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Io sono Medea – Claudia Mazzilli

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Nulla Die edizioni (Piazza Armerina 2021)
Romanzo
pag. 151
euro 14
Isbn: 9788869153754

“Glauce raccoglie lo zucchero nel fondo del caffè, ma non lo porta alla bocca. Dopo essersi trastullata con quel tintinnio poggia la tazzina sul vassoio alla massima distanza dalla mia, poi posiziona il bricco del caffè al centro, perfettamente equidistante in questa intersezione di diritti e doveri parentali, dentro famiglie allargate da separazioni, convivenze e divorzi, in questa geopolitica familiare in cui io sono sempre l’esule, la straniera, l’infanticida” (Io sono Medea, p. 89).

Nel mito, Medea è la maga della Colchide che s’innamora di Giasone, l’eroe greco giunto nella terra dei Colchi per conquistare il vello d’oro. Dopo aver aiutato Giasone nell’impresa, Medea fugge con lui ma è inseguita dal padre: la donna fa a pezzi il fratello Absirto e ne getta a mare le carni, costringendo suo padre a fermarsi per raccogliere pietosamente i resti. In Grecia Medea, abbandonata da Giasone per Glauce, si vendica donando alla sposa una corona e una veste magiche, da cui si sprigionano fiamme, con conseguenze mortali. Infine Medea uccide con le proprie mani i figli nati dall’unione con Giasone. 

Negli autori antichi e moderni (Euripide, Seneca, Pier Paolo Pasolini, Christa Wolf) Medea è l’archetipo dello straniero che non si integra, oppure della donna emarginata in una società maschilista. Nel romanzo di Claudia Mazzilli (Io sono Medea, Nulla Die, 2021, pp. 151, euro 14) il mito viene rivisitato in modo radicale: addirittura Medea non ha mai avuto figli, ha divorziato senza traumi e ha buoni rapporti con la famiglia di Giasone, che si è risposato con Glauce, la figlia di Creonte, suo socio d’affari nel settore alberghiero e in un subappalto che consente il transito del cobalto dall’Africa ai mercati internazionali attraverso il porto di Atene, il Pireo, gestito dai cinesi. A Medea invece, ormai quarantenne, non interessano carriera e figli, e per questo subisce spesso una disapprovazione bonaria dagli abitanti della cittadina della Grecia nord-orientale dove ormai vive da vent’anni. Intanto la Grecia è diventata frontiera tra Europa, Africa e Asia. Così Medea decide di creare un centro di accoglienza per migranti, che acquista solidità con l’arrivo di Souba, già attivista politico in Congo, ora compagno di vita di Medea.  La vicenda precipita quando la figlia di Giasone e Glauce muore d’infarto e, pochi anni dopo, il figlio Emone muore di overdose. Qui si consuma la definitiva transizione all’incubo: il racconto da espositivo si fa visionario o tende al declamatorio e al barocco, che per eccellenza è lo stile del trionfo e della decadenza. Sembra che si compia una misteriosa, vendicativa e superiore giustizia ai danni di Giasone, nel quale riaffiora un arcaico istinto di sopraffazione: sua moglie Glauce, persi i figli, si suicida; Souba, che prima di Medea avverte un controllo sempre più opprimente e dispotico, parte senza spiegazioni; Medea subisce violenza da Giasone, resta incinta e usa le sue conoscenze magico-mediche per abortire in casa. Per rivalsa, Giasone fa sgomberare il centro di accoglienza. L’azione si risolve con un deus ex machina: Souba torna con la nave di un’organizzazione internazionale, così Medea s’imbarca, impegnandosi nei corridoi umanitari. Ma non è questo il vero finale, che invece sarà onirico e fiabesco, e che in una recensione non si dovrebbe mai svelare: quel che conta in queste poche righe è capire che Io sono Medea ci parla di questione femminile e di diritti umani violati e che Giasone, l’Argonauta che va in Oriente a conquistare il vello d’oro, è il teorico di un’economia e di una geopolitica basate sulla rapina, sulla sopraffazione, sullo sfruttamento delle risorse naturali a discapito di una parte troppo vasta dell’umanità.

Teodoro Ricciardella è laureato in Lettere all’Università di Bari; è un insegnante e vive a Corato (BA). Ha occasionalmente collaborato con Kultunderground come autore ospite.

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