Bollati Boringhieri Edizioni
Storia
Pagg. 528
ISBN 9788833928296
Prezzo Euro 25,00
Carne da macello
Se la guerra è un’immensa tragedia lo è ancora di più se la mancanza di umanità non è caratteristica del nemico, ma dei propri comandanti. In questo senso la prima guerra mondiale fu una devastante esperienza per i nostri soldati, mandati al macello in insensati attacchi nelle prime undici battaglie dell’Isonzo, costretti a vivere miseramente in trincee inospitali, soggetti a una disciplina più sadica che razionale. Dire che la colpa di questo stato di cose fu del comandante in capo generale Luigi Cadorna appare un’asserzione incompleta, perché se è vero che a lui furono concessi i più ampi poteri è altrettanto vero che il governo che glieli attribuì fu direttamente o indirettamente complice della sua crudeltà. Diciamo francamente che il concetto di disciplina che aveva Cadorna era ben lungi dalla necessità di instaurare una scala gerarchica con ben identificati diritti e doveri per ogni grado, in quanto la truppa non era considerata niente di più di carne da cannone e affinchè come bestie inviate al macello lo facesse di buon grado doveva vivere nel terrore quando anche non andava all’attacco. La più piccola mancanza era punita in modo del tutto sproporzionato e perfino le lettere scambiate con i familiari, se contenevano anche modeste allusioni alle paure derivanti dal conflitto, erano materia per accuse e allestimento di processi, conclusi con sentenze esemplari. Tengo a precisare che un così alto numero come in Italia di condannati a morte in proporzione alla forza effettiva non ha riscontri negli altri paesi belligeranti, e quindi non c’è da meravigliarsi se alla disfatta di Caporetto abbia contribuito un ritrovato spirito di ribellione a una situazione ormai diventata insostenibile. Quindi, quel che si scriveva anni fa nei testi scolastici di storia e cioè di un soldato italiano ubbidiente e disposto a tutto pur di giungere alla vittoria non solo era una falsità, ma era anche la negazione di un fenomeno che non ha avuto uguali nella storia in altri conflitti. Basti pensare ai nostri prigionieri, a cui, a differenza di quegli degli eserciti alleati, non erano inviati dallo stato italiano pacchi viveri e vestiario, ben sapendo che l’Austria e la Germania non avevano la possibilità di nutrirli e di vestirli. Il tutto partiva dall’assurdo concetto che quei soldati rinchiusi nei lager austriaci e tedeschi si fossero arresi unicamente per fuggire i pericoli della guerra. Per qualcuno forse fu così, ma per la stragrande maggioranza no. Questo comportò che su 600.000 nostri soldati in prigionia ne soccombessero per gli stenti circa centomila, un’enormità che avrebbe potuto essere salvata in gran parte senza l’assurdità di non inviare da parte del nostro stato pacchi viveri e vestiario, generi di conforto che, se è pur vero che potevano essere spediti dai familiari, trovavano continui ostacoli nelle spesso misere finanze e in una disorganizzazione postale a cui molto contribuivano i ritardi provocati dall’ossessionante censura. E infatti si controllava tutta la corrispondenza, soprattutto quella che gli internati inviavano a casa alla ricerca di conferme di questa diserzione, tanto che i prigionieri erano considerati alla stregua di criminali, pronti a processarli a guerra finita e a condannarli. Dopo l’armistizio del 4 novembre questi poveri nostri soldati non poterono ritornare subito alle loro famiglie, ma furono internati, sottoposti a interrogatori e a ogni angheria, un comportamento talmente vergognoso che da solo basta a condannare i veri colpevoli, vale a dire il re, il governo e lo Stato maggiore. Di tutto questo parla, sulla base di una rigorosa documentazione, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, il risultato di un grande e approfondito studio svolto da Giovanna Procacci che ha senz’altro il merito di aver svelato un fatto storico in precedenza trascurato, ma della massima importanza per capire tante cose, sia per eventi che caratterizzarono la prima guerra mondiale, sia per accadimenti successivi, perché la storia non è mai il frutto di un qualcosa di improvviso e di impensabile, visto che a ogni effetto corrisponde sempre una causa, magari di molto antecedente. Per quanto si tratti di un testo di storia la lettura è agevole, perché lo stile della Procacci non è mai greve, riuscendo peraltro a interessare sempre più, pagina dopo pagina.
Inoltre, al termine del saggio sono riportate numerose lettere, prevalentemente di protesta, divise in tre gruppi: il primo (Soldati) sono quelle provenienti dal fronte, oppure da disertori che avevano trovato rifugio in Svizzera; il secondo (Prigionieri) sono quelle dei vari prigionieri nei campi di concentramento in Austria-Ungheria e Germania; il terzo (Lettere varie) è costituito da corrispondenza di vario tipo e considerata interessante per i particolari contenuti. E’ quasi superfluo aggiungere che queste testimonianze su carta hanno un notevole valore perchè permettono di comprendere lo stato d’animo dei nostri soldati e, quantunque spesso scritte non del tutto sinceramente per non incorrere nei rigori della censura o per evitare di allarmare i familiari, sono in grado di far comprendere quanto dolorosa, nei suoi molteplici aspetti, sia stata quella guerra.
Per quanto ovvio il mio consiglio è di leggerlo.
Giovanna Procacci, studiosa di storia sociale e delle mentalità, ha insegnato Storia contemporanea presso l’Università di Modena. Tra le sue pubblicazioni recenti: Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalià e comportamenti popolari nella Grande Guerra (1999), Deportazione e internamento militare in Germani. La provincia di Modena (2001), Le stragi rimosse. Storia, memoria pubblica, scritture (2008), Per la difesa della razza. L’applicazione delle leggi entiebraiche nelle università italiane (2009) e Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra (2016).