KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Intervista con Enjoy The Void

10 min read
 
Dopo un’anteprima streaming in esclusiva su RockON esce l’album omonimo d’esordio della band alternative rock
 
 
 
Enjoy the Void è un progetto alternative rock nato a Sapri (SA) nell’autunno del 2015, la cui idea originaria risale però ai primi mesi del 2004, quando Sergio Bertolino (autore, compositore, cantante e tastierista originario di Reggio Calabria) vive a Manchester. In quel periodo prende forma gran parte del materiale confluito nell’omonimo album d’esordio della band.
Dopo qualche anno, Sergio reincontra il bassista Tony Guerrieri (che a Torino aveva già collaborato con il cantautore reggino) creando i presupposti che hanno portato alla piena realizzazione del progetto. In breve tempo il progetto solista di Sergio Bertolino diventa una vera e propria band: ad affiancare Sergio e Tony arrivano il batterista Francesco Magaldi, i chitarristi Lucio Filizola e Giuseppe Bruno nonché il fonico e chitarrista Giovanni Caruso.
Il loro album d’esordio si caratterizza per la contaminazione di stili e le sonorità eterogenee, capaci di muoversi tra la black music più viscerale e l’elettronica, senza perdere di vista la struttura della migliore canzone pop. Ogni brano – sia in senso musicale che testuale – è un mondo a sé, ha una propria atmosfera e un arrangiamento che si adatta al contenuto (un procedimento che la band definisce “arrangiamento concettuale”); benché musicalmente diversi tra loro, c’è un filo che accomuna tutti i pezzi, un sound riconoscibile (come afferma il leader Sergio Bertolino, “la più grande ambizione degli Enjoy the Void è elaborare uno stile personale, originale, che può richiamare tante cose, senza però assomigliare a nulla”).
 
 
Tracklist
The most sublime
Nanaqui
Our garden
Doubt
The usual blues
Something strange
A prayer
Night
Don’t tell me no
Stay away
Song for the forgotten one
 
 
Intervista
 
Risponde alle domande Sergio Bertolino, cantante e tastierista degli Enjoy the Void, autore dei testi e delle musiche.
 
Davide
Ciao. Pascal scrisse che “nel cuore di ogni uomo c’è un vuoto che ha la forma di Dio”. Perché “Enjoy the Void” (Goditi il vuoto)?
 
Sergio
Ciao Davide. Credo che Pascal si riferisse a un vuoto interiore che è possibile colmare solo attraverso la fede. Come lo intendo io, il Vuoto (con la V maiuscola) non è colmabile. Il mio punto di vista su quest’argomento è un po’ complicato da esprimere in breve. Dietro al nome “Enjoy the Void” c’è una sorta di “poetica del desiderio”. Il desiderio deriva sempre da una mancanza, ma – per quanto raggiungibili siano i nostri scopi – sappiamo che la macchina del desiderio non si arresta: colmato un vuoto, se ne crea immediatamente un altro, e così via, fino alla fine. Possiamo smettere di desiderare qualcosa, ma non possiamo smettere di desiderare (non me ne vogliano i buddhisti). La pienezza è fuori dalla nostra portata, e ciò è un bene, perché proprio tale Vuoto inestinguibile è la ragione che ci spinge a muoverci, ricercare, realizzare, creare. Per come la vedo io, tutto quel che esiste è creativo perché sostanzialmente incompleto. Dovremmo imparare ad amare il Vuoto, a “godercelo” in quanto presupposto creativo.
 
Davide
Di cosa parlano le liriche in inglese di questo lavoro? C’è un tema conduttore che in qualche modo si svolge dalla prima all’ultima traccia, come inizia e come si conclude?
 
Sergio
Di certo non è un concept album. Non c’è un tema conduttore. Ciascun pezzo fa storia a sé, musicalmente e liricamente. Questo però non significa che non siano rintracciabili dei macroargomenti: l’amore, ad esempio, è trattato in quattro brani, ma ogni volta in modo differente; abbiamo l’amore che è carnalità e seduzione di Don’t tell me no e quello idealizzante, appena sbocciato, di Our garden, l’amore tossico, da cui liberarsi, di The usual blues e quello lacerante di A prayer, che descrive una condizione di dipendenza affettiva. Sono quattro diversi punti di vista sull’amore, ma me ne sono accorto solo ad album finito. 
In generale i testi affrontano tematiche a me care: il desiderio, il dolore, il dubbio, l’attesa, il disagio, il sogno, la solitudine, l’autodeterminazione…
Come inizia e come finisce? Il primo pezzo dell’album, The most sublime, prende le mosse da una frase di Giacomo Leopardi: “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani”. Il concetto di noia m’ha sempre attratto, forse perché da ragazzino amavo Baudelaire, il suo essere sospeso tra spleen e idéal, una tensione in cui mi riconoscevo. Tuttavia, Leopardi ne parla in modo particolarissimo: più si è nobili d’animo, maggiore è il rischio d’insoddisfazione; la noia è una conseguenza diretta di certi slanci, di certe voglie che, tutto sommato, sono inappagabili.
Song for the forgotten one è invece un brano (l’ultimo del disco) d’incoraggiamento. Si rivolge a un uomo che vive agli arresti domiciliari, solo, abbandonato. La sua situazione – benché difficile – è transitoria; la sofferenza che prova è una promessa di futuri piaceri.
 
Davide
Tra i titoli c’è una traccia intitolata “Nanaqui” che mi ha ricordato il nome con cui si firmava Antonin Artaud. È un brano che avete dedicato al noto drammaturgo francese autore del “Teatro della Crudeltà”? Se sì, cosa volevate sottolinearne?
 
Sergio
Sì, Nanaqui è il nomignolo affettuoso con cui da piccolo Artaud veniva chiamato dalla nonna, e con cui ha firmato diverse lettere. È un autore che m’ha sempre affascinato: ho amato libri come Il teatro e il suo doppio, Artaud le Mômo, ecc.
Il brano in questione tratta il tema del disagio psichico, in particolare legato ai disturbi d’ansia e da attacchi di panico. Pur non essendo rare, sono problematiche serie, che possono destabilizzare un individuo al punto di farlo regredire a uno stato quasi infantile, di estrema fragilità. Ecco, una volta composta la canzone, mentre pensavo a un titolo, m’è venuto in mente il calvario psichiatrico subìto da Artaud. Inoltre il nome “Nanaqui” rimanda implicitamente all’infanzia, quindi…
 
Davide
Come avviene un arrangiamento “concettuale”? Potreste farci qualche esempio rispetto ad alcune tracce di questo vostro album?
 
Sergio
Si può arrangiare un brano secondo criteri esclusivamente musicali, partendo dalla melodia o dalla struttura armonica, oppure basandosi su indicazioni di massima (è una canzone triste o allegra? parla d’amore, di morte?)… Arrangiare concettualmente, invece, implica un lavoro minuzioso sul testo, che non va solo colorato, ma sostenuto e completato.
Faccio un esempio concreto: c’è un pezzo dell’album, Don’t tell me no, in cui ci troviamo di fronte a un gioco di seduzione; una ragazza passeggia per strada e il protagonista, che se ne è invaghito, inizia a camminarle appresso, tentando di rimorchiarla. Ecco, il tema della passeggiata è espresso musicalmente attraverso un walking bass, mentre l’atteggiamento incalzante e un po’ borioso del protagonista è sottolineato dal riff di chitarra. Il brano è pieno di questi accorgimenti, come del resto ogni traccia del disco.
Un altro esempio è Stay away, dove tutto ruota attorno a un (non specificato) pensiero ossessivo, che tormenta, annichilisce, e che si vorrebbe scacciare. L’intera canzone è costruita sul concetto di ossessività. Basti pensare che c’è un unico accordo, il sol; non ce ne sono altri.
 
Davide
Cercate uno stile personale, originale, che possa richiamare tante cose, senza però assomigliare a nulla. Quando in ogni vostra canzone ritenete di aver raggiunto questo obiettivo (arduo per chiunque ormai), che sembra essere quasi programmatico?
 
Sergio
Io penso che ogni artista, per definirsi tale, debba avere uno stile personale; questo non vuol dire che debba necessariamente creare qualcosa di nuovo. Quentin Tarantino ha uno stile inconfondibile, ma tecnicamente non ha inventato nulla, semmai ha riattualizzato il passato, e in ciò ha compiuto una piccola rivoluzione, nel senso etimologico del termine (revolutio, “ritorno”, “rivolgimento”).
Credo che diverse band attuali siano originali, e lo sono nella misura in cui hanno saputo tirar fuori l’unicità della propria sensibilità. Ciascuno di noi è unico, e se c’impegnassimo a conoscerci meglio, a scoprire come e in cosa siamo davvero unici, ad esserci fedeli (il che implica anche il cambiamento) e a padroneggiare sempre più il mezzo mediante il quale comunichiamo, troveremmo il modo di esprimerci come solo noi possiamo fare. È un percorso che richiede dedizione, fatica. Però un artista sa quando ha trovato la propria voce. Se gli Enjoy the Void non pensassero di averla trovata, l’album sarebbe ancora in elaborazione. Continueremmo a cercarla. Non so quando è successo, forse in fase di arrangiamento.
 
Davide
Chi sono in ogni caso i maestri di “Enjoy the Void”, non solo strettamente musicali? Verso chi o cosa (anche un periodo storico) vi sentite in particolare grati, o a cui vi sentite idealmente collegati?
 
Sergio
Ogni componente della band proviene da scene musicali differenti; ascoltiamo molta musica, e di tutti i tipi, per cui credo che verrebbe fuori una lista lunghissima. Posso parlare del mio caso, ma sarebbe comunque arduo, poiché mi considero un “divoratore musicale”. Se dovessi fare dei nomi, citerei Beethoven, i Doors e Frank Zappa. Rappresentano tre incontri per me fondamentali, che hanno letteralmente stravolto il mio modo di concepire la musica. Ma dovrei aggiungerne almeno una ventina…
Rispetto al sound degli Enjoy the Void, probabilmente le influenze maggiori sono state la musica degli anni ’70, quella degli anni ’90, e certa musica del nuovo millennio, specie per le contaminazioni tra il rock e l’elettronica. E credimi, ho molta difficoltà ad escludere gli anni ’60 e ’80 (gruppi come i Beatles, i Cure e tanti altri).
Tu parli anche d’influenze extra-musicali, e qui si aprirebbe un mondo: Dylan Thomas, Celan e Leopardi per la poesia; Cortázar e Dostoevskij per la prosa; Nietzsche, Cioran ed Emerson per la filosofia; il Caravaggio e Van Gogh per l’arte. Ma vale il discorso di prima, potrei citarne una caterva.        
 
Davide
La band ha base a Sapri? Da molti anni a questa parte ricevo svariato materiale dal salernitano, che sembra vivere una stagione rock molto diversa dal resto della Campania, a cominciare da Napoli. Un rock di stampo più britannico, e spesso cantato in inglese, che non mediterraneo… Cos’è per voi il rock? Cosa la musica?
 
Sergio
Sì, la band ha base a Sapri, ma ammetto di non conoscere approfonditamente la scena rock salernitana (io sono di Reggio Calabria), o perlomeno non ho ancora incontrato band salernitane che siano – come dici tu – “di stampo più britannico”. Il rock (come del resto anche la musica) rappresenta per noi un mezzo d’espressione e di conoscenza; l’abbiamo scelto perché è stato essenziale per la nostra formazione. Benché sia piacevole suonarlo, non lo consideriamo un divertissement. L’arte intesa come intrattenimento non c’interessa. Per noi è una cosa seria (hai nominato Pascal: ecco, la sua critica al divertissement calzerebbe a pennello). La musica è anche terapeutica; ci dà modo di sublimare il nostro dolore, di scavare, di autoindagarci, di estendere, per così dire, i confini della nostra coscienza. E poi ha anche un valore salvifico; ci strappa dall’assurdo delle nostre vite.
 
Davide
Scriveva Norberto Bobbio che la via verso l’uscita da un labirinto la quale sembri più facile non è mai la più giusta. Perché il labirinto della copertina?
 
Sergio
Credo che la frase di Bobbio sia molto significativa a riguardo. L’atteggiamento umano verso la conoscenza tende alla semplificazione. Da un certo punto di vista è un bene, poiché è un sistema protettivo; conoscere a fondo le cose – ammesso che sia possibile (e non lo è) – ci porterebbe alla follia. Non ne verremmo a capo; il nostro cervello non funziona così. Siamo schematici di natura, le nostre mappe mentali possono sostenere un numero limitato d’informazioni. Abbiamo bisogno di chiarezza, di certezze, di una certa dose di sicurezza per agire; chi tra noi sarebbe sempre in grado di confrontarsi col caos, con la realtà fluida – in costante divenire – del mondo? Per intenderci, io parlo d’un caos “ordinato”. A noi, per via dei nostri limiti, può apparire come un caos, ma ritengo che un senso ci sia, per quanto (forse) inaccessibile.
La cosa andrebbe però considerata anche da un’altra prospettiva: c’è un verso d’una canzone dell’album, Doubt, in cui si dice che talvolta la “facilità può essere fallimento”, e qui torniamo a Bobbio. La sua etica del labirinto – cui mi sento affine – presuppone pazienza, ponderazione; le apparenze sono spesso ingannatrici, la realtà è ben più complessa. Non siamo capaci di conoscere a fondo le cose, ma abbiamo il dovere di conoscerle meglio. Ci sono tanti modi (tante vie) per ascoltare l’album; possiamo leggerlo con uno sguardo “semplificante”, puntando sull’immediatezza, e ci comunicherà qualcosa, ma ricordi quando parlavamo di “arrangiamento concettuale”? La trama dei pezzi è assai più articolata ed esistono molteplici chiavi d’interpretazione, perciò l’idea del labirinto m’è sembrata calzante.
Sono sempre stato attratto dal concetto di “grazia” rinascimentale: grandi difficoltà, complessità possono nascondersi dietro un’apparente semplicità. Pensiamo alle opere di Raffaello.         
 
Davide
Cosa seguirà?
 
Sergio
Anzitutto (si spera) tanti concerti. Abbiamo voglia di esibirci. Enjoy the Void è un progetto nato in una stanza e cresciuto in uno studio. Ora è arrivato il momento di affacciarsi all’esterno. Poi, sicuramente, lavoreremo su altro materiale: abbiamo in cantiere un nuovo album (o EP, siamo indecisi); ci sono parecchi pezzi pronti per essere sviluppati.     
 
Davide
Grazie e à suivre…
 
Sergio
Grazie a te. È stato un vero piacere.

Commenta

Nel caso ti siano sfuggiti