Venezia 2023
9 min read80a MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA
Terminata anche questa 80a edizione, si conferma ormai la buona organizzazione e la gestione di un evento che ormai, al di là delle polemiche di routine sui prezzi alti, il sistema di prenotazione, i collegamenti, ecc.., ha trovato un equilibrio in cui ci si può concentrare sempre più sulle pellicole e sempre meno sull’accesso alle sale. Dopo gli anni di grandeur, in cui si era sognato un nuovo palazzo del cinema, e nell’evidenza di un fallimentare progetto, soprattutto nell’idea di allestire un’area totalmente nuova, in un pezzo di città, il Lido, totalmente isolato in una realtà già isolata come quella veneziana, per avere, qui, come non mai, la classica cattedrale nel deserto da utilizzare una volta all’anno, ci si è dovuti arrendere e accettare quello che ormai, nel nostro Paese, per svariati motivi (da quello economico a quello semplicemente politico – organizzativo) risulta essere il modello di gestione più performante: organizzazioni agili, strutture temporanee allestite all’ultimo (e noi, soprattutto su questo aspetto siamo maestri) e ripristino delle situazioni iniziali. Vedere che a due ore dalla serata pre-inaugurale, ci siano ancora i muletti che girano a portare via i bancali e i rifiuti degli allestimenti, e riuscire a partire all’ultimo minuto come se tutto fosse immutato dall’edizione precedente, rappresenta qualcosa di per sé geniale. Di fatto le uniche strutture permanenti, ed ancor oggi quelle principali, sono quelle allestite all’epoca fascista dal fu Conte Giuseppe Volpi di Misurata, e ci si chiede se, senza di lui, avremmo oggi un Festival Internazionale di questa importanza.
Ma tornando nello specifico a questa ottantesima edizione, dalla sempre puntuale stampa nazionale e dalla ormai consolidata ed autorevole voce dei social, più che il concorso e le pellicole, peraltro di un livello non particolarmente eccelso (opinione sempre personale), a tenere banco, per tutta la durata, è stata soprattutto la polemica innescata da Pierfrancesco Favino, sull’opportunità di utilizzare, da parte di produzioni straniere, attori non italiani per interpretare storie e personaggi italiani, facendo un diretto riferimento al film “FERRARI” di Michael Mann. Ovviamente, come sempre succede in questi casi, si sono create due accese correnti, i protezionisti ed i liberisti, quelli che lo hanno appoggiato rivendicando un onor patrio offeso e quelli che lo hanno attaccato, insinuando interessi personali di un attore fra i più ricercati, in questo momento, nelle pellicole nazionali. Per fortuna c’è anche una maggioranza, più discreta e pensante, che ha classificato l’uscita di Favino piuttosto fuori luogo. Al di là del principio fondamentale che ognuno è libero di allestire i propri lavori come meglio crede, se ci troviamo di fronte ad una grande produzione americana che, anche in chiave commerciale, voglia la grande star internazionale, la polemica risulta essere totalmente irrilevante considerando che, oltretutto, la storia è tratta dal libro di uno scrittore americano (“Enzo Ferrari – The Man and The Machine” di Brock Yates). Per non parlare degli innumerevoli esempi passati (dal Padrino al Gattopardo) che sono stati citati per demolire questa tesi. Dispiace che questa uscita di Favino, che credo abbia parlato in buona fede nella difesa degli attori e del cinema italiani, si inserisca in un periodo politico in cui evocare principi di autarchia sia piuttosto fuori luogo. Al di là della qualità generale, se c’è qualcosa che esce potente dalle pellicole di questa edizione, è la rivendicazione di una libertà dell’individuo che va oltre le sovrastrutture politiche e sociali, più o meno imposte da governi o sistemi economici. Questa ventata di nazionalismi che spira in tutta Europa (e quante pellicole di questa edizione lo hanno rimarcato), contrasta fortemente con l’idea di una cultura condivisa a livello globale, che non vuol dire essere uniformata, ma che semplicemente abbia la possibilità di esprimersi nei diversi aspetti, coincidendo con il desiderio delle persone di spostarsi, di muoversi, di uscire dai propri ambiti, non necessariamente dettate solo da necessità economiche. È difficile coniugare un principio di protezionismo senza precludersi la strada dello scambio culturale. La mancanza di riconoscimento deve stimolare la ricerca del talento e non la protezione di una mediocrità spesso evidente. Se nei nostri anni di splendore cinematografico eravamo noi a creare le grandi star internazionali (Marcello Mastroianni, Anna Magnani ecc..), era perché i nostri grandi registi (Fellini, Rossellini ecc..) e la qualità delle loro opere, li portavano a vincere premi nei maggiori Festival Internazionali.
Proprio la selezione del Concorso Ufficiale di quest’anno, ricca di ben 6 film italiani in concorso, oltre alle altre numerose presenze nelle altre sezioni, è piuttosto sintomatica di questo discorso, e di come, credo, il cinema italiano debba fare altri numerosi step per poter rivendicare un ruolo di indipendenza e di riconoscibilità internazionale. Matteo Garrone (per altro già riconosciuto autore internazionale) con “IO CAPITANO”, ha ottenuto il Premio Leone d’Argento come miglior regia, rappresentando sullo schermo una drammatica storia d’immigrazione, molto attuale e molto sentita. Confrontato però con l’altra pellicola in concorso di Agnieszka Holland “ZIELONA GRANICA (IL CONFINE VERDE)”, dello stesso tema, risulta essere più debole, senza raggiungere quei tratti di drammaticità e di denuncia del film polacco. La sensazione è di trovarsi di fronte ad un premio “dovuto” perché siamo a Venezia (cosa che per altro avviene puntualmente anche negli altri Festival, Cannes in primis), piuttosto che alla validità dell’opera in sé. Se poi analizziamo le altre opere italiane nel concorso di quest’anno, vediamo che nel film di Giorgio Diritti “LUBO”, ambientato nella Svizzera all’inizio della seconda guerra mondiale, dove i figli delle minoranze rom venivano tolti alle famiglie di origine per essere affidati ad istituti e poi dati in affidamento a famiglie spesso contadine che li sfruttavano nei lavori fino anche alla morte, ad una prima parte molto interessante e ben costruita, che preannunciava una grande pellicola, fa seguito una seconda parte che naufraga in una storia sentimentale melodrammatica che annacqua la potenza della vicenda. Parallelamente al film di Garrone, la sensazione è che entrambe le pellicole abbiano avuto il timore di spingersi oltre una forte presa di posizione di denuncia, inserendo elementi “distraenti” per mantenere una distanza più equilibrata agli eventi. Posizione meno radicale ma anche, a mio parere meno efficace, per pellicole di questo tipo.
Saverio Costanzo con “FINALMENTE L’ALBA”, confeziona una via di mezzo fra “L’Amica Geniale” e “La Dolce Vita”, ricordando molto le dinamiche di una fiction con un discutibilissimo finale.
Il film di Stefano Sollima “ADAGIO” è una produzione Sky senz’ombra di dubbio, ma nella sua accezione più negativa. Più adatta ad un catalogo televisivo che alla visione in sala, il film è noioso e già visto, privo di elementi di interesse e di innovazione, gangster story della Magliana, proseguimento idealmente cronologico della serie televisiva, in una Roma sull’orlo dell’apocalisse. “ENEA” di Pietro Castellitto, ci riporta ancora nella malavita romana, questa volta di alto borgo, attraverso la visione di una famiglia borghese. Pur non uscendo dallo stereotipo antropocentrico della romanità, che contraddistingue una marea di pellicole italiane, Pietro Castellitto ha, se non altro, il merito di proporre uno stile originale ed una visione personale spesso ironica e distaccata. Per finire “COMANDANTE” di Edoardo De Angelis, che ripercorre la figura storica del comandante sommergibilista Salvatore Todaro in un particolare momento della sua vicenda militare all’inizio della seconda guerra mondiale. Se la retorica del film improntata sui luoghi comuni dell’italianità (cucina, mandolino e italiani brava gente…) può infastidire (anche se credo voluta per inquadrare meglio il nazionalismo intrinseco nel periodo fascista e rapportarlo con il personaggio), la tesi proposta dalla pellicola del salvataggio in mare è di estrema attualità, quasi banale di per sé, ma che ancora oggi non riesce ad essere recepita, partendo proprio dal nostro vicepresidente del consiglio Salvini, che ha apertamente elogiato la pellicola nonostante vada apertamente contro il suo pensiero al riguardo, manifestato in più di un’occasione nel corso di questi anni. Non è che queste pellicole siano totalmente negative, e non possano trovare spazio in un concorso come quello di quest’anno (ribadisco, piuttosto modesto), ma che non si riesca quasi mai ad uscire dalle sale totalmente soddisfatti è un dato di fatto.
Per quanto riguarda i film premiati, mai stati così facili i pronostici di questa edizione. Il Leone d’Oro a Yorgos Lanthimos per “POOR THINGS” era già scontato al termine della visione in sala, per costruzione e stile cinematografico, interpretazione, leggerezza ed ironia della visione, anche se la storia in sé, non rappresenta tematiche particolarmente sorprendenti. La si può riassumere in una figlia di Frankenstein alla scoperta della propria sessualità, opera meno disturbante rispetto le precedenti a cui il regista greco ci aveva abituato. La pellicola avrebbe meritato anche il premio alla migliore interpretazione femminile ad Emma Stone, se non fosse che il meccanismo di premi al Festival di Venezia è da sempre consolidato nel voler distribuire i riconoscimenti a più pellicole possibili. Per questo la Coppa Volpi alla Miglior Interpretazione Femminile è andata a Cailee Spaeny nel film “PRISCILLA” di Sofia Coppola, biopic sulla vita di Priscilla Presley, a mio parere, tutt’altro che memorabile. Mentre la Coppa Volpi alla Miglior Interpretazione Maschile è andata a Peter Sarsgaard nel film “MEMORY” di Michel Franco, premio che ci sta, considerando la non irresistibile concorrenza. L’altro premio agli attori, il Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore emergente è stato, qui sì scontato, dato a Seydou Sarr sempre per il film “IO CAPITANO” di Matteo Garrone. Gli altri due film facilmente pronosticati a ricevere un premio sono stati il già citato “ZIELONA GRANICA (IL CONFINE VERDE)” di Agnieszka Holland, Premio Speciale della Giuria, e “AKU WA SONZAI SHINAI (IL MALE NON ESISTE)” di Ryusuke Hamaguchi Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria, già vincitore a Berlino e a Cannes. L’ultimo riconoscimento, Premio per la Migliore Sceneggiatura è andato a Guillermo Calderón e Pablo Larraín per il film “EL CONDE” di Pablo Larraín. Anche questa pellicola, tornata ad esplorare il periodo del governo dittatoriale di Pinochet, non mi è parsa all’altezza di alcuni suoi lavori precedenti, nonostante l’originale idea iniziale.
Nell’altra sezione ufficiale del Festival, Orizzonti, si sono visti dei buoni lavori, alcuni film “politici” (“YURT”, “TATAMI”, “TEREDDÜT ÇIZGISI”, “HOKAGE”, “MAGYARÁZAT MINDENRE” vincitore del Premio Orizzonti per il Miglior Film,) che ben testimoniano le difficoltà di alcuni paesi ad accettare processi democratici o semplicemente posizioni politiche differenti, e delle pellicole a carattere familiare (“EL PARAÍSO”, “DOMAKINSTVO ZA POCETNICI”, “PARADISET BRINNER” vincitore del Premio Orizzonti per la Migliore Regia).
Concludendo il report su questa ottantesima edizione del Festival con le mie pellicole preferite, non posso che partire, ad unanimità generale, con l’ultimo lavoro di Woody Allen, sorprendente film dell’ottantottenne regista newyorkese, che con questo “COUP DE CHANCE”, film giallo (anche se riduttivo definirlo tale) girato interamente a Parigi con attori francesi, sembra tornato ai fasti passati.
Nessuna delusione dai film francesi, da me sempre fortemente attesi. Interessanti i due in Concorso Ufficiale: “HORS-SAISON” di Stéphane Brizé, film intimo su una coppia di ex-amanti che si ritrova dopo alcuni anni in una piccola località̀ di mare nella Francia occidentale a ricordare e confrontarsi sulle scelte fatte dopo la loro separazione, e “LA BÊTE” di Bertrand Bonello, film particolare che ci rappresenta una società distopica in cui l’essere umano, aiutato dall’intelligenza artificiale, cerca di salvarsi e di uscire dalla depressione e dalle criticità causate dal periodo che stiamo vivendo attualmente. Curiosamente, pur essendo film completamente differenti fra di loro, è evidente come le sceneggiature siano state fortemente influenzate dal periodo di isolamento causato dal Covid.
Tre bei film francesi Fuori Concorso: “DAAAAAALI!” di Quentin Dupieux, ormai habitué al Festival, con la solita sua filmografia scema, surreale e divertente, “VIVANTS” di Alix Delaporte, regista francese che ci riporta, con un film corale, ai suoi esordi lavorativi, quando lavorava come fotoreporter, e “MAKING OF” di Cédric Kahn, film costruito benissimo su più piani narrativi in equilibrio fra temi sociali, familiari, commedia ed elementi drammatici, probabilmente il mio film preferito di questa edizione al pari di Woody Allen.
Da segnalare anche l’ultimo lavoro dell’infaticabile novantatreenne Frederick Wiseman, presenza costante qui al Festival, che con il suo ultimo documentario di 240 minuti, “MENUS PLAISIRS – LES TROISGROS”, ci porta nei ristoranti della famiglia Troisgros, che da cinquantacinque anni detiene tre stelle Michelin e nel 2020 è stato insignito di una stella verde Michelin per le sue esemplari pratiche sostenibili.
Una raccomandazione sulle pellicole da evitare se le incrociate in sala: “L’ORDINE DEL TEMPO” di Liliana Cavani, di cui preferiamo invece ricordare il meritato Leone d’Oro alla carriera assegnatale in questa edizione, e “THE PALACE” di Roman Polanski, della serie a volte anche i grandi sbagliano…