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Jurassic Park

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I primi trenta, quaranta minuti, sono un elogio della visione. O meglio, appena il dottor Alan Grant (Sam Neill) e la sua dolce consorte Ellie Sattler (Laura Dern) arrivano sull’isola di Jurassic Park non fanno altro che sgranare gli occhi e rimanere stupefatti da quello che vedono. In questo non è difficile ritrovare tutta l’estetica di Spielberg (per quanto riguarda il cinema come mondo dell’illusione e della capacità di saper stupire), l’uomo davanti alle immagini è come un bambino, viene rapito in un mondo di fantasie e vi si lascia trasportare. La cosa buffa è che nel momento in cui il film veniva girato, gli attori, in realtà, non vedevano nulla. Quindi tutto il loro stupore (lo sforzo maggiore in film di questo tipo) è completamente fasullo. Sono costretti ad emozionarsi davanti al niente.

Spielberg in questo modo costruisce un immenso pamphlet delle politiche hollywoodiane per quanto riguarda la produzione di un film. E la cosa inquietante è che alla fine non prende neanche una posizione ben precisa davanti a tutto questo. Abbiamo quindi il film “evento”, il kolossal, il lungometraggio ad alto costo che si speri faccia incassi enormi e ripaghi di tante fatiche. Questo naturalmente a scapito di produzioni più economiche ma anche più libere nella propria espressività. I film “evento” devono colpire lo spettatore, devono entrare nell’immaginario collettivo, in parole povere debbono essere macchine da soldi perfette. Come sappiamo, una delle incognite principali del mondo del cinema è proprio quella legata al pubblico, per quanto uno possa fare previsioni e statistiche un film non potrà mai essere costruito a tavolino per il successo. C’è sempre un margine (più o meno elevato) di incertezza e quindi film costati pochissimo possono diventare campioni di incassi e film costati milioni di dollari possono non rientrare nemmeno dei soldi della produzione. E questo, un po’, ci ricorda la teoria del caos tanto cara al dottor Ian Malcolm (Jeff Goldblum). Per ridurre questo margine di cui parlavamo, gli studios, nel corso degli ultimi anni, hanno inventato tutte una serie di accorgimenti. Per quanto riguarda i film in se stessi si cerca di stuzzicare la visione dello spettatore attraverso l’uso sfrenato di effetti visivi. Gli si promette (già dai trailer) qualcosa che non ha mai visto da nessuna altra parte. Come dicevo, infatti, la prima mezzora di Jurassic Park è tutto un “mostrare”. Prima il filmetto educativo su come si sono potuti clonare i dinosauri (ridicolo), poi gli occhi increduli dei personaggi quando vedono “dal vero” questi enormi esseri. L’occhio è quello che deve essere colpito. E questo dal film si trasporta facilmente nella realtà della sala cinematografica. Il gioco di Spielberg è sottile (nella sua perfidia). I personaggi sono sempre stupefatti davanti a quello che vedono, quasi ad anticipare o a prefigurare quella che dovrà essere la reazione dello spettatore in sala.

Poi una delle altre strategie è quella del merchandising (da Guerre Stellari in poi Lucas&Spielberg hanno fatto miliardi con tutta la merce tratta dai loro film) che viene mostrato neanche troppo velatamente all’interno del film. Il logo Jurassic Park è ovunque. Sulle auto, sugli elmetti dei guardiani, sui piatti in cui si mangia. Fino alla completa esplicitazione di tutto questo. Un movimento di macchina ci mostra scaffali pieni di oggetti con il logo di Jurassic Park. Oggetti che non aspettano altro che essere venduti. Pubblicità occulta? Non se ne parlano nemmeno, qui è proprio palese la volontà di sfruttare il film come vetrina per i propri prodotti.

Dopo questi primi trenta, quaranta minuti di assoluta glorificazione delle capacità visive (e di mercificazione) di Hollywood arriva finalmente un po’ d’azione. E non arriva nemmeno troppo gradualmente, esplode e basta. Nell’isola, da una prima parte dove tutto sembrava andare bene, si passa ad una situazione più catastrofica.

Ma analizziamo anche il significato di questo passaggio.

John Hammond, il padrone dell’isola (un Richard Attenbourough perennemente paonazzo) sembra avere una fede unica e positivista nel potere della scienza e della tecnologia (ci risiamo…). Dal canto suo, Spielberg, tra le due, opta sfacciatamente per la seconda. I risvolti scientifici della vicenda (del tutto inventati e inverosimili) servono solo come pretesto narrativo, mentre è lo sfoggio della potenza tecnologica  che sancisce la forza di attrazione del film. E’ infatti la fitta organizzazione di computer a dare al vecchio l’illusione di un controllo totale sulla sua isola. Lo stesso valga per il processo di clonazione, dove attraverso le conoscenze tecniche acquisite si pensa di poter controllare la vita e la natura. E infine la tecnologia come vera protagonista del film, visto che i dinosauri sono creature puramente digitali. Quindi la scienza è solo sceneggiatura mentre la tecnologia riempie lo schermo e dunque anche la nostra visione.

Quando le cose iniziano ad andare male è proprio perché l’uomo perde il controllo della tecnologia. I computer vanno in tilt (per un errore umano) e i dinosauri sono liberi.

Tutto questo (e forse è una delle idee più interessanti del film) è, secondo l’ottica del dottor Malcolm, frutto della teoria del caos. Cioè l’impossibilità dell’uomo di controllare qualsiasi fenomeno. Le cose accadono e si susseguono, a noi è dato di viverle o al massimo di creare teorie sul loro funzionamento, ma non di controllarle. Teoria discutibile o meno, ha però un suo fascino e tra tutte quelle snocciolate nel film è quella che mi ha colpito di più.  Anche perché ho sempre creduto ad una maggiore forza del caos rispetto all’ordine.

Ma torniamo alla storia. I dinosauri adesso sono liberi. Spielberg può quindi virare il suo film verso toni più orrorifici e di tensione. L’azione si impenna, i colpi di scena anche e così pure il coinvolgimento dello spettatore. Ma anche questa, per chi non lo sapesse, fa parte di quelle tecniche di mercato di cui ci stavamo occupando prima. Ad un certo punto di un film di questo tipo deve per forza succedere qualcosa di catastrofico o sconvolgente. L’azione si deve concentrare. Ci deve essere un uso serrato di effetti speciali e situazioni emozionanti, altrimenti il pubblico non rimane intrappolato nell’illusione.

Alla fine, bene o male, tutti si renderanno conto dei propri errori e (naturalmente salvi) se ne torneranno in elicottero verso la terra ferma. L’immancabile tramonto (ma che è la firma autoriale dei blockbuster spielberghiani?) sancirà la fine del film e l’arrivo dei titoli di coda.

Analizziamo anche, per un attimo, i personaggi e i loro rapporti.

I due scienziati sono una coppia che ha messo il lavoro (o per lo meno ce lo ha messo lui) sopra ogni cosa. Li ritroviamo a parlare (ma mai troppo esplicitamente) di figli e di una famiglia. Come se una famiglia senza figli non potesse esistere. E qui il caro Steven, come al solito, trova modo di inserire la sua solita e ormai sempre più stucchevole riflessione sul nucleo familiare. Sull’isola ad un certo punto (sembrava esserne scampati) c’è l’apparizione di due bambini. La loro funzione principale (oltre a quella di attirare il pubblico di loro coetanei che così hanno qualcuno con cui identificarsi) è proprio quella di portare il professore da un’antipatia verso i loro simili alla scoperta di quanto sia bello avere dei figli. La scena finale ha proprio questo sapore. Di un’imminente scopata tra il dottore e la moglie per una degna procreazione che porti avanti se non l’evoluzione per lo meno il continuamento della propria specie.

Basta, per favore, non se ne può più di tali minchiate.

Per quanto uno come Spielberg sia visivamente sfrenato e tecnicamente magistrale, da un punto di vista narrativo non riesce ad allontanarsi da tematiche sempre più infantili e banali, come appunto il modo in cui viene trattato il concetto della famiglia nei suoi ultimi lavori.

Richard Attenborough, come dicevo, sembra invece un beone in perenne stato di eccitazione alcolica. Non so, ma una battuta come “l’ottimismo è il profumo della vita” non gli sarebbe stata male in bocca. Effettivamente lui è due cose. Da una parte è ancora un bambino (non per dire, ma Peter Pan è un altro dei chiodi fissi di Spielberg) che si diverte a giocare. E’ cresciuto, ha un sacco di soldi e quindi può permettersi giocattoli più costosi, come i dinosauri. E dall’altra è rimasto un illusionista. Significativo (almeno per una volta) è il discorso che fa alla dottoressa Sattler sulla sua prima attrazione, il circo delle pulci. Fondamentalmente il Jurassic Park è un immenso e ipertecnologico circo delle pulci, dove quella visione tanto osannata da mr. Hammond si rivela un’enorme bufala (è questo infatti il risultato del primo giro che fanno gli invitati sull’isola).

Infine abbiamo il personaggio di Jeff Goldblum che forse è il più interessante. Sia per le sue teorie sul caos ma anche per una certa lontananza di fondo (venata di ironia) che lo rende più umano e reale dei suoi compagni di avventura.

Jurassic Park resta un film con alcuni momenti girati in  maniera mirabile e con una contaminazione tra digitale e celluloide che ottiene un suo indiscutibile effetto. Ma è anche quanto di più becero Hollywood sta portando avanti in fatto di strategie produttive.

Come dicevo il pensiero di Spielberg al riguardo non è molto chiaro. Se da una parte il messaggio finale del film sembra essere quello di un monito o di una avviso nei nostri confronti; nel lasciare, cioè, la natura a se stessa senza cercare di manipolarla attraverso la tecnologia, dall’altra il film è invece proprio un’esaltazione esplicita della potenza tecnologica e di quello che essa è in grado di creare. Di Jurassic Park poi venne fatto anche un vero e proprio parco dei divertimenti. Forse allora non dovremmo farci troppi dubbi, questo film non è altro che un enorme prodotto commerciale: un po’ pubblicità, un po’ film, un po’ anteprima di un parco delle attrazioni. E’ cinema solamente nelle sue componenti industriali, tecniche e visive. Ma di una storia, di una sceneggiatura e di qualcosa di più profondo non c’è traccia. Eppure Jurassic Park sbancò al botteghino segno che anche la teoria del caos ogni tanto fallisce e che i produttori di Hollywood, forse, alla fine, hanno trovato il modo giusto per continuare a fare soldi.

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