Discesa nella dipendenza.
Televisione, eroina, pasticche.
Vari tipi di bisogni chimici o mentali che catturano la vita, la imprigionano nella ripetizione di gesti sempre uguali. La ruota del tossico. Trovare la roba. Farsi. Trovare la roba. Farsi. Trovare la roba. Farsi.
Aronofsky sfrutta il montaggio per arrivare (visivamente) al fulcro della dipendenza. La ripetizione. Tagli veloci su mani, siringhe, polveri, braccia, accendini, cucchiai. Tagli veloci su pasticche, televisioni, occhi, labbra.
Sara e Harry sono madre e figlio. La madre ha un rapporto di dipendenza con la televisione, il figlio con l’eroina. Entrambi seguiranno una strada che li porterà verso la propria distruzione. La figura più interessante è quella della madre (una grande Ellen Burstyn), del paragone tra la dipendenza da immagini (supportata da quella per alcune pasticche che la signora prende per una dieta) e quella dall’eroina. Ogni aspetto del mezzo cinematografico è sfruttato per rendere l’idea dell’alterazione mentale, del malessere fisico, dell’astinenza. Quando arriva la scimmia non si salva nessuno. Sono brividi, tremori, distorsioni. E allo stesso modo la macchina da presa si muove convulsamente, distorce le prospettive, si incolla sui volti tumefatti di chi è in preda ad una crisi.
Aronofsky continua il discorso fatto con Pi greco – Il teorema del delirio, ci fa attraversare mondi malati e ossessioni, ci toglie qualsiasi lucidità di visione, trasforma il cinema in uno strumento doloroso e allucinato, poi però perde per strada i suoi obiettivi e si abbandona alla propria, personale assuefazione. Un continuo tentativo di sprofondare nell’abisso umano e nella disperazione, di spostarsi sul confine tra l’osceno e il superfluo, di scavare dentro vite alla deriva che rimangono tali solo sulla celluloide, mancando di vera introspezione e dolore.
Le figure dei tossici se non supportate da una reale ricerca del loro universo interiore, rimangono stereotipate. Figure tratteggiate, quindi, con una falsa moralità che vuole vedere in loro il simbolo dell’umanità tutta, alle prese con le più svariate forme di dipendenza. Ma in questo caso non ci eleviamo verso il simbolo, verso la figura che rappresenti tutti noi, una figura che veda nella dipendenza stessa (e quindi anche nel consumismo) una delle formi più gravi di schiavitù moderne. Rimaniamo con corpi che cadono verso il degrado e l’orrore (fisico quanto mentale), con voci che in realtà non hanno niente da dire, con un sadismo che non è ricerca ma pura contemplazione dell’abbrutimento umano. Aronofsky cerca di toccare temi importanti, ma si lascia tradire da un estetismo e da una grande tecnica che trasformano il dolore in un videoclip, quasi in una rappresentazione alla moda di quella che è la schiavitù da una sostanza, qualsiasi essa sia.
C’è sicuramente un grande lavoro sull’immagine, sulla colonna sonora, sul senso e l’importanza del montaggio, sugli effetti allucinatori che il cinema contiene, ma tutto questo non arriva a toccarci, se non per il disgusto provato in alcune sequenze, un disgusto fine a stesso, che non serve a trasformare personaggi e storia in qualcosa di più profondo. Rimane tutto in superficie, quasi come in uno sterile esercizio di stile.
L’orrore che ci portiamo dentro ha bisogno di uno sguardo più maturo, che non si limiti alle apparenze di quello che sembra, ma che trovi le radici sempre più in fondo, nei luoghi oscuri dell’anima. Dove tutto si muove, oltre la ragione, per trovare una via d’uscita.
L’abisso o la luce.
Di nuovo.
L’abisso o la luce.