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Sguardo di transito – Franco Romanò

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«Ho lucidato navi, ho impanato la gramigna,/ tra signori intelligenti ho fatto il finto tonto./Ho smerciato semi di girasole, pane, libri,/ giornali, versi- quel che al momento era più facile. […] Come che sia, ormai l’inventario è pronto./ Ho vissuto – e di ciò sono morti altri.» (A. József, L’inventario è pronto).

Giano, divinità esclusivamente romana, era una personalità mitologica legata alle porte di casa e ai passaggi: portava in mano, come i portinai, una chiave e un bastone, ed era raffigurato con due facce, per custodire entrata e uscita; sempre a lui si attribuiva un culto speciale, al principio di una guerra, precisamente al momento in cui l’esercito scendeva in campo[1]. Giano è il nome del protagonista dell’ultima fatica di Franco Romanò, un viaggiatore solitario che aveva rinunciato alla macchina fotografica e alla cinepresa: una personalità che ha incontrato luoghi, atmosfere, odori, sapori. Ambiguo, volutamente immerso nella dimensione del ricordo che, da viatico per il passato, si trasforma in passaporto per il presente: la curiosità, l’amore per la vita, il fascino verso l’alterità, sono gli elementi fondamentali non solo del percorso di Giano, bensì di quello che lo stesso autore compie restituendo- in qualità di custode della memoria- le affascinanti esperienze dell’amico.
L’inafferrabilità, la complessità umana oltre i confini geografici eppure dentro i limiti dell’umano destino, sono il vero ‘luogo’ che ospita le peregrinazioni del protagonista, gli incontri (penso alle figure femminili, Sfinge, Aracne e Antigua, ma non solo), i frammenti di vita che il lettore segue con facilità grazie ad una evidente e sensibile capacità di ripercorrere, attraverso la parola, immagini care e conversazioni-chiave per entrare meglio nelle intenzioni del protagonista.
Sguardo di transito è una narrazione costituita e dedicata ai racconti di viaggio, all’idea che il viaggio stesso non è un meccanismo in grado di colmare le distanze, ma è certo un mezzo per spingerci ad accarezzare, a sondare, a scoprire cosa apprendere da esse, come ridurle, come afferrarle.
In sintesi, oserei parlare di questo volume come di un’opera dedicata al Tempo e al Luogo: il primo inteso come kairòs, come momento, occasione, esperienza, frutto da cogliere e custodire, il secondo in qualità di topos, spesso-non casualmente- in corrispondenza o in contrapposizione con i personaggi.
Il Tempo è dunque circostanza di scoperta e di individualità, di ricerca, così come il Luogo è sì spazio fisico-geografico ma, anche e soprattutto, spazio dell’anima, sede di umane corrispondenze e amorevoli conflitti.
Atmosfere raffinate, solitudini amorose, profumi colorati e odori accecanti, pervadono la mente del lettore e lo spirito del viaggiatore che attraversa Europa, Asia, Africa e America con sorprendente facilità, con rinnovato entusiasmo, a seguito dell’antico modello dell’homo viator.
Romanzo di piacevole intensità emotiva, in cui si rende visibile l’idea della scrittura come forma di amore e di superamento (in senso lato), di confronto con l’alius nelle sue sfumature linguistiche, nelle pieghe degli accenti, nella creatività individuale. Lettura consigliata ai moderni Jonathan Swift, come pure a chi non disdegni risvolti filosofici non meramente formali, bensì contenutistici, dentro l’essenza dei viaggi come esperienze di vita che la modificano, la arricchiscono, la personalizzano.
Pessoa avrebbe concluso dicendo che La vita è/ ciò che facciamo/ di essa: avrebbe poi aggiunto che I viaggi sono i viaggiatori e che ciò che vediamo è ciò che siamo. Chissà se Giano, aprendo la porta della memoria e chiudendo quella dell’oblìo, ha sfiorato col pensiero le parole del poeta…Chissà quanto è sottile il gioco fra Giano e Franco… al lettore l’ardua sentenza.


[1] F. Palazzi, Mythos- dizionario mitologico e di antichità classiche, Milano, Mondadori, 1990, p.134.

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