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Picciridda – Catena Fiorello

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Cosa può accadere di particolare a una “picciridda” che nei primi anni Sessanta abita in un paesino, Leto (Letojanni), posto lungo la costa della Sicilia orientale tra Messina e Catania?

Può accadere, ad esempio, che i genitori si trovino costretti a emigrare in Germania e che decidano di portare con loro solo il più piccolo dei due figli affidando “la grande”, sebbene pur sempre picciridda, alla nonna paterna dal carattere burbero.

Ed è quello che accade a Lucia, la piccola protagonista del romanzo d’esordio di Catena Fiorello.

Lucia è figlia di emigrati e vive questa sua condizione sentendosela addosso come un marchio negativo. È consapevole, Lucia, che per lei – e per tutti coloro che non sono figli “della gallina bianca” – la necessità implica sacrificio e rinunce. Lo sa bene. Lo dicono tutti. Lo ripete la nonna. Ma qual è il prezzo che bisogna pagare? E fino a che punto il gioco può valere la candela?

“… quanto valeva tramutato in denaro il dolore dei miei per avere lasciato la loro casa, il loro paese e le loro piccole certezze? (…) Risvegliarsi in una città che non gli apparteneva. Lavorare tra persone che non avevano mai conosciuto prima. Vedere il buio sin da quando si risvegliavano per andare al lavoro per poi ritrovarlo a fine giornata quando uscivano dalla fabbrica. Non poter fare, quando ne avessero voglia, una passeggiata al mare, per respirare un po’ di felicità…

Per quel che ne so io – tradotti in denaro – quei sacrifici avrebbero dovuto rendere ricchi i miei genitori, e tutti quelli che come loro hanno rinunciato a un pezzo della loro esistenza in cambio di un lavoro. E quando poi sono ritornati nel paese dal quale erano partiti, avevano perduto per forza di cose una parte di vita, fatta di rapporti umani, amicizie, frequentazioni e quotidianità. Così non erano né di qua né di là. Infatti erano emigrati. Un’altra cosa…”

Ma a Lucia non rimane che accettare la situazione e concentrarsi sul rapporto, non sempre facile, con la nonna.

Ed è proprio il rapporto tra nonna e nipote uno dei punti di forza del romanzo. La nonna, Maria Amoroso, deve tenere le redini di questa famiglia sui generis, spezzata dalla temporanea assenza della generazione di mezzo e ridotta a un rapporto a due. E allora giù con gli ammonimenti e con i rimbrotti, ché male non fanno: “Ti fidi troppo della gente, stai sempre con la bocca aperta a raccogliere le api. Credi all’asino che vola, e parli delle tue cose con tutti (…). Ma ti faccio cambiare io la testa! Per stare bene in questo mondo, picciridda, non si può essere buoni, sennò ti mangiano viva, con tutte le scarpe!”

Lucia sa che la nonna non ha avuto una vita facile e che dietro la sua facciata arcigna si nasconde il volto, la figura, di una donna che ha dovuto convivere con un passato duro e un destino avverso; e che, come la stessa nonna avrà modo di dirle, ha reagito lottando. “(…) La lotta di una donna contro il mondo, piccolo e ottuso, di un paese ignorante come questo, in cui io e te viviamo.”

Una lotta che, a volte, è trasbordata in clamorosi atteggiamenti di rivolta. “(…) ogni tanto uscivo la sera; giocavo a carte, fumavo il sigaro e bestemmiavo. Tutte cose impensabili per una donna di quegli anni. Anche adesso lo sono. Ma io lo facevo in preda a una grandissima insoddisfazione. Ero una donna sola. Tristemente abbandonata a se stessa. Era il mio modo, personale e incomprensibile, di vivere l’infelicità. Mi lasciavo andare alla vita. Nella nebbia del fumo, che lasciavano i sigari dietro di me, spegnevo una parte della vita stessa.”

Ma la vita non è facile nemmeno per Lucia.

In un paese come Leto, dove il mondo si riduce a poco, fino a diventare nulla se non hai l’affetto dei tuoi a portata di mano, se vuoi sopravvivere devi trovare una valvola di sfogo per irretire la frustrazione e tenere a bada la tristezza.

“Scattò così, all’improvviso (…) il bisogno di togliermi gli zoccoli e di mettere i piedi nella sabbia. Da quell’istante non smisi più di volerlo fare. Ne traevo gioia e conforto. (…) Con i piedi nella sabbia quella sera capii che si può essere più forti di qualunque dolore. Quella sera. Fu lì che compresi inconsapevolmente il valore di quella scoperta.”

In questo romanzo d’esordio Catena Fiorello presta la voce alla picciridda Lucia, e lo fa delineando personaggi credibili e descrivendo scenari caratteristici.

Con una scrittura semplice, a tratti immaginifica, ed esente da arzigogoli aulici che ne inficerebbero la fluidità, la storia si dipana seguendo il corso di un’aneddotica dagli alterni contenuti – dall’austero, al quasi-comico fino al tragico – e sempre filtrata dal punto di vista dell’io narrante (Lucia).

La Fiorello dimostra di saper usare i ferri del mestiere. Molto spesso chiude un capitolo rinviando (e ammiccando) a fatti ed eventi che verranno svelati più avanti nel corso della narrazione, con l’obiettivo di legare il lettore alla storia stipulando una sorta di patto implicito.

Nella parte finale del libro, nell’epilogo, incontriamo la Lucia dei nostri giorni: una donna che, ormai realizzata, ha chiuso i conti con il passato (un passato che, come il lettore avrà modo di scoprire leggendo, è macchiato da un evento traumatico e inatteso). La scrittura dell’epilogo, come è giusto che sia, ha un tono più elevato, più lirico rispetto al resto del romanzo (stavolta, del resto, la voce narrante non è più quella di una picciridda ma di una dottoressa, di un medico).

E nell’epilogo, toccante e ricco di sorprese, le sottotrame aperte nel corso della narrazione vengono abilmente chiuse. Rimane aperta invece la coscienza di doversi misurare con “un passato che pare riproporsi, oggi, in un’altra veste, ma con lo stesso triste spirito…”

E il ricordo dei genitori e dei sacrifici sopportati diventa occasione d’accusa per additare una vergognosa condizione di disagio che, mutati attori e palcoscenici, si ripropone con scenari simili.

“C’erano giornate lunghe in cui mio padre rientrava la notte, soddisfatto. In quelle ore estenuanti, di cazzuola e sogni a occhi aperti, lui aveva trovato la sua redenzione, e mia madre lo aspettava rassegnata.

Loro e quella moltitudine di gente salita in quei treni sconquassati, senza ricevere né trofei, né coppe, né attestati. Gente che aspettava anche anni per permettersi un cesso in casa, e gli operai mangiavano in piccole capanne fuori dalla fabbrica il loro pranzo fugace.

E c’è chi dice che tutto ciò è retorica fine a se stessa. Ma per loro parleranno i figli, parleremo noi, che abbiamo ancora gli occhi puntati verso quel viaggio che non è finito mai, continua ancora, attraverso carrette che chiamano barche, provenienti dall’Africa e viaggi disagiati dall’Est…”

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