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Pupazzettismo all’italiana

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Si dice che Joseph Pulitzer, affidando un pezzetto del suo giornale alla creatura di Richard Outcault, gli raccomandò i padri, non i figli.

In realtà fu un colpo al cerchio e uno alla botte: i papà avevano i mezzi per acquistare i giornali, ma quando avevano finito di leggerli, i loro pargoletti si fiondavano a cercare quelle macchie di colore che tanto li attiravano in mezzo a cifre e parole.

Yellow Kid, con la sua facciona tonda e le orecchie a sventola stimolava simpatia.

D’altronde questo è uno degli obiettivi del pupazzettismo fumettistico che, tramite l’uso delle linee curve che addolciscono e tranquillizzano, crea vicinanza ed allegria.

Quelli che vennero dopo non erano tutti materia da infanti, Little Nemo ad esempio con i suoi barocchismi art decò, ma per fortuna quando si capì che in fondo erano i bimbi a comandare, arrivarono le marachelle dei Katzenjammer Kids, la clownerie di Happy Hooligan e la mula Maude con calci nel sedere e torte in faccia da pura slapstick comedy.

La striscia di Castor Oil, con i suoi problemi da piccolo borghese, piano piano dette spazio alla simpatica spacconeria di Popeye; Gasoline Alley, dopo una settimana a descrivere la complicata vita di un padre affidatario, nel week end esplodeva in arzigogoli cromatici e surreali esperimenti visivi che sicuramente affascinavano i giovani lettori.

In mezzo a tutto ciò stava Krazy Kat, sempre in bilico tra lirismo e una semplice mattonata sulla testa.

Poi arrivò Mickey Mouse a sdoganare definitivamente l’antropomorfizzazione, che diverrà uno dei componenti, utili ma non definitivi, del pupazzettismo.

In generale si possono distinguere tre approcci grafici al fumetto: il fotorealismo (tutta l’opera di Alex Raymond e Hal Foster), il realismo fumettistico (Dick Tracy e Li’l Abner ma anche Milton Caniff) e, appunto, il pupazzettismo.

In quest’ultimo è fondamentale l’uso di tre caratteristiche: semplificazione (pochi tratti per definire l’immagine), esagerazione (enfatizzare gli avvenimenti e i sentimenti anche con l’uso di linee cinetiche ed onomatopee), distorsione (l’azione portata all’eccesso, quando il corpo quasi scompare).

Sono le stesse che usano i manga, ma mentre nel fumetto giapponese si utilizzano anche nelle storie serie e drammatiche, in occidente ci si limita ad appiccicarle nei fumetti comici.

Forse così si distinguono meglio.

Vista la poliedricità della sua opera magari Jacovitti potrebbe essere considerato l’eccezione che conferma la regola (lo è sicuramente Massimo Mattioli con il suo sanguinario Squeak the mouse, o tutto l’underground americano anni settanta, Fritz il gatto in testa), ma non più di tanto: il Signore dei Salami usava il grottesco a piene mani, e quello va bene anche per i bambini; anzi, forse sono gli unici a capirlo.

In Italia sulle pagine del Corrierino, tra la prima e la seconda guerra, si alternavano i pupazzetti di Antonio Rubino (che veniva voglia di ritagliare ed appendere tanto erano belli) e il verismo propagandistico di Schizzo di Attilio Mussino, prima ragazzo da trincea poi fedele balilla.

Pinocchio è stato sempre ampiamente saccheggiato (d’altronde chi è più pupazzetto di lui?) in libri illustrati, albetti propagandistici, romanzi che ambivano ad essere un seguito dell’opera di Collodi, avventure fumettistiche.

Mickey fu falsificato da Giove Toppi prima di essere pubblicato da Nerbini con tutti i diritti ben firmati, e alla fine trasformato in Tuffolino da Pedrocchi e De Vita per non infastidire il regime (che in quel periodo, 1942, stava diventando molto nervoso). In mezzo, la prima storia disneyana tutta italiana: Paperino e il mistero di Marte, sempre di Pedrocchi (1937).

Poi finì la guerra e il primo eroe comico nostrano fu Lupettino (1949) dell’omonima casa editrice.

Ma furono le edizioni Alpe (già in attività dal 1941) a farsi carico delle prime corpose produzioni pupazzettistiche made in Italy:

Cucciolo (e Beppe), (1941-1953) di Giorgio Rebuffi, uno dei soli due casi di trasformazione inversa: da animali antropomorfi agli esordi, ad umani nella loro seconda vita editoriale, più importante e longeva;

Tiramolla (1952), nato da gomma e colla, una specie di Mr. Fantastic ante litteram (e chissà che Kirby non l’avesse letto…) frutto di un esperimento fallito dei suddetti due (1952);

il lupo Pugacioff (1959), altro spin-off della succitata serie e come il primo sempre di Rebuffi;

Pepito, il mini-pirata di Luciano Bottaro (1951);

Picchiarello (1956) rivista che conteneva la versione italiana delle storie di Woody Woodpeeker il picchio fuori di testa creato nel 1940 da Walter Lantz.

A differenza degli albi disneyani i nostri eroi vivevano una ben riconoscibile italica realtà (questo succederà anche nelle produzioni marcate Bianconi come Braccio di Ferro, e divenne un vero e proprio marchio di fabbrica) con ben evidenti collegamenti alla contemporaneità: la vita caotica della grande città, i conflitti sociali, i problemi lavorativi. Qualche volta la quarta parete si rompeva ed erano gli autori stessi a diventare protagonisti delle loro storie.

Cucciolo fu un serio concorrente per le produzioni Disney, che comunque intanto proliferavano.

Nell’aprile del 1949 Topolino era passato al formato albetto, proseguendo la storia Topolino e il cobra bianco iniziata nella versione giornale, il quale concludeva così la sua lunga storia editoriale durata per ben 738 numeri.

Sulla versione spillata compariranno, nel tempo, i lavori di grandi autori nostrani come Giovan Battista Carpi, Angelo Bioletto, Romano Scarpa, Luciano Bottaro. Giorgio Cavazzano, Massimo De Vita.

Alcuni di loro, sentendosi troppo costretti dai vincolo artistici (di contenuto e stile) imposti dalla casa madre, cercarono altrove le loro possibilità di sfoco autoriale.

Così fecero Bottaro (Redipicche, Whisky e Gogo), Carpi (le produzioni Bianconi che vedremo tra poco), Cavazzano (Altai e Jonson, Smalto e Jonny).

Nella redazione delle edizioni Alpe si aggirava anche Renato Bianconi, che poi si mise in proprio riuscendo a diventare il centro attrattivo di, quasi, tutta la nostra produzione pupazettistica degli anni sessanta/settanta/ottanta.

Stava iniziando l’epoca d’oro del fumetto italiano, che si concluderà a metà degli anni ottanta con il ritorno dei supereroi (che nel tempo avevano perso il loro smalto) e l’arrivo dei manga.

Le edicole erano strapiene di ogni genere di albi e riviste: neri (Diabolik, Kriminal). horror (Satanik, Oltretomba), western (Pecos Bill), fantascienza (Gesebel, Alika), erotici (Isabella, Zora), guerra (Supereroica), supereroi (tutta la produzione Corno degli inizi), bonelli (Tex, Zagor), riviste (Linus, Eureka), avventuroso (Olac, Sangor).

Molta produzione inglese, ma altrettanta italiana.

Bianconi si ritagliò il proprio spazio immettendo sul mercato una miriade di testate comiche, ma non disdegnando anche deviazioni in territori decisamente più adulti: Uranella, Artiglio d’acciaio, Spiderman (ovviamente non Peter Parker, ma uno strano ladruncolo ipertecnologico).

Molti suoi personaggi hanno fatto la storia del fumetto italiano:

Geppo (1954, Pier Luigi Sangalli, Sandro Dotti, Giovan Battista Carpi); il diavolo buono e pasticcione con le fattezze e le tipiche disavventure di un Fantozzi;

Nonna Abelarda e re Soldino (1955, Giovan Battista Carpi): la prima, attempata virago che menava come un fabbro e anticipava di ben 5 anni Poldino Spaccaferro (Benoît Brisefer, 1960) di Peyo che utilizzerà la stessa formula della solo apparente fragilità (l’anziana, il bambino); il secondo, piccolo sovrano del reame di Bancarotta, nomen omen, al quale la vecchia terribile farà da educatrice;

Bongo (1970, Tiberio Colantuoni): lo scimmione drogato di banane che parlava con cartelli invece delle nuvolette;

Braccio di Ferro (1963, Pier Luigi Sangalli): la sua versione italica, con poderosi innesti della nostra realtà storica e popolare, incroci con altre serie e personaggi fumettistici (arriverà a prendere a pugni Hitler, Gig Robot e perfino Batman!), violenza a pieni pungi (donne comprese) come non si era mai vista nella produzione americana;

Felix, Tom e Jerry (1962-1976): altre versioni italiche di icone americane di fumetti e cartoni animati;

Trottolino e Volpetto (1952-1955, Nicola del Principe): lo scoiattolino fu il primo personaggio di successo per Bianconi; la volpe un altro esempio di antropomorfizzazione al contrario perché così com’era non sembrava logico fosse parente di nonna Abelarda e perciò venne umanizzato in Pipo;

Big Robot (1980, Alberico Motta): non solo una scopiazzatura di Goldrake, ma una storia di fantascienza lunga e ben costruita;

Provolino, Saruzzo (1970-1978): i due personaggi, pur con una propria il primo personalità, derivavano dai due pupazzi che in televisione Raffaele Pisu e Franco Franchi (improvvidi ventriloqui) tentavano inutilmente di contrastare. Non sono gli unici esempi di riproposizione in chiave fumettistica di famosi successi televisivi: nel 1967 la Gallo Rosso editore lanciava Pappagone riproposizione delle scenette del simpatico sempliciotto di Peppino de Filippo, nel 1961 fu addirittura Dino Battaglia a raccontare sul Corrierino le vicende di Topo Gigio che, nel 1994, la FPM riproporrà in una serie ad albetti.

Questo caravanserraglio pupazzettico strizzava l’occhio prevalentemente ad un pubblico infantile, ma era anni luce lontano dal buonismo disneyano.

Oltre ad irascibili marinai e nonnine picchiatrici, tra loro si muovevano strane ombrose figure come Nerone e il professor Veleno il cui obiettivo era annientare la vita sulla Terra, maniaci dell’automobile come Napoleone Sprint che affrontava il traffico come fosse un campo di battaglia, piccoli ducetti come Tarzanetto con sigaro e bombetta, eliminava senza pietà ogni ostacolo, uomo o animale che fosse, sul suo cammino.

I primi due erano di Alberico Motta; l’ultimo di Terenghi.

Alcuni estremamente originali, altri erano un rimescolamento di personaggi già visti e di sicuro successo: Chico (1969, Alberico Motta), ad esempio, un incrocio tra Calimero e Paperino.

C’era altro, ovviamente.

Da citare almeno due autori: Leone Cimpellin, che sulle pagine del corrierino animava Tribunzio il legionario e, sugli albetti della casa editrice Gattei e Pinzi, Alem, copia quasi spudorata di Asterix; Antonio Terenghi, con il suo tenerissimo e baffutissimo pistolero Pedrito el drito (1951) che sulle pagine del Monello e dell’Intrepido più che dai banditi si doveva proteggere dalla terribile moglie Paquita.

Oggidì, di tutto ciò non rimane, quasi, più nulla.

La bandiera per un po’ è stata portata orgogliosamente alta nel cielo dai vari Bonvi, Silver, Bonfatti, Clod, Ortolani.

Topolino e Paperino si sono americanizzati, nei testi e nella mania delle copertine variant, moltiplicando all’infinito le loro versioni alternative pseudo serie (Fantomius, Paperinik), imitando il personaggio del momento (il commissario Topalbano), seguendo le mode (il fantasy, l’horror).

Ma di semplificazione, esagerazione, distorsione c’è rimasto poco o nulla: solo quello che fa sensazione, ma non ha anima.

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