta personaggi si passa al ritratto “minimale” (come affermava la stessa) di un uomo o meglio dell’uomo solo in preda al suo computer, al suo lavoro da concludere ogni giorno ancora più veloce. Tutte le sue esperienze drammaturgiche comunque appaiono come cucite a mano con un filo rosso inconfondibile che è quell’investimento costante sulla scrittura letteraria, una scrittura che quindi non è mai scontata e anzi poetica e mai fine a se stessa, donando così alla parola l’alto onore di presentare la realtà interiore, quella del passato o quella del presente.

Molto belli sono anche i programmi di sala inseriti prima dei testi o i commenti di Nativi. Vi cito uno degli ultimi prima di analizzare brevemente dramma per dramma:

“dedicato all’antica e dimenticata operosità

Da cui è nata la città di Sesto Fiorentino

A me stessa

Al nostro comune e disperato bisogno

Di efficienza

Grandi quantità

E velocità disumane”  

 

La prima piéce G.G. vede come protagonista Girolamo Gigli scrittore senese dintorno l’inizio del Settecento, ironico e graffiante (come un Cyrano de Bergerac italiano), molto incompreso e anche molto accusato dai contemporanei dell’epoca. Lo spettacolo fu allestito premeditatamente nel cortile di Santa Colomba nei dintorni di Siena, utilizzando la scalinata e la scenografia naturale del luogo. L’intreccio svela bigotterie e ipocrisie dei ‘ben pensanti’ ed è intramezzato da una voce registrata che recita gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Lodola a sottolineare l’assurdità di costrizioni religiose e autopunizioni infinite. Infine da notare un primo gioco di sottrazione in questo dramma dell’88 che consiste nello scomporre parole di forma arcaica e nuova in una sorta di battaglia – litigio (tra le parole e) tra i due coniugi: due anime profondamente come del resto succede in Io è un altro, dedicato ad Arthur Rimbaud, dove la coppia in questione sono ovviamente i coniugi Verlaine. Ma qui gli aspetti che più colpiscono sono due: primo i costumi delle donne: gonne ampie di fogli di carta bianchi svolazzanti, giacchette bianche e calotte che le rende calve; secondo la distribuzione delle battute non è psicologia, voglio dire che i diversi personaggi spesso si dividono delle strofe di una stessa poesia perché probabilmente più necessario per la drammaturga far uscire l’anima della poesia e non quella dei personaggi, anche se in questo caso le parole tutte traspirano di Rimbaud: “una sera ho preso la bellezza sulle mie ginocchie e l’ho trovata amara e l’ho insultata.”

Il terzo dramma ospita orizzonti più ampi di pensiero: lo sguardo dell’autrice si rivolge all’Uomo da un punto di vista ontologico riprendendo un gran maestro del teatro novecentesco: Nervi e cuore, un viaggio con Artaud. I personaggi qui sono ben caratterizzati, sono: il Dio dell’Ottimismo, la Dea della Vendetta e della Guerra, il Dio del Possesso e della Gola, il Dio Ermafrodito dell’Omertà, il Dio della Mancanza e dell’Invidia e la Dea della Superbia! Tutti caduti dal cielo (o molto probabilmente esiliati) sulla terra molto presto si troveranno a loro agio, senza più ali in un corpo umano, inizieranno a raccontarci i “colpi di reni della Storia.” La scrittura tutta ispirata alla ‘crudeltà’ di Artaud inizia qui più che mai una via ricercata del dire e raccontare le grandi stragi dell’odio: dalla litania della scomparsa dei popoli, a c’era una volta a Baghdad a camera a gas, titoli questi delle singole scene che Nativi descriveva accuratamente anche nelle note di regia importantissime per capire le scelte registiche sempre positivamente azzardate: da cambi di luce che riguardano anche le luci di sala per un particolare momento in cui gli Dei si rendono consapevoli di essere in un teatro, a effetti cinematografici, alla rumoristica e per finire col musical. Personaggi sovraeccitati si rendono portatori di storie tragiche raccontate a volte come fiabe e qui sta il gioco di contrasto, quello che sta scomodo all’orecchio borghese (se così si può dire), per frasi irriverenti e allora: “signori, potenti / se me lo chiedete / io ci sputo, ci vomito sopra / la mia terra / sporca terra.” Da notare oltre a un linguaggio elencazione della contemporaneità come nella poesia degli oggetti, anche una parola carnale, parola esaltata e infine nella scena quinta: mamma, l’utilizzo del greco, dell’arabo e del russo per parlare della mamma, appunto, e comprendere che anche in altre lingue il discorso, questo discorso si fa comprensibile ai nostri orecchi.

Dracula è la musica, la melodia, il rapimento, l’indescrivibile emozione del canto, parla in un codice segreto ai personaggi, agli attori, al pubblico, trascinandoli nelle tenebre figurate dagli incubi e in quelle ancora più fitte della psiche e dei suoi bisogni.” – così come si legge alla fine del programma di sala. Siamo nel 1996 per la rappresentazione definitiva e l’intento di Nativi è anche quello di ironizzare i personaggi che diventano macchiette-marionette borghesi, di cui uno di loro alla fine dello spettacolo delira di aver sconfitto il mare, di esser un grande eroe e di voler combattere ancora per poter sconfiggere “tutti i malvagi, i cattivi, quelli che minacciano le nostre donne, che succhiano il sangue dei nostri figli.”; mentre Van Helsing si chiede: “Perché mi mandi / questi sogni aguzzi / come lame? / Sono solo un medico, / non l’inferno intero con tutti i suoi dannati.”

Il quinto scritto di questa raccolta è un monologo: Non solo per me, scritto per l’attrice Renata Palminiello, è come un piccolo confetto impastato con cura di quotidianità (mai scontata!), sì, proprio un confetto dato che è una sposa che ci aspetta in un palcoscenico diviso in più punti luce con diverse tipologie di lampade. Si assaggia questo confetto e non è ne dolce ne amaro semplicemente è un confetto di plastica. È il vuoto che arieggia nelle parole rivolte a se stessa o a un qualcuno che sostanzialmente non c’è, un vuoto pieno di sofferenza: “Non ho bisogno di un cane. Ci sei tu. Mi fa schifo la buccia d’arancia nell’acquario. […] semini sangue dappertutto, non ci pensi a me? Mi hai frugato nella borsa. Ho il rossetto pieno di tabacco. […] Diego non è venuto ma sarà qui a momenti.”

Lettera di bambola e Lettera del soldato sono due monologhi brevi l’uno per Silvia Guidi l’altro per Francesco Bifano che furono rappresentati nel 1998 al Teatro della Limonaia. Sono due scritti collegati tra loro, collegati dall’amore dei due protagonisti: la ballerina sorridente e poco intelligente e il soldatino zoppo senza arte ne parte. Il discorso mette in evidenza le miserie di uomini burattini come giocattoli manovrati dal destino.

Più di sessanta personaggi per: Ritratti di fine secolo. Che dire…sì, lascia senza parole questo affresco sorprendentemente corale. Il linguaggio dalle tinte dialettali toscane è spesso comico e ironizza il percorso storico, che si viene a creare in questo dramma ambientato a Sesto Fiorentino, e che inizia nel 1900 e si conclude nel 2000 ovvero dalla contessa, al primo cittadino, dalla donna fascista, al franchista, dalla prima donna al cinema, a un operaio e verso la fine si arriva alla barbie parlante.

Il libro si conclude con due monologhi minimalisti: Il prologo delle domande e Stakanov allù, l’uno per Marisa Fabbri l’altro per Silvia Guidi…assolutamente graffiante il primo: “Chi ha messo le bombe di piazza Fontana […] Non so che dire / Io / Qui / Dentro la cronaca dei fatti / Di questo paese mio.”; più intimista il secondo descrive l’uomo contemporaneo nella costante corsa al da fare di più di fronte al computer.

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