Nella grande pianura – Umberto Bellintani
5 min read
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Poesia
Pagg. 296
ISBN 9788804749035
Prezzo Euro 20,00
Canti della pianura
Sarà forse un caso, ma in questa piatta pianura, vicino a un corso d’acqua di grande rilievo come il Po, secoli fa nacque un poeta che con la sua prima opera, Bucoliche, cantò di questa natura, ubertosa anche per l’abbondanza d’acqua del grande fiume e dei suoi affluenti; ebbene, dopo tanto tempo, e questa volta mi riferisco al secolo appena trascorso, è nato un altro artista che con i suoi versi rivela le stesse sensazioni ed emozioni. Diverso è lo stile, completamente difforme è la struttura, ma lo spirito che dà vita all’idea, che nobilita la creatività accomuna Umberto Bellintani a Publio Virgilio Marone. Entrambi hanno visto la luce fra due fiumi, per Bellintani il Po e il suo affluente Secchia, per Virgilio sempre il Po e il suo affluente Mincio.
Sono coincidenze che appaiono tanto più particolari ove si guardi al loro grande amore per la natura; ci troviamo quindi di fronte a poeti territoriali, benché Virgilio risulti indubbiamente padrone di una universalità, rara e e avvincente come poche, ponendosi su un altro livello, e con ciò senza togliere nulla alle indubbie qualità di Bellintani. I tramonti, con le prime ombre della sera che cala rasserenante, i lunghi silenzi, l’isolamento che consente la campagna sono tematiche che ricorrono nel poeta di San Benedetto, uomo che sente il respiro del fiume e della grande pianura e che ne reinterpreta le sensazioni che avverte il suo animo. Eppure, a fronte di tanta serenità, immancabile emerge il rapporto con la morte, lancinante ( Più d’una rete luceva sulle acque, / stillando il sole; di poi si sommergeva. / Ed era un giubilo d’allodole quando / al pescatore sotto riva emerse / il giovinetto da quel fondo, il corpo cereo. / Allora il pianto della madre ruppe in gridi / e quello muto d’altre donne dilagò / ed era greve. /….), o struggente ( Passo di viso in viso e ritrovo il fanciullo / che un crudo morbo mi tolse alla schiera / degli astuti nel gioco dei banditi. / Ha nelle mani il suo arco di robinia / ed è forato nel piede, mi conduce / sulla strada di un dolce ricordo. / / Ezio, mi senti? Sono io, / sono io qui venuto alla tua tomba / e t’ho portato un coccodrillo modellato / colle mani di allora. / / I veri amici sono morti ad uno ad uno / e chi da morte non mi chiama non ha il volto / che amavo, il volto dell’infanzia.) L’ultima poesia mi ricorda, per l’emozione che comporta, un’altra, a me particolarmente gradita, quell’Aquilone con la quale Giovanni Pascoli, nel cantare la morte giovinetto di un compagno, canta anche la morte della gioventù. Ebbene anche in Bellintani l’età, che tanti definiscono giustamente la più bella, non è vista con nostalgia o con rimpianto, ma solo come la fine definitiva di un periodo che infatti mai più potrà tornare.
Uomo di pianura, anzi della terra in cui affonda le radici per cercare se stesso, il poeta di San Benedetto è tuttavia capace di trasmettere in versi il respiro della natura, la forza arcana della stessa, in una visione arcaica che credo non abbia eguali nella poesia del secolo scorso. Però non mi si venga a dire che parla di un mondo che non c’è più, perché invece c’è ancora, all’apparenza mutato, ma il cui spirito permane, un soffio di esistenza che resiste alle barbarie umane, alle distruzioni scellerate, e che l’animo, aperto, spalancato del poeta chiaramente avverte e di cui dà contezza.
Ed ecco che allora si comprende che fil rouge ricorrente della morte non è altro che un aspetto del ciclo della vita con il quale si avvia il processo del ricordo, l’unico perché qualcosa resti di tutta un’esistenza.
Sono tante le poesie di questa raccolta, e del resto abbracciano un lunghissimo periodo di tempo, in una varietà di argomenti che se non stupisce almeno per certi aspetti sorprende. Ma su tutte è la natura che fa da padrona e ricollegandomi a quel fil rouge di cui ho accennato mi permetto di riportare l’ultima lirica, come definitive sembrerebbero le ultime volontà in essa espresse e che riassumono sì il pensiero di Bellintani, ma anche le caratteristiche di questa gente di pianura che vive accanto al grande fiume. Si intitola Anche per me quella bandiera: “ anche per me una bandiera rossa, / e un po’ di gente malvestita da Bardelle / venda da Brede, da Camatta, Pontevecchio / in bicicletta, con le brache di fustagno / lise e la vecchia mantellina di una volta. / Voglio morire d’inverno, in misura che l’uomo è sulla terra: / povera cosa, malcerta, non sicura / d’essere uno o nessuno , un topo o un gatto, / una ciabatta, un coccio nero di bottiglia / per l’altrui piede o per il proprio. / Anche per me dunque quella rossa / bandiera popolana. E in tutta fretta 7 mentre la neve sfarfalla il vento rigido / io sia calato nella fossa. Quando ritorni / alla sua casa ciascuno e all’osteria / per ricordarmi quel poco che mi basta / udirli ancora, un minuto prima che / morte completa mi abbia interamente. / Intanto dico che sarà per me un conforto / anzi una gioia sapermi con la povera / Tina Mazzali. Rammentatela. Vi prego.”.
Non credo sia necessario che aggiunga altro, perché Umberto Bellintani, come tutti i poeti, quelli grandi, deve essere solo letto, lasciandoci trascinare dal flusso di immagini e di pensieri che i suoi versì, così evocativi, sono lì in paziente attesa per essere colti.
Umberto Bellintani (San Benedetto Po, Mantova, 1914 – Mantova 2000) poeta italiano. Al centro dei suoi versi, aspri e insieme vibranti di affetti, è il paesaggio natale, un mondo paesano che fa da scena alla grazia dell’infanzia, al dolore comune degli uomini, a improvvise aperture mistiche: Forse un viso tra mille (1953), Paria (1955), E tu che m’ascolti (1963). Pur continuando a scrivere, scelse per molti anni di non pubblicare, ma nel 1998 diede infine alle stampe Nella grande pianura, il suo libro più importante, e Canto autunnale.