“Dalle colonne dei quotidiani i legulei del potere parlavano di progresso, di occupazione, di parità nei confronti del nord opulento. E intanto i veleni dell’altra centrale, pochi chilometri più su, avevano sparso semi di morte“.
Con queste parole Osvaldo Capraro, nel suo Né padri né figli, descrive uno dei tanti sfondi della Puglia, stridente con l’iconografia della terra del sole con le sue spiagge dorate, i vigneti a perdersi, il mare che si fonde all’orizzonte con un pezzo di cielo e i trulli spruzzati di bianco. Crudo e col sapore di una realtà non edulcorata, questo romanzo si impone nel panorama letterario come “noir mediterraneo”. Vite e destini diversi si intrecciano in un’unica trama. È la voce dell’autore che, con sguardo attento, sonda i retroscena di una Puglia poco conosciuta, ancora tutta da esplorare, palcoscenico in cui la vita e la morte duellano sulla lama di un coltello. È la terra della Sacra Corona Unita e delle faide per il controllo del potere, degli oscuri intrighi e dei ricatti che si ripercuotono sulla storia di piccoli commercianti, di famiglie senza arte né parte, di adolescenti dagli occhi adulti che si mescolano alle vicende di un clero corrotto o, nel migliore dei casi, disincantato.
Avviene, così, quasi per caso che il Napoletano (capo della Polizia) intersechi la vita di Cosimo (contrabbandiere di sigarette col vizio dell’alcol), manipoli quella di Teodoro (ingenuo scagnozzo della cosca pugliese) e incarni il destino irrimediabile di Mino, giovane promessa del calcio locale di cui il padre abusa e che pure egli ama infinitamente, senza logica, fino a finire in una Comunità in cui tocca con mano la prepotenza e le prevaricazioni di una società senza padri né figli.
Da questo momento, dinnanzi agli occhi del giovane si apre una voragine incolmabile. La sua esistenza è sottile come l’ala di una farfalla, ma la rabbia è tanto intensa da obnubilarne i sensi. Ed è paradossalmente l’impotenza a guidare le sue scelte successive. Deve pur campare, Mino, a costo di scendere a compromessi con una realtà amara che non ha voluto ma non può dissimulare e la cui atroce verità giace tra le parole di Teodoro, il suo unico vero amico, colui che lo inizia alla criminalità: “Che ti devo dire, Mino. Continua a fare lo sguattero nel negozio, continua. […] Bravo, continua così che a quarant’anni avrai la macchina, la casa e un conto in banca. E anche un piccolo problema: la visita, una volta al mese, di quel ragazzino magro, pieno di brufoli, con una faccia da coglione. Appena entra, tu abbassi gli occhi, prendi i soldi dalla cassa e glieli dai“.
È nato con un marchio, Mino, esattamente come la sua ragazza Maria e i coetanei di quartiere, ereditando un fato storto al cui orizzonte non c’è luce e non c’è pace, ma solo l’incommensurabile necessità di sopravvivere. Nessuna possibilità di scegliere.
Gli affetti che gravitano attorno al ragazzo si sgretolano ogni volta che lui li sfiora: Teodoro muore per causa sua, Maria lo molla per un altro. Così Mino non diventerà mai un calciatore. Non incontrerà mai il talentscout delle fiabe moderne che trasforma un nome qualunque in una star. Non calcherà il palcoscenico sfavillante in cui lo sportivo sposa la velina di turno e diventa ricco e famoso. A dire il vero, Mino non diventerà proprio niente.
Né padri né figli è il romanzo in cui l’ineluttabilità si spinge oltre i confini delle periferie sociali e arriva a marchiare di rosso perfino quello che dovrebbe essere, nell’immaginario comune, il rifugio di Dio. La comunità religiosa di paese è chiacchiericcia, dedita al dovere e al gossip casalingo. Il vescovo è un inetto e le voci dei preti che permeano il libro di pagina in pagina riecheggiano la morale dell’utilitarismo, piuttosto che quella dell’amore incondizionato.
Due personaggi, però, sembrano proiettare scarni fasci di luce sulle ombre: si tratta di don Paolo, giovane viceparroco e responsabile della squadra di calcio parrocchiale, e Anna, intrigante educatrice di una comunità per minori. La loro storia d’amore potrebbe offrire al lettore uno squarcio di speranza nel magma di vite arroventate da una corsa su una Delta Integrale Evoluzione verde smeraldo o dalla rituale sparatoria nel centro della città. Eppure, anche don Paolo e Anna vengono fagocitati dal meccanismo che fa arenare ogni possibilità di riscatto. La loro vita sembra essere già decisa da qualcun altro. Le loro vicende sono sigillate dal peccato e le loro bocche sono chiuse dal giudizio della gente, anche quando la voce ruggisce in un tentativo di ribellione.
In una favola a lieto fine don Paolo rinuncerebbe ai voti, sposerebbe Anna e, assieme, adotterebbero Mino strappandolo alle grinfie della mala. Invece, l’inclemenza della realtà assorbe il lieto fine e mostra il giovane prete nella sua fragilità di uomo che non riesce a opporsi alla sua stessa morale, prima che a quella altrui. Troppo preso a risolvere la sua storia con Anna, serve Mino – che si rivolge a lui per trovare riparo da se stesso – alla polizia. Una polizia consumata fino all’osso dalla ruggine della corruzione e che a sua volta, come in una crudele staffetta, restituisce il ragazzo all’unica “famiglia” che sembra in grado di assicurargli protezione.
Il cerchio si chiude e la storia è pronta a riciclarsi.
Ciò che più colpisce del romanzo di Capraro, al di là dei contenuti, è però il linguaggio con cui dipinge questa Puglia ai margini e l’abilità con cui alza il vello su una dimensione spesso giudicata ma raramente conosciuta. Succede, così, che la sua parola si fa veicolo di voci diverse e con modalità altrettanto diverse si esprime: dal dialetto colorito del boss e dei suoi picciotti a quello più squisitamente colloquiale e giovanile di Mino e Maria; dal linguaggio volutamente forbito del Vescovo e di don Antonio a quello diretto e conciso di don Paolo e di Anna. Come in un gioco di ruoli Capraro si divincola in un romanzo a più voci, ognuna delle quali propone al lettore la propria prospettiva e la difende con strenua risolutezza.
Questa è quindi la realtà di Né padri né figli, il mondo inabitabile di Simon Weil citato dall’autore. Una dimensione in cui, alle parole del boss Giovanni: “Posso dire di essere stato un padre per lui, anzi meglio del padre. […] Qui siamo davvero una famiglia. Però la vita funziona così, si fa un po’ ciascuno“, sembra rispondere Teodoro in punto di morte: “E già, l’amicizia non conta niente, […] non contano padri, madri, fratelli e sorelle. Non contano gli amici“. E in chiosa, l’ultimo pensiero che Mino rivolge al suo amico, quando si china ad accarezzare i capelli del cadavere di cui egli stesso è carnefice: “Me lo dicesti tu stesso, Teodo’, se non lo faccio io lo farà un altro“.
una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994