Renato Podestà – chitarra
Gianluca Di Ienno – organo
Roberto Lupo – batteria
special guest Sandro Gibellini – chitarra su #8
1 – Happy Feet (Ager/Yellen) 2 – Five (Bill Evans) 3 – Blood Count (Billy Strayhorn) 4 – Fascinating Rhythm (G. & I. Gershwin) 5 – Butch and Butch (Oliver Nelson) 6 – Bolero (Renato Podestà) 7 – Heartbeat Sweet (Gianluca Di Ienno) 8 – Exactly Like You (Mc Hugh/Fields)
Irma records, 2020
Primo lavoro da leader per il chitarrista Renato Podestà, dopo dieci anni di frequentazione con il trio e sei album registrati con Sugarpie and the Candymen. L’ispirazione arriva da un lungo viaggio negli Stati Uniti: dalla profonda immersione nella tradizione musicale di New Orleans, alla scena contemporary di New York. Un dualismo che si riflette nella scelta del repertorio e negli arrangiamenti, avventurosi ma fortemente radicati nella storia del jazz, e in cui giocosità e complessità convivono felicemente. Il formato dell’organ trio, oltre al richiamo a John Scofield e Peter Bernstein, rende possibile una grande libertà e comunicazione istantanea con i suoi compagni di gruppo, mantenendo sempre un suono pieno e groovy. Gianluca Di Ienno è il perfetto partner per le sortite solistiche di Renato, col suo senso armonico e ritmico impeccabile, mentre il batterismo dinamico di Roberto Lupo (e la sintonia costruita in quasi 1000 concerti assieme) spingono la musica in avanti apparentemente senza sforzo. Sul disco, anche una traccia registrata in duo con Sandro Gibellini, “Exactly Like You”. Nel testo un richiamo ai “foolish little dreams”: il “piccolo folle sogno” di Renato è di trovare bellezza e significato in fonti musicali disparate come canzonette “syncopated” degli anni 20, melodie bebop, arrangiamenti per big band e composizioni originali, con l’aggiunta di una buona dose di groove di New Orleans e spericolato interplay.
Nato a Piacenza il 7 agosto 1980, Renato Podestà comincia a studiare pianoforte a 8 anni e passa alla chitarra a 12, prima da autodidatta e poi con l’aiuto di insegnanti come Silvio Piccioni, Sandro Gibellini e Roberto Cecchetto. È laureato in chitarra jazz al Conservatorio Nicolini di Piacenza. Ha suonato, dal vivo e in studio, con Renzo Arbore, Shanna Waterstown, Hetty Kate, Teedy Boutté, Kay Foster Jackson, Dave Blenkhorn, Aurore Voilqué, Mattia Cigalini, Massimo Greco, Sandro Gibellini, Alfredo Ferrario, Beppe Di Benedetto, Gianluca Di Ienno, Marco Micheli, Umberto Petrin, Michael Supnick, Stefania Rava, Rossana Casale e Nina Zilli, e ha lavorato a più di trenta album di artisti jazz e pop/rock, sia come musicista che come arrangiatore e produttore. Nel 2008 ha fondato la band di progressive swing Sugarpie and the Candymen, in cui è chitarrista, vocalist, arrangiatore e produttore. La band ha finora pubblicato sei album e si è esibita in jazz club e festival in tutta Europa, come Umbria Jazz, Jazz Ascona, Madrid Jazz Festival, Offtown Festival (Istanbul), La Meridien Etoile (Parigi) e molti altri, ed è apparsa in vari show radiofonici e televisivi in Italia, Svizzera e Polonia. Tra questi il Concerto di Natale in Vaticano (Rai1), Che Tempo Che Fa (Rai1), Quelli dello Swing (Rai2), Stereonotte (RadioRai1), Caterpillar (RadioRai2), Radio2 Social Club (RadioRai2) e Sentieri Notturni (Radio Capital).
Intervista
Davide
Ciao Renato. Questo tuo lavoro nasce da un viaggio negli States, da New Orleans a New York, quindi anche metaforicamente dagli anni iniziali agli ultimi più moderni e contemporanei del jazz? Che tipo di sintesi personale e più generale percorri nelle tue reinterpretazioni di alcuni prescelti classici e nelle due tracce originali, la tua Bolero e Heartbeat Sweet di Gianluca Di Ienno?
Renato
Ciao Davide! New Orleans è stata fondamentale per immergermi in un certo approccio al jazz e alla musica in generale. Là l’aspetto “comunitario” è importantissimo: il concerto ha una sua ritualità collettiva e il pubblico è parte della performance assai più che da noi. Penso derivi dal legame del jazz con la danza, che là non si è ancora del tutto perso; anche la musica più moderna mantiene una pulsazione evidente, e ho trovato le sezioni ritmiche più incredibili. A New York ho potuto conoscere e vedere all’opera una fucina di creatività impressionante, con cui non ero così familiare. Mi piace l’idea di rendere accessibile qualcosa di intellettualmente stimolante: il jazz contemporaneo da noi spesso – non sempre, intendiamoci! – puzza un po’ di accademia.
Davide
Perché hai scelto proprio quelle composizioni di Milton Ager, Bill Evans, Oliver Nelson, George Gershwin, Billy Strayhorn ecc. Cosa le lega a te ma anche qual è per te il legame tra di esse, da quale punto di vista tuo (e vostro) sono state rivisitate?
Renato
Semplicemente erano pezzi che mi piacevano, e volevo reinventarli in una veste nuova. A volte la veste è semplicemente il suono del trio: “Blood Count” è un pezzo talmente bello che già ri-orchestrarlo è interessante. Altre volte è l’accostamento tra i mondi: sentire “Fascinating Rhythm” come un funk in 7/4 o “Happy Feet” (che nasce come canzonetta cantata da Bing Crosby nell’orchestra di Paul Whiteman) perdere la patina anni 20 per diventare un beat second line. In generale, credo che nella discografia del primo jazz ci sia ancora tanta fantastica musica che non è diventata “standard” e che merita di essere riscoperta.
Davide
A un certo punto hai abbandonato lo studio del pianoforte e ti sei dedicato alla chitarra. Cosa ti ha appassionato alla chitarra e cosa è per te oggi il tuo strumento?
Renato
La mia chitarra oggi? È di legno e ha 6 corde 🙂 Seriamente: avevo 12 anni e avevo perso l’interesse per il piano. A casa i miei avevano i dischi dei cantautori italiani, come De André e Dalla, e ho cominciato imparando le loro canzoni. A quindici o sedici anni ho scoperto il blues, Jimi Hendrix e i Cream e ho capito che la chitarra ha incredibili possibilità espressive. Oggi la chitarra è “il mio strumento”, nel senso che è quello che conosco meglio per esprimermi, e mi piace mantenere qualche legame con il rock, ma cerco di non rimanere intrappolato nel chitarrismo: mi piace molto arrangiare e penso che sia fondamentale saper suonare, almeno rozzamente, diversi strumenti.
Davide
Hai dei chitarristi di riferimento?
Renato
Ne ho avuti un sacco! Oltre ai già citati Hendrix e Clapton, il primo che mi ha veramente sconvolto è stato Robben Ford. Ho avuto momenti di seria monomania per John Scofield, Peter Bernstein, Charlie Christian… In Italia, ho un immenso debito di riconoscenza verso Sandro Gibellini, che oltre che essere stato mio mentore, mi ha fatto il grandissimo regalo di registrare con me la traccia di chiusura dell’album. Il mio vero rito di passaggio per il jazz, ad ogni modo, sono stati non chitarristi: Sonny Rollins, Clifford Brown, Cannonball Adderley, Bill Evans.
Davide
Per Dave Brubeck il jazz era sinonimo di libertà. Cos’è per te?
Renato
Concordo con Dave Brubeck al 100%, a patto che chi suona abbia “fatto i compiti” come si suol dire. Troppo spesso sento musicisti suonare approssimativamente perché “fa jazz”, come se improvvisare fosse una scusa per suonare a casaccio. Come diceva Italo Calvino, “Divertirsi è una cosa seria”!
Davide
Parliamo del trio con Lupo e Di Ienno. In inglese il verbo to groove ha il significato di “divertirsi intensamente”… Cos’è per voi il groove e cosa più vi diverte nel suonare insieme?
Renato
La cosa che ci diverte di più è mantenere un’intenzione comune mentre ci ascoltiamo e reagiamo a quello che stiamo facendo; in una parola, l’interplay! Con Gianluca e Roberto c’è un rapporto che dura da più di dieci anni, ci conosciamo abbastanza per poterci prendere delle libertà e dei rischi anche grossi senza che il castello cada.
Davide
Come descriveresti il tuo più personale apporto quando lavori con altri artisti spaziando tra generi e contesti diversi, dal jazz al rock al pop ecc. Cosa cioè cerchi di mettere sempre e comunque di tuo, riconoscibile o meno?
Renato
Beh, capire le aspettative e le necessità di chi ti chiama quando lavori come sideman è fondamentale! Ho lavorato tanti anni in studio di registrazione e ho imparato a mettermi al servizio del committente. Ma per fortuna con il tempo si viene chiamati sempre più spesso da artisti che vogliono un contributo personale anziché un “compitino”.
Davide
La demagogica affermazione “Italia, paese della musica” è talmente comoda e posa su così radicate e sabbiose fondamenta, che tutti possono ignorare il fatto che la musica non è affatto di casa in Italia. Lo scriveva Riccardo Malipiero nel 1960. E nel 2020, dal tuo punto di vista? A che punto è la musica in Italia nel 2020 (inclusa o specialmente quella jazz)?
Renato
Voglio sforzarmi di rimanere positivo: nonostante la situazione in Italia sia di declino culturale imbarazzante, ci sono oggi più musicisti che mai, specialmente giovani. Sta a tutti noi musicisti coinvolgere le nostre cerchie sociali – amici, familiari, allievi, colleghi – e creare il “pubblico” che le istituzioni non aiutano certo a costruire. È un processo lungo e a volte frustrante, ma si può fare!
Davide
Cosa seguirà?
Renato
Ho un sacco di progetti in testa, ma so benissimo che potrò farne uno solo alla volta. Al momento sto lavorando al settimo album della band Sugarpie and the Candymen, con cui lavoro dal 2008. Per il resto, mi piacerebbe registrare un secondo album con il trio e ho un paio di altre idee in cantiere – un lavoro su Bix Beiderbecke e uno in cui io canti anche – ma diamo tempo al tempo…
Davide
Grazie e à suivre…