L’edizione 2020 sarà ricordata inevitabilmente, e speriamo definitivamente, come quella del Covid. Ed anche come una scommessa vinta da parte dell’organizzazione del Festival, della Biennale e di tutte le istituzioni che l’hanno voluta fortemente. A poche ore dalla premiazione finale, sembra (e speriamo che sia confermato nei prossimi giorni) che tutte le misure preventive messe in atto per la prevenzione dei contagi abbiano funzionato. Distanziamento, mascherine obbligatorie durante le proiezioni, accesso in sala contingentato con prenotazione obbligatoria, misurazione della temperatura, sanificazione e buon spirito di sacrificio da parte del pubblico nelle sale, dovrebbero aver scongiurato il peggio. L’edizione appena conclusa, nonostante qualche corrispondenza estera abbia tentato di ridimensionare, ha mantenuto quel livello qualitativo che l’ha contraddistinta negli anni precedenti. Ovviamente, visto l’embargo imposto dalle major americane ai loro film, anche a chi si fosse assunto il rischio e l’onere della partecipazione, non si è potuto godere di quelle pellicole che negli ultimi anni erano state protagoniste non solo a Venezia, ma anche agli Oscar. Ma di questo non se ne può far certo una colpa ad Alberto Barbera ed al suo staff, che hanno cercato di sopperire con pellicole nuove, provenienti da cinematografie differenti, e da registi giovani. Ma al di là dell’aspetto qualitativo del Festival, che comunque c’è stato, quello che ha funzionato è la percezione di assistere ad un’edizione comunque dignitosa, nonostante tutte le limitazioni, data dalla buona presenza degli appassionati in sala, nonostante il contingentamento. La presenza delle persone è quella che ha fatto la differenza, e non quella della gente accalcata per un autografo, ma di quella appassionata nelle sale. Le polemiche sui muri eretti e sulla mancanza di glamour, lasciano il tempo che trovano. Questa era un’edizione che si poteva fare e quindi si doveva fare, ma non per un ipocrita sentimentalismo di ripartenza, ma perché, con le dovute cautele e buon senso, era realizzabile. E, paradossalmente, è diventata un’occasione anche di ripensare ad alcuni aspetti organizzativi che potrebbero migliorare i Festival futuri. La prenotazione preventiva dei posti nelle sale, ha consentito di gestire meglio gli ingressi, senza assembramenti indisciplinati, senza il rischio di rimanere fuori dalle proiezioni, eliminando la fastidiosa corsa ai posti e soprattutto l’irritante prassi di occupare le poltrone per gli amici non presenti. Ha consentito alle persone di gestire meglio i propri tempi, senza l’obbligo di correre da una sala all’altra, recuperando quegli spazi del Festival come le conferenze stampa e le sessioni di Q&A, avvicinandosi meglio alle pellicole ed ai loro autori. Miglioramento che potrebbe portare un ulteriore salto qualitativo in un’organizzazione, già da diversi anni, ben funzionante, a patto che il buon senso delle persone lo facciano procedere in questa direzione. Buon senso è il concetto chiave che può lasciarci in eredità questo Festival, proprio in un periodo, a livello planetario, in cui se ne avverte la mancanza (da buon’ultima, rimanendo in termini cinematografici, le nuove disposizioni dell’Academy sulle pellicole per accedere ai premi Oscar…).
Ma tornando alla cosa più importante, cioè alle pellicole, il verdetto emesso da questa edizione è stata l’assegnazione del Leone d’Oro al film “NOMADLAND”, superfavorito alla vigilia, pellicola di Chloé Zhao, giovane regista di origini cinesi, ma che da anni vive e lavora negli Stati Uniti, all’interno del circuito del cinema indipendente e che si interessa dell’America rurale, già mostrata nel bel lavoro precedente “The Rider”. La pellicola, che si occupa delle comunità nomadi degli Stati Uniti costituite da quegli individui dimenticati dal loro paese e lasciati al loro destino, doveva vincere perché è una buona pellicola e perché, raffrontata con i competitors in gara, era la migliore. La cosa ha fatto storcere il naso a più di qualche autorevole critico (forse verdetto troppo scontato…?), che mal sopportano pellicole che non attaccano in maniera esplicita il sistema politico ed economico, e che ridanno dignità alle persone senza piangersi addosso, accusate per questo di un radicalismo chic al contrario. Poi, come ormai abitudine consolidata al Festival di Venezia, premi a pioggia un po’ a tutte le pellicole migliori. Premio Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria a “NUEVO ORDEN”, film messicano del regista Michel Franco, che si immagina una società distopica violentissima, un futuro che potrebbe non essere troppo differente dalla realtà da lui rappresentata. Il Leone d’Argento – Premio per la Migliore Regia è andato a Kiyoshi Kurosawa per il film “SPY NO TSUMA (MOGLIE DI UNA SPIA)”, spy story ambientata nel Giappone del 1940. Nato come film per la televisione, ne è stata tratta questa versione cinematografica, cosa che forse rappresenta il limite maggiore di quest’opera. Il Premio Speciale della Giuria è andato a “DOROGIE TOVARISCHI! (CARI COMPAGNI!)” di Andrei Konchalovsky, che per l’ennesima volta manca il Leone d’Oro. Il film, che ricostruisce il massacro avvenuto il 1° giugno del 1962 nella città russa di Novocerkassk, dove 87 operai furono uccisi dall’esercito russo in seguito alle proteste per l’aumento dei prezzi della carne e del burro, è una bella pellicola, ben girata e ben interpretata, e che avrebbe probabilmente vinto il Leone d’Oro se non ci fosse stato il film poi premiato. Il Premio per la Migliore Sceneggiatura è andato a Chaitanya Tamhane per il film indiano “THE DISCIPLE”, interessante viaggio nella musica classica indiana. L’Italia si è dovuta accontentare della Coppa Volpi come migliore interpretazione maschile a Pierfrancesco Favino per il film “PADRENOSTRO” di Claudio Noce, premio più compensativo che meritato, in una edizione che, da un punto di vista maschile, non ha comunque espresso particolari performance. Discorso diverso invece per la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Vanessa Kirby per il film “PIECES OF A WOMAN” di Kornél Mundruczó, attrice vera rivelazione di questo Festival, vista anche nell’altro film in concorso “THE WORLD TO COME” della regista Mona Fastvold, film che personalmente ho molto apprezzato ma che è rimasto escluso dai premi. Infine l’ultimo premio ufficiale, il Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente è stato conferito a Rouhollah Zamani nel film neorealista iraniano “KHORSHID (SUN CHILDREN)” di Majid Majidi.
Più che in quella Ufficiale, è comunque nelle sezioni Orizzonti e in quelle collaterali della Settimana della Critica e delle Giornate degli Autori, che si sono viste le cose più interessanti. Fra tutti voglio segnalare due film, l’iraniano “DASHTE KHAMOUSH (THE WASTELAND)” di Ahmad Bahrami, Premio Orizzonti per il Miglior Film e “LISTEN” di Ana Rocha de Sousa (Regno Unito, Portogallo) Premio Speciale della Giuria Orizzonti nonché Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentiis. Entrambe le pellicole trattano argomenti sociali quali il lavoro precario e la famiglia, interessante la pellicola iraniana anche per lo stile cinematografico utilizzato, molto commovente la pellicola portoghese che affronta il tema dei servizi sociali in Inghilterra. Fra i Fuori Concorso volevo segnalare la grottesca pellicola francese “MANDIBULES” di Quentin Dupieux, una divertente commedia da vedere assolutamente in lingua originale per apprezzare, se non altro, l’interpretazione di Adèle Exarchopoulos, anche se temo che uscirà in Italia doppiata, e probabilmente anche male, da qualche coppia di comici televisivi.
L’ultimo capitolo è, come al solito, dedicato al cinema italiano, che, a mio parere, ne esce sempre con le ossa rotte. E la Rai non si è sottratta a questo gioco al massacro, innestando una stucchevole polemica contro la Giuria del Festival, polemica rimandata giustamente al mittente da un sempre lucido Alberto Barbera, ennesima dimostrazione di quanto il direttore della Mostra del Cinema abbia le idee molto chiare sulla gestione della “sua” mostra. Il Concorso Ufficiale proponeva quattro pellicole italiane. A parte “NOTTURNO” di Gianfranco Rosi, che merita un discorso a parte, assolutamente negative “PADRENOSTRO” e “LE SORELLE MACALUSO”, un cinema che non riesce a togliersi di dosso una certa impostazione melodrammatica francamente stucchevole ed una narrazione non sempre logica e lineare. Sono pellicole che si prendono troppo sul serio, discorso che fatalmente va ampliato ad un generale discorso sul cinema italiano. Manca completamente quello sguardo ironico e a volte paradossale che hanno fatto la fortuna del nostro cinema anche in passato e che, a mio parere, dovrebbe in qualche modo contraddistinguerci come filosofia di vita. Affrontare le nostre miserie sociali e culturali contemporanee, che non sono solo nostre, ma riguardano tutte le società in generale, sempre con questo sguardo disperato e drammatico, oltre ad esser fastidioso, non risulta nemmeno utile al messaggio che si vuole trasmettere. Non è un caso che forse la cosa migliore che si è visto quest’anno del cinema italiano nelle varie competizioni, è l’esordio di Pietro Castellitto con il film “I PREDATORI” premiato nella Sezioni Orizzonti per la Migliore Sceneggiatura, con un’opera prima che, se anche presenta alcune lacune narrative nel confezionare un prodotto completamente riuscito, se non altro riesce a comunicarci con grande forza, parte dei difetti e delle schizofrenie della nostra società contemporanea, ridendone ma riflettendone tutta la propria negatività. Del cinema italiano oggi si salva il cinema “non italiano”, quelle pellicole come “MISS MARX” di Susanna Nicchiarelli in Concorso Ufficiale, film sulla vita di Eleanor Marx, la figlia più giovane di Karl Marx, anch’essa militante socialista, o come “NOWHERE SPECIAL” in Concorso Orizzonti di Uberto Pasolini, toccante pellicola familiare tratta da un episodio realmente accaduto, che non guardano alla società italiana e non si interessano ad un discorso su contenuti nazionali, ma che hanno uno sguardo più ampio sulla globalità e sulle storie. Anche Fuori Concorso “LACCI” di Daniele Luchetti e “LASCIAMI ANDARE” di Stefano Mordini, sono film inutili. Solo “ASSANDIRA” di Salvatore Mereu costruisce un film degno di un Festival, portandoci alle radici delle proprie tradizioni sarde. Gianfranco Rosi fa documentari di fiction, e soprattutto in questo ultimo lavoro presentato nel Concorso Ufficiale, “costruisce” immagini splendide e patinate. Ma è appunto quel “costruire” che rende il suo cinema artefatto. Non ha il coraggio di un Frederick Wiseman che sistema la sua camera e gira quello che accade, anche se quello che avviene può essere una semplice riunione, magari anche a tratti non particolarmente interessante. Gira la vita quotidiana, che può essere in un museo, in una biblioteca di New York, in una università, negli uffici amministrativi di una città come Boston (“CITY HALL” Fuori Concorso quest’anno). Questa apparente semplicità, è portatrice di fondamentali messaggi.
Ovviamente questa è la mia personalissima opinione. Troverete in rete, mai come in questa edizione del Festival, i pareri più discordanti sui vari premi, le polemiche verso le giurie, le fazioni che si scontrano su cosa è o non è un capolavoro, su come ci si debba indignare sul “politically incorrect”. Quest’anno era più facile. Non c’era un Joker di turno di una major che mettesse tutti d’accordo…