“La maniera di formare idee è ciò che dà un carattere allo spirito umano. Lo spirito che non forma le proprie idee che su rapporti reali è uno spirito solido; quello che si accontenta dei rapporti apparenti è uno spirito superficiale; quello che vede i rapporti tali quali sono è uno spirito giusto; quello che inventa rapporti immaginari che non hanno realtà né apparenza è un pazzo; colui che non confronta affatto è un imbecille. La maggiore o minor capacità di confrontare idee e di trovare rapporti è ciò che rende gli uomini più o meno di spirito.” Basta un giro di poche parole laconiche e precise, a questo Rousseau sono sufficienti queste sei righe tratte dall’Emilio, per inquadrare la nostra società come un gruppo di individui senza spirito, o più semplicemente come un branco di imbecilli. Rousseau era un tipaccio aspro, tronfio e grassoccio, era un tizio scorbutico che amava giudicare gli altri dal suo piedistallo di ipocrisie. Lui che con l’Emilio tenne tanto all’educazione dei nostri figli ne abbandonò ben cinque (suoi) per strada. Non vorrei mai, alla stessa stregua di Rousseau, essere tanto arrogante, e nemmeno tanto grassoccio, ma purtroppo devo – mi tocca – costatare che tra i nostri simili l’imbecillità non manca. La nostra società presente, il gruppo di imbecilli per dirla con Rousseau, non ha più alcuno stimolo alla critica e alla comparazione, manifesta un solo sintomo, ma il più grave di tutti: l’indifferenza. Non si può non essere concordi con Cornelius Castoriadis quando afferma che la nostra società ha cessato di mettersi in discussione, è un genere di società che non concepisce più alcuna alternativa a sé stessa e che per questo si sente esentata dal dovere di esaminare, argomentare, giustificare, la validità dei suoi postulati, espliciti e impliciti. Questo è di qualche conto anche per l’Arte, per il ruolo dell’Artista nella società ed ha qualche importanza anche per la Letteratura, come espressione impura dell’anima stessa di una popolazione.
La critica portata avanti dagli artisti e dai letterati dell’età moderna collimò in più parti con la teoria critica classica come formalizzata da Adorno e Horkheimer. La teoria critica formale con le sue leggi e regole, basata sull’assegnazione dei compiti e il controllo delle prestazioni, nasceva in quella prima modernità pesante caratterizzata da una forte tendenza totalitaristica delle istituzioni, da una società dell’omogeneità obbligatoria che era il nemico giurato della contingenza, della varietà, dell’ambiguità, della stravaganza, dell’entropia ed era determinata a distruggerle; le prime vittime della crociata furono prevedibilmente la libertà e l’autonomia. I grandi intellettuali dei tempi “nostri”, così come tutta una serie di correnti artistiche declinate dal Dadaismo al Punk, tentarono pedissequamente di ribadire la propria indipendenza e desiderio all’autodeterminazione, di ricomporre i confini individuali ridiscussi da una società invadente e coercitiva. Il Potere era contestato, non aveva un volto, ma aveva una solida e stabile posizione, e in quella si doveva colpire; all’altare delle istituzioni si potevano portare le proprie istanze e se questa strada era di poco successo per gli individui comuni, non altrettanto si può dire per gli artisti e per i personaggi che negli anni delle rivolte mobilitarono molte opinioni e influenzarono il corso sociale.
Oggi sia il movimento Punk che Horkheimer dovrebbero rivedere le loro posizioni e volgere le loro considerazioni e proteste in altro senso. L’avvento dell’era post-moderna segna il declino delle icone della modernità solida e pesante, della società totalitaria e dei suoi simboli. Declina la fabbrica fordista con il suo lavoro banalizzante e routinario, si sgretola la strutturata burocrazia di Max Weber, divengono risibili le immagini del Panopticon di Bentham e Foucault, con le sue torri di guardia e con i sorvegliati che non possono mai contare su un allentamento della vigilanza, si aprono le rigide gabbie di ferro della società che si scioglie in una effimera rete di relazioni.
Oggi l’irruzione di altri temi e paure nel dibattito pubblico hanno fatto da molte parti gridare alla fine della modernità. In realtà, osserva oggi Zygmunt Bauman – uno dei maestri del pensiero contemporaneo – la società che entra nel ventunesimo secolo non è meno “moderna” della società che entrò nel ventesimo; al massimo si può dire che è moderna in un modo piuttosto differente. Ciò che la rende moderna è ciò che distingue la modernità da tutte le altre forme storiche di coabitazione umana: una modernizzazione coattiva e ossessiva, continua e inarrestabile, la pulsione endemica e irresistibile alla distruzione creativa, o alla creatività distruttiva, ripulire il terreno in nome di un progetto migliore, smantellare il passato per fare largo al futuro, eliminare gradualmente le “vite di scarto”, ritagliare e rendere flessibile il lavoro a vantaggio di una maggior competitività. Questa società non ha soppresso il pensiero critico in quanto tale, né ha costretto i suoi membri fino a impedire loro di esprimerlo. E’ anzi vero l’opposto: essa ha fatto della critica della realtà, del disamore per “ciò che è”, una componente al contempo inevitabile e obbligatoria dell’esistenza di ciascuno dei suoi partecipanti. La libertà senza precedenti che la nostra società offre ai suoi membri ha portato con sé, come ammonì Leo Strass molti anni fa, un impotenza senza precedenti, il diritto e il dovere di essere soli. Il potere, rifacendoci ancora alle lungimiranti parole di Zygmunt Bauman, è il potere senza volto e senza luogo della globalizzazione economica, che annulla ogni fermo punto di riferimento, introduce la flessibilità e preannuncia l’incertezza nelle nostre vite, rende inadeguate le istituzioni dello stato nazionale moderno e affannosa la rincorsa dei cittadini per rimanere nella società dei consumi. Il potere non ha più alcuna ambizione di prefigurare la società del futuro uniformandola ad un modello equo e giusto, di guidare con la coercizione il corso delle nostre vite, il potere oggi introduce una forma di controllo assai meno dispendiosa, ci tiene in scacco levandoci una solida presa sul presente e conseguentemente, come rilevava Pierre Bordieu, negandoci qualsiasi capacità di programmazione futura e autodeterminazione.
Il ruolo critico è stato neutralizzato e si trova oggi a dover riprendere coscienza dei cambiamenti, la critica è oggi in disarmo, ha smesso scoraggiata di svolgere un compito vuotato dei precedenti ideali. La nostra situazione affonda in un mare di indifferenza che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno. Da quando Margaret Tatcher ha sentenziato che la società, per la politica, è morta, demandando qualsiasi responsabilità agli individui, costringendo i nuovi cittadini globali a trovare – come suggerito da Ulrich Beck nel suo “La società del rischio” – soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche, a non fare più affidamento su alcun interlocutore istituzionale, ma solo sulle proprie capacità, tramonta la vecchia domanda “che ruolo ha la critica e quali sono i suoi obiettivi?”, sostituita da un nuovo interrogativo, “chi svolgerà il ruolo critico e quali attori si faranno carico di accogliere le nuove istanze?” ovvero ci sarà qualcuno a criticare e, soprattutto, ci sarà qualcuno disposto ad ascoltare quelle critiche?
Nel globo sempre più frammentato, sempre più singolarista ed individualizzato, se anche le istituzioni e le agenzie di valori hanno smesso di perseguire progetti di lungo periodo e lasciato ogni volontà di orientare l’azione collettiva, pare remota l’ipotesi che le coscienze si mobilitino. Solo in una temibile rinascita romantica sembra nascondersi una via di uscita, solo ridando all’Arte e all’Artista il compito di guidare la critica alla società del nulla si potranno scovare valide alternative all’unica regola dell’utilitarismo economico e evidenziare la tremenda e endemica malattia dell’individualismo senza freni. Il ruolo dell’artista oggi non è più la protesta contro istituzioni totalizzanti e coercitive ma verso istituzioni latenti che hanno lasciato il campo sgombro; l’Artista deve ricucire una qualche cornice comune attorno ad individui sempre più uguali nei loro destini ma sempre più soli nelle proprie vite. L’Artista di oggi riferisce all’uomo dei suoi errori cognitivi, combatte la battaglia contro il disordine che il potere economico utilizza per tenere la società sotto assedio, riporta alla mente umana l’importanza di confrontarsi e giudicare, di esperire modelli valoriali e di vita alternativi e non indifferenti o, in altre parole, di risanarsi da un’imperante, ipertrofica imbecillità.