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Francesco Dezio: uno scrittore tra “La gente per bene”

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Francesco Dezio, La gente per bene, TerraRossa edizioni
Narrativa romanzo sociale
Pagg. 207
ISBN: 9788894845051
Euro 15
 
Colpisce già per la veste grafica l’ultimo libro di Francesco Dezio, La gente per bene (TerraRossa edizioni, marzo 2018, pagg. 207, euro 15): in una periferia urbana anonima, un non luogo alla Marc Augé, un muletto trasporta un divano su cui sono appollaiati quattro personaggi vagamente canaglieschi, avviati ad un esodo sbilenco, scalcagnato, che ha qualcosa di steinbeckiano (Sì, John Steinbeck di Furore, lo scrittore americano che racconta lo sfratto delle terre e il viaggio dei diseredati verso l’estremo West per cercare una qualunque possibilità di sopravvivenza ai tempi della crisi del ’29). Questi quattro picari danno le spalle alla meta, come se non dovessero arrivare da nessuna parte. Ognuno guarda in una direzione diversa, chi a destra chi a sinistra, chi punta uno sguardo accusatore verso la gente per bene cui si allude nel titolo: quel che conta è resistere nella propria ostinata solitudine, evitare il contatto visivo. Una ragazza ha un abito da sposa sopra le scarpe da ginnastica: la sceneggiata del matrimonio non l’ha potuta recitare, o non ha voluto, o ha lasciato il progetto a metà. Un uomo già stempiato indossa la maglietta di Superman, ma ha lo sguardo nel vuoto.
Non poteva esserci un’icona più efficace, disegnata dallo stesso autore, a sintetizzare il contenuto mosso e a tratti disturbante di questo romanzo non fiction, che ambisce ad essere il romanzo per eccellenza della Crisi (raccontata da Sud, come Vitaliano Trevisan la racconta da Nord in Works, Einaudi 2016): esso parte con l’ampio respiro dei primi capitoli, che hanno il ritmo epico della saga di una famiglia umile, a partire dalla vicenda del nonno del protagonista, soldato nella Seconda Guerra Mondiale, emigrante in America Latina, poi beneficiario di un lotto agricolo pietroso e incoltivabile a seguito della riforma agraria varata dal governo De Gasperi e finanziata dal piano Marshall. Benché il protagonista si appassioni alla lettura e al disegno grazie ad un amico di famiglia, un anziano pittore autodidatta, è tuttavia indirizzato a studi tecnici, che mal sopporta ma che accetta di completare nell’illusione che il diploma lo aiuti a trovare una sistemazione lavorativa come disegnatore meccanico per l’industria: “riferii loro le esatte parole del professore di costruzioni meccaniche (…): Dopo il diploma inviate subito il curriculum a Maranello. Preconizzava un inserimento di noi allievi nella Scuderia del Cavallino Rampante, lo dava per scontato, diceva che i meccanici vanno via come il pane: È un mestiere che non tramonta mai” (pag. 39).
E invece la polverizzazione del lavoro è il tema centrale di questo libro, che ha un ritmo musicale come i racconti che Dezio ha pubblicato in Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo 2014), dedicati alla musica punk, grunge, post-punk e post-rock e corredati da disegni dell’autore: parla chiaro la citazione in esergo dai Nirvana di Scentless Apprentice (da In Utero): You can’t fire me because I quit: “non puoi licenziarmi perché mi sono già arreso”. Frequenti le giaculatorie contro la cultura borghese e quella di massa prona al consumismo, da parte di un autore da sempre sensibile alle controculture, capace di scrivere con uno stile audace, sperimentale, ma leggibile, pioniere di un’avanguardia che sa parlare a tutti.
 
Al Lavoro, come ad un’entità metafisica novecentesca e ormai puramente immaginaria, il protagonista si rivolgerà nel finale, con toni che oscillano tra la preghiera e l’imprecazione: “Ho da farti una rivelazione, dice questo me all’altro me, ho da confidarti un segreto che poi in fondo non è nemmeno un segreto: il lavoro è finito, rassegnati, basta, non illuderti, non ce n’è più. Lavoro non ce n’è!
Non ti credo! Cucù? Lavoro, dove ti sei andato a nascondere? Fino a quanto devo contare? Dove sei? Lavoro?”
(pag. 188). A furia di essere precarizzato, frantumato, esternalizzato, camuffato in forma di stage, pagato in forma di voucher, non pagato affatto, il Lavoro è scomparso.
È più del racconto dell’impossibilità di costruirsi un futuro, questo romanzo, perché racconta la fine di un’illusione. Nella prima sezione dell’opera, con la descrizione dei ritmi concitati di produzione (pag. 67: “a lui importa solo che sforniamo disegni come fossero pizze al trancio. Se soddisfo questo principio c’è la prospettiva del tempo indeterminato”), i toni sono ancora quelli di Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004: l’opera d’esordio dell’autore, assai ben accolta a suo tempo dalla critica, è stata ora ripubblicata da TerraRossa). Nella parte centrale del romanzo, invece, l’io narrante vaga per la città o per le campagne, ingannando il suo tempo di sfaccendato in analisi sulle cause ed effetti della sua condizione presente: da questi bighellonamenti, infatti, si sviluppano capitoli che, in forma di digressione, sono un affresco allucinato, tragico eppure esilarante delle periferie urbane e del degrado delle campagne, di zone industriali dismesse che sono pezzi di archeologia, come quelle legate alla produzione del mobile imbottito (ecco il perché del divano in copertina), oppure biografie di imprenditori (quasi sempre in combutta col malaffare oppure privi di una visione di futuro) paradossali eppure assolutamente verosimili, tanto sono radicate nel quotidiano.
Ne viene fuori un romanzo-saggio scritto con una lingua deformata e sperimentale, che attinge al gergo della fabbrica, al politichese, all’aziendalese, al dialetto, come le opere precedenti di Dezio: “Come già in Volponi e poi soprattutto, con scelta più estrema, in Balestrini, alla lingua di forte impatto espressivo, capace di occupare ogni angolo dello spazio narrato, inseguendo personaggi e situazioni per adattarsi al loro tono e alla loro voce si affida il compito di estrarre il male morale per dargli forma e renderlo raccontabile” (Silverio Novelli su www.treccani.it).
Nell’ultima parte il ritmo si fa lento, lo spazio claustrofobico: l’ormai quarantenne disoccupato di lunga data è colto in un’inerzia sempre uguale a se stessa, disperata e disperante, chiuso in una stanza di una casa di periferia come in una cella. Il protagonista abbandona relazioni, amicizie, affetti, in una lenta deriva. Eppure un ultimo scatto della volontà lo metterà in salvo, in un finale che resta comunque aperto.

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