KULT Underground

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Intervista con Giuseppe Verticchio

16 min read

NIMH

Recentemente Giuseppe Verticchio ha dedicato molto lavoro all’organizzazione e alla sistematizzazione di un archivio piuttosto vasto, contenente sia progetti praticamente ultimati ma mai pubblicati, sia schizzi e frammenti abbandonati o idee registrate che, per vari motivi, non furono continuati, anche se alcuni risalgono addirittura alla fine degli anni ’80. A seguito di queste attività, le registrazioni sono state salvate in versione digitale. Questi materiali includevano anche una cassetta intitolata “Before and After Silence”, che è un riferimento all’album di Brian Eno, sebbene il suo contenuto musicale non sia stilisticamente coerente con l’opera del padrino del genere ambient. Sono qui raccolte le registrazioni dei primi anni Novanta, predisposte secondo un concetto editoriale specifico, completo e coerente. Si tratta di brani eseguiti dal vivo, utilizzando principalmente sequenziatori e sintetizzatori insieme ad effetti e all’uso di atmosfere basate su droni e suoni vari precedentemente registrati su nastro. Ora il materiale è stato completamente rimasterizzato ed è stato pubblicato per la prima volta su CD come secondo capitolo della serie “Early Electronic Works” dopo “Caustic / Composite”.

Bandcamp Zoharum: https://zoharum.bandcamp.com/album/before-and-after-silence.

Web Zoharum: https://zoharum.bandcamp.com/

Bandcamp NIMH: https://nimh-music.bandcamp.com/

Web NIMH: http://www.oltreilsuono.com/nimh/

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Intervista

Davide

Ciao Giuseppe e ben ritrovato su Kult Underground. Non posso non partire dal titolo che suona simile a “Before and after science” di Brian Eno. Perché, dunque, questo assonante rimando?

Giuseppe

Prima di tutto ti ringrazio Davide, per la tua disponibilità, e il tuo consueto interesse…

Diciamo che la scelta del titolo del CD, al momento della pubblicazione, mi è parsa abbastanza “obbligata”, in quanto questo materiale proviene da una mia vecchia cassetta dove già all’epoca, sul cartoncino, avevo appuntato a penna questo titolo.

Quando lo scelsi sicuramente Brian Eno era per me (e lo è tutt’ora comunque) un riferimento particolarmente importante; avevo scoperto e apprezzato gran parte del suo lavoro, e, per dirla tutta, esiste anche una mia vecchia cassetta di quel periodo che avevo intitolato “Music for Waiting Rooms”. Quindi ogni riferimento a Eno non è affatto casuale.

In realtà, tra i lavori di Eno, quello in qualche modo da me “citato” (Before and After Science) non era tra i miei preferiti, però ricordo che quelle mie registrazioni, molto dilatate, dai movimenti spesso lenti, ma intervallati da parti maggiormente dinamiche, mi suggerivano ed evocavano, in un certo senso, il forte contrasto tra il silenzio, e ciò che, idealmente, poteva esserci prima e dopo di esso.

Di qui l’idea di citare, riadattandolo, il titolo di quel lavoro di Eno, che comunque faceva parte degli album di questo immenso artista che, proprio in quegli anni, stavo in parte scoprendo e in parte riscoprendo.

Davide

Il suono, o meglio, la percezione del suono è intimamente e indissolubilmente legata alla vita e al vivente, tant’è che un “prima e dopo” silenzio” mi rimanda personalmente alla pre-esistenza (o pre-inesistenza, se preferisci) e al dopo l’esistenza, se implica il ritorno all’inesistenza. Cos’è per te il suono, cosa vi hai cercato in tutti questi tuoi anni di ricerca e produzione?

Giuseppe

Il “Suono” è sempre stato per me qualcosa di tanto “concreto” quanto al tempo stesso aleatorio, impalpabile e indecifrabile. Assolutamente concreto perché posso dire che non solo la musica di per sé, ma prima ancora il “Suono”, che di essa è perno e fondamento, ha pesantemente condizionato tutta la mia vita. Può sembrare un’esagerazione, ma effettivamente è così. Non c’è istante della mia vita, oggetto in casa, amicizia, esperienza di vita, che non sia (o sia stato) fortemente condizionato e interconnesso con l’essenza del Suono, e ovviamente con la musica che è la forma d’arte più “tangibile”, riconoscibile e direttamente riconducibile a esso.

Aleatorio perché è qualcosa che “sfugge” ad ogni definizione, regola, tentativo di comprensione razionale e “scientifica”. Il Suono è prima di tutto emozione, e così come le emozioni è parimenti impossibile da decifrare, schematizzare, codificare, controllare…

Il Suono per me è emozione, e sempre emozioni ho cercato di trovare in esso.

In momenti diversi, con approcci, intenti, motivazioni, obiettivi, mezzi diversi, ho sempre ricercato e “rincorso” un “Suono” in grado di suscitare forti emozioni. Nella musica che ascolto, in quelle che ho fatto e che ancora faccio, ma anche nella più ordinaria quotidianità, quando scelgo di trascorrere parte del mio tempo su una spiaggia, su un sentiero di montagna, lungo un ruscello, all’ombra di antichi ruderi o vecchi edifici abbandonati, o percorrendo una strada urbana frequentatissima caotica e affollata. Spesso è anche il Suono di questi ambienti ad attrarmi e a condurmi ad essi.

Davide

Puoi descriverci la genesi di questi brani e in quale periodo preciso si collocano lungo il tuo percorso musicale del passato?

Giuseppe

Il periodo è più o meno tra il 1994 e il 1995, con certezza un po’ prima del 1996, anno che ricordo bene e che per me fu uno “spartiacque” perché ho vissuto per quasi un anno in Thailandia sull’isola di Samui.

Era un periodo molto particolare… Una quantità enorme di nuovi “input” di tipo musicale mi stavano aprendo orizzonti infiniti. Da una parte ero profondamente attratto da quella che all’epoca si definiva “Computer Music”, ampiamente costruita via Midi (l’Hard Disk Recording era ancora praticamente un’utopia), e spesso “programmata”, “disegnata” più ancora che suonata, con i tools “matita” e “gommina” sul Piano Roll del primo Cubase, creando loops, sequenze “geometriche”, generando infiniti strati e complessi arrangiamenti, sfruttando quindi tutto ciò che le nuove tecnologie iniziavano a rendere facilmente fruibile. E in questo contesto furono per me riferimenti importanti Peter Mergener e Michael Weisser, con il loro progetto “Software”, e tanti altri progetti che all’epoca ruotavano intorno all’etichetta Innovative Communication, quali G.E.N.E., Tamas Laboratorium, Megabyte, tanto per citarne alcuni.

Il mio lavoro principale all’epoca era quello di programmatore informatico, e da appassionato di musica era inevitabile che fossi fortemente attratto da quel nuovo “universo sonoro” che si stava aprendo.

In quel periodo ho composto e registrato molta musica utilizzando questo tipo di approccio, musica che catalogai e conservai per bene fin da allora, ma che non è mai stata pubblicata se non in forma di limitatissime edizioni private in cassetta prima e CD-R poi.

Al tempo stesso però, in modo più o meno parallelo, mi piaceva esplorare sonorità diverse… oscure, drone oriented, statiche, meno musicali. Alcuni riferimenti erano Thomas Köner, Lustmord, Lightwave, Morthond…

E quindi utilizzando anche mezzi diversi dal computer e da sorgenti Midi, registravo lunghe parti di matrice più oscura e meno musicali, utilizzando cassette, effetti, sorgenti sonore delle più disparate, registrazioni ambientali, talvolta però integrate anche da parti che nascevano da qualche sintetizzatore (o expander), sia “reale” che emulazioni software.

Magari mettevo insieme una serie di parti preregistrate di vario genere, e poi “improvvisavo” delle “sessioni live” mandando in esecuzione due o tre sorgenti, aiutandomi con un mixer, e al contempo ci suonavo qualcosa sopra, con il synth e/o utilizzando software basati su sequencers.

Di queste “sessioni live” accumulai tante registrazioni e cassette che però conservai in modo più disordinato, e non portai spesso a pieno compimento, forse perché, all’epoca, pensavo che il “Futuro” fosse più legato alla “Computer Music”, che non a quelle sperimentazioni sonore più “concrete” e “rudimentali” che stavo conducendo come appena descritto.

Anche la qualità audio di questo materiale era tecnicamente molto inferiore rispetto a quanto potevo ottenere sfruttando solo sintetizzatori e rete Midi, e allora non avevo certo gli strumenti attuali per poter acquisire in formato digitale l’audio di una cassetta, restaurarlo, e fare un buon lavoro di mastering con software come quelli che ora invece uso quotidianamente a questo scopo.

Per questa ragione questo materiale è rimasto “congelato” su nastro per tanti anni. E a dire il vero per tanti anni non ho mai neanche pensato di provare a riascoltarlo, recuperarlo, organizzarlo e pubblicarlo.

Davide

Perché proprio in questo periodo della vita senti il bisogno di riscoprire e pubblicare materiale inedito del tuo passato?

Giuseppe

Non è stata una cosa esattamente “premeditata”, ma un’idea che si è formata piano piano a seguito di una serie di eventi.

Molte di queste cassette le avevo portate nella casa di mio padre in Abruzzo, dove vado spesso in vacanza. Gli spazi della mia casa a Roma si facevano sempre più piccoli, e quindi le “depositai” lì dove rimasero “parcheggiate” per tanti anni.

Poi mi è capitato quasi per caso di “infilarne” qualcuna nel riproduttore per cassette… e mi resi conto che al di là della qualità audio e della “organizzazione” un po’ “caotica”, poteva esserci qualcosa di interessante da recuperare. Decisi quindi di riportarle a Roma, dove da poco avevo ricollegato al mio impianto stereo un vecchio riproduttore di cassette per fare lavori di acquisizione, restauro e mastering. A quel punto pensai che potevo dedicare anche qualche giornata ad acquisire quelle mie vecchie cassette… fosse stato anche solo per conservarle come ricordo.

Facendo questo lavoro di acquisizione riorganizzai un po’ meglio il materiale, dandogli un po’ più di “senso” e catalogandolo in modo un più ordinato e razionale.

Mi accorsi che c’era materiale valido, e provai a lavorare su qualche registrazione per vedere come avrebbe potuto rendere con un buon lavoro di restauro e mastering. Rimasi sorpreso della qualità ottenuta, e di trovare, alla “prova del tempo”, molto più “attuale” il contenuto di quelle cassette che non quello di altre cassette che invece avevo già digitalizzato e conservato con cura, e mi riferisco alle registrazioni stilisticamente più attigue alla “Computer Music”.

Di qui l’idea più concreta di provare a pubblicare qualcosa… feci una prima selezione, ci lavorai sù e ne scaturì il doppio CD “Early Electronic Works – Caustic/Composite” pubblicato del 2022 da Zoharum.

Visti i feedback positivi ho quindi pensato di proseguire la “serie”, mettendo a punto il presente “Before and After Silence” che è il secondo volume.

Spero in futuro di avere tempo e possibilità, parallelamente alle nuove produzioni che comunque mi impegnano sempre parecchio, di lavorare a un terzo volume, e magari andare anche oltre.

Di materiale ce n’è tanto, e ancora di più se decidessi di “estendere” la serie a materiale registrato fino all’inizio del nuovo millennio, che includerebbe anche album già usciti ufficialmente in piccole tirature su CD-R (in particolare mi riferisco a “Frozen” e “Line of Fire”, e magari anche “Entities”, una collaborazione con Amir Baghiri, artista iraniano, amico e persona straordinaria) che però meriterebbero una pubblicazione più adeguata e una diffusione più ampia.

Staremo a vedere…

Davide

Nel trattare oggi materiale del passato, di 30 o più anni fa, cosa hai riscoperto o eventualmente rivalutato di te che avevi messo da parte e magari anche dimenticato?

Giuseppe

Diciamo che a quei tempi era molto vivo il senso della scoperta e della sperimentazione. E il tutto era animato da un’esigenza di ricerca pura, spontanea, realmente “ambiziosa” e in qualche modo veramente innovativa. Ricordo l’entusiasmo con cui scoprivo nuova musica e acquistavo CD incredibili che per me sono ancora pezzi storici di riferimento, in tempi in cui l’informazione in merito, e pochissima, circolava ancora su carta, e la musica in rete semplicemente non esisteva.

E la mia musica di quegli anni era frutto di quelle esperienze, di quella “atmosfera”, della consapevolezza che si stavano aprendo porte nuove e fino ad allora inesplorate o quasi.

Poi, già nel giro di una quindicina d’anni, e poi ancora oltre, è cambiato tutto… Nel bene e nel male ovviamente. Tutto è diventato facilmente disponibile e alla portata di tutti. E questo progressivamente ha quasi “cancellato” il fascino e l’entusiasmo della “scoperta”.

Inoltre… gli stessi strumenti tecnologici sono diventati sempre più avanzati, sempre più “abbordabili” (anche economicamente parlando), e sempre più “potenti”, consentendo a chiunque di fare qualsiasi cosa, anche con pochi mezzi, poca ambizione e poca fantasia.

Risultato… la irrefrenabile proliferazione e diffusione, senza alcuna “fisiologica selezione”, di tanta musica “spazzatura”, di tanta altra musica appena mediocre, di presunta “sperimentazione” costituita di rumore e/o suoni più o meno (dis)organizzati e caotici spacciata per musica “intellettuale” e di “avanguardia”, il tutto a volte esasperato da altrettanto inconsistenti e forzose “commistioni” di presunte esperienze “artistiche” di natura diversa. E in questo “marasma”, purtroppo, finisce invece per “perdersi” dell’ottima musica, che non riesce magari a trovare visibilità o una label disposta a pubblicarla su CD.

Nell’ultimo decennio, come reazione istintiva a questa “deriva” della musica e della “scena” cosiddetta sperimentale che nel tempo mi ha un po’ “stancato” quando non “nauseato”, mi sono spesso “allontanato” da essa, percorrendo sentieri più “musicali” e “ordinari” rispetto al mio “solito” NIMH, con progetti quali Twist of Fate, LHAM, We Promise to Betray. Ho “riscoperto” un uso più “consueto” della chitarra, la stessa chitarra acustica che per decenni neanche era più presente nella mia casa a Roma.

All’opposto la recente riscoperta di tutto questo mio materiale d’epoca ha invece “ridestato” in me il forte desiderio di tornare a sperimentare quel tipo di sonorità più oscure, elettroniche, drone oriented e dilatate, seppure mi rendo perfettamente conto che la cosa potrebbe suonare un po’ “anacronistica”.

Però ho dalla mia parte tanta esperienza e tanta conoscenza del “terreno” nel quale tornerei a muovermi, e quindi “potrei” (almeno potenzialmente, è un auspicio, non una certezza) riuscire nell’intento di mettere a punto un’opera che possa comunque distinguersi ed “elevarsi” almeno un po’ rispetto alla media di quanto circola in questo ormai “affollatissimo” e “inflazionato” ambito musicale.

È stata importante questa riscoperta, il tornare anche con la mente e con i ricordi ad un periodo così fondamentale, “intenso” e di svolta, per la musica di ricerca stessa, e per me che già allora ne ero appassionato fruitore e, nel mio piccolo, anche “artefice”.

Diciamo che la mia pluridecennale “avventura” musicale procede e si evolve nel tempo un po’ “a fasi”, e chissà che dalla riscoperta di questo vecchio materiale non possa nascerne una nuova e un po’ “diversa”.

Davide

Qual è stata la tua poetica/estetica iniziale, quale quella odierna? Com’è cambiato il tuo approccio alla creazione?

Giuseppe

Su questo credo di poter essere abbastanza sintetico. Pur essendomi “mosso” all’interno di situazioni musicali molto diverse, anche dal punto di vista “estetico” e tecnologico, iniziando con mezzi elettronici, passando poi per computer, reti midi, drones, poi tanti strumenti etnici, field recordings, poi ancora tanta chitarra (comunque presente nella mia vita fin dall’infanzia) e via dicendo, il mio approccio alla creazione e la mia “poetica” (se vogliamo definirla così) sono sempre stati basati sulla forte ricerca di emozioni.

Scopo della mia musica è sempre stato quello di emozionare. Ho sempre rifiutato la sperimentazione fine a sé stessa, la semplice “provocazione”, o la ricerca di un contenuto/messaggio di matrice prettamente concettuale e/o intellettuale.

Ovviamente si possono “indurre/evocare” emozioni di tipo molto diverso, a seconda che ci si muova in un ambito post-industriale, piuttosto che pan-etnico, quasi-folk o dark ambient.

Ma l’obiettivo, quello di suscitare fondamentalmente emozioni, “trainare” e “coinvolgere” chi ascolta, è rimasto sempre lo stesso.

Davide

Perché nessun titolo ma solo parti numerate? Pensi che i titoli possano essere fuorvianti rispetto alla fruizione pura e assoluta? Fruizione assoluta che tuttavia confligge con il concetto stesso di musica ambient, che come sai nasce dal presupposto di non essere necessariamente ascoltata, ma fin da Satie come musica d’arredamento o di sottofondo a qualunque altra situazione pubblica o privata, come per alcuni lavori di Brian Eno. Che significato ha per te la parola “ambient”?

Giuseppe

Per quanto riguarda i titoli dei brani di questo CD, non ho voluto “adornare”, con elementi aggiunti a posteriori e in modo un po’ “forzoso”, quella cha era l’essenza originale delle registrazioni originali. Questi brani “giacevano” su una cassetta dove già all’epoca appuntai quel titolo e la semplice numerazione sequenziale dei brani. Non c’era un concetto o un’idea più complessa o “estesa”.

Tutto era molto “minimale”, e tale intendeva essere. Non aveva gran senso cercare di “immaginare” e “formulare” oggi dei titoli, delle “suggestioni”, per registrazioni nate con intenti diversi, e quindi mi sono limitato a “rispettare” quella che era la “natura” di quel materiale, così come è stato anche per il materiale confluito nel primo volume della serie, il doppio CD “Caustic/Composite” cui ho accennato all’inizio.

Personalmente uso il termine “Ambient” in modo molto lato, quindi non tanto per definire in modo preciso e specifico un solo, determinato e ben “codificato” genere musicale, quanto per identificare almeno parte dell’ “intento” e delle sonorità rilevabili in un contenuto sonoro.

È un termine che, nella mia interpretazione, aiuta a identificare alcuni elementi “chiave”, e, almeno parzialmente, un certo tipo di “ispirazione”. Ma solitamente non sto lì a “pesare” sempre con rigore il senso delle parole che utilizzo… Se usare un termine, anche in modo un po’ “improprio”, mi risulta utile per far comprendere meglio il senso di un concetto o di un’idea che sto esprimendo… lo faccio senza farmi troppi problemi.

Davide

La canzone, per esempio, ha una sua struttura più o meno standard fatta di strofe e ritornelli ripetuti e alternati e altre parti a introduzione, ponte e conclusione. Il tutto determina per l’autore la sensazione di compiutezza del brano composto: un inizio, uno sviluppo e un culmine, una fine. Il che definisce anche la durata del tutto. In brani indeterminati in cui il suono fluisce liberamente, cosa stabilisce per te la durata? Quando è il momento di chiudere ciò che potrebbe fluire ancora per un tempo anche maggiore data la sua natura sonora indefinita o indefinibile strutturalmente?

Giuseppe

Ecco… È la domanda che spesso mi pongo anche io quando mi capita di ascoltare album/brani che evidentemente non hanno “l’intento” di fungere da semplice sottofondo (e qui ovviamente la “misura” del tempo è abbastanza secondaria) ma al tempo stesso non sono sufficientemente mossi/elaborati/articolati/avvincenti da poter catalizzare l’attenzione (e suscitare interesse) per l’intera durata dell’ascolto.

Posso risponderti in modo piuttosto banale… Se una musica è “pensata” come sottofondo musicale, allora la questione diciamo che non si pone. In tutti gli altri casi, semplicemente, la musica non deve annoiare. Ovviamente può esserci qualche “fisiologico”, talvolta anche “strategico”, calo di tensione durante un ascolto completo. Ma se questa cosa alla fine conduce l’ascoltatore all’indifferenza prima, alla noia poi, e magari anche a un senso di “fastidio” andando oltre… allora qualcosa evidentemente non “funziona”.

Non posso dire di non aver mai “peccato” un po’ di ridondanza in 30 anni circa di attività musicale, e più di 35 CD pubblicati, escludendo CD-R, cassette, compilation, partecipazioni a CD di altri artisti e ovviamente materiale ancora del tutto inedito…

Però questo è un aspetto cui cerco comunque di fare sempre attenzione.

La risposta più “spicciola” è: come minimo è opportuno “chiudere” quando non c’è più grande ragione di andare avanti nello stesso modo, e non si è in grado di introdurre qualche significativa variazione che possa catalizzare nuovamente l’attenzione e porsi come nuovo “filo conduttore” per il prosieguo dell’ascolto.

Davide

C’è altro materiale del tuo passato che hai già ripreso e pubblicato, e altro che ancora aspetta di essere recuperato? Che tipo di intervento vi apporti, oltre alla conversione al digitale per quel materiale a suo tempo registrato analogicamente? Cosa cerchi di evitare? Lasci tutto com’era? Mai avuta la tentazione di inserirvi qualcosa che prima non c’era?

Giuseppe

Di materiale potenzialmente recuperabile e pubblicabile, come ti dicevo poco sopra, ce n’è ancora parecchio.

Quello che ho fatto, almeno fino ad ora, è stata l’acquisizione in formato digitale, e a seguire un certosino lavoro di “restauro”, mirato a togliere/minimizzare fruscii, ronzii, piccoli difetti tecnici, quindi rumori, alterazioni di segnale sui due canali laddove il nastro si è un po’ usurato, eventuali sbalzi di volume, picchi in distorsione, rumori di interruttori, fruscii e scricchiolii di potenziometri… tutto ciò insomma che non era “intenzionale” e che può essere considerato un difetto tecnico.

Al termine di questo lavoro, non proprio semplicissimo, procedo con un più “ordinario” lavoro di mastering, quello che si fa per qualsiasi produzione musicale anche di materiale attuale.

Quindi interventi sul tracciato del volume, sul bilanciamento stereo, sui volumi generali, limiting, compressione, equalizzazione, taglio super selettivo di frequenze specifiche che in alcuni passaggi vanno magari in risonanza e disturbano l’ascolto, tagli, sfumature, ed eventuali ulteriori interventi correttivi di tipo “restauro” su difetti che con il lavoro di mastering vengono ad evidenziarsi in modo più palese.

Finora non ho sentito la necessità di “aggiungere” perché potendo selezionare in partenza le registrazioni migliori e più “complete”, e potendo già con gli strumenti di mastering sopra elencati ottenere notevoli miglioramenti, sono rimasto più che soddisfatto dei risultati ottenuti.

C’è stato solo un piccolo “artificio” nell’ultimo brano del CD, dove ho recuperato da una seconda cassetta una parte finale con il suono di piano, che era però parte di questo lavoro. C’era stato in origine un problema al momento della registrazione, un nastro era finito, e in fretta e in furia ne infilai un altro e ripresi a registrare. Questo causò ovviamente un’interruzione e un “buco” che ho cercato di correggere, con un ritaglio accurato e un crossfade tra le parti. Davvero un piccolo dettaglio direi.

Davide

Sicuramente ce ne è stato poi più di uno, ma qual è stato il primo disco più importante della tua vita? Quale l’ultimo?

Giuseppe

Mi riesce davvero difficile risponderti in modo così “secco”, ma ci provo.

Il primo disco (in ordine cronologico/temporale, e parlo di LP “fisico” tutt’ora posseduto) più importante, che anche alla prova del tempo ha mantenuto per me una grande importanza posso dire “Desire” di Bob Dylan.

L’ultimo, risposta ancora più difficile (sempre in ordine cronologico, e in questo caso parliamo di un CD comunque non proprio recente), quello cioè che forse porterei con me sulla “classica” isola deserta… azzarderei a dire “Pazifica”, dell’immenso, compianto “esploratore elettronico” tedesco Rüdiger Lorenz.

Davide

Cosa seguirà?

Giuseppe

Proprio in queste settimane sto lavorando al nuovo, terzo CD del progetto LHAM insieme a Bruno De Angelis. Saranno dieci brani. La metà praticamente già conclusi, sugli altri c’è ancora un bel po’ da lavorare. Speriamo di concluderlo prima dell’estate, e di vederlo magari pubblicato nel corso del prossimo anno.

Poi altre ipotesi di collaborazioni, idee per altri progetti… ma per il momento null’altro di concreto e già definito.

Davide

Grazie e à suivre…

 

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