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Aiuto di Stato

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(ipotesi generali di spesa pubblica sbagliata)

In Italia ci sono 2 settori:
il Privato che è controllato dallo Stato
e il Pubblico che non è controllato da nessuno.
Antonio Martino (cit. Margaret Thatcher)
 
L’affermazione iniziale è volutamente, per così dire, “ideologicamente orientata” e prende le mosse da lontano, dalle teorie degli economisti classici, i quali fin dall’origine sostennero l’importanza fondamentale della “libera concorrenza” per lo sviluppo delle attività economiche: nella celebre opera di Adam SmithSulla ricchezza delle Nazioni” non si contano i riferimenti ai vantaggi derivanti dalla “libera concorrenza” in una “economia di mercato”, e la successiva esperienza storica, nel corso dei 240 anni dalla pubblicazione di quel saggio, ha dimostrato oggettivamente che lo sviluppo economico ottenuto dai sistemi ispirati a questi principi, è risultato incomparabilmente superiore a quello raggiunto da qualunque diversa organizzazione di tipo collettivistico o pianificato[1].
Infatti, pur con tutti i correttivi introdotti dall’edificazione dello Stato sociale, fattasi sempre più intensa proprio a partire dagli anni del secondo dopoguerra, in parallelo con il nascere e l’affermarsi della Comunità Europea, la concorrenza è stata sempre considerata al tempo stesso un elemento essenziale dell’efficienza capitalistica, ed un mezzo di protezione contro ogni abuso del potere economico.
L’articolo 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, attualmente vigente, indica espressamente, tra le competenze esclusive dell’Unione la “b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno;”, funzione considerata quale “mezzo” naturale per il raggiungimento di un scopo fondamentale dell’Unione. In quest’ottica, le misure di concessione di “aiuti di Stato” a singole imprese possono essere un rilevante fattore di “discriminazione” tra operatori economici e di distorsione della concorrenza di provenienza dall’autorità pubblica: se lo Stato italiano, per fare un esempio elementare quanto relativo ad un fatto storicamente avvenuto, accorda una certa somma al produttore nazionale di automobili per ogni veicolo prodotto/venduto, ecco che questi si troverà avvantaggiato rispetto al produttore, es. francese, che non beneficia di un trattamento del genere, perché potrà diminuire il prezzo del prodotto rispetto ai concorrenti[2].
L’aiuto è pertanto una “strategia protezionista” che avvantaggia alcune imprese comunitarie a scapito di altre e di ciò e ben consapevole il Trattato, oltre al fatto che tale pratica da parte dello Stato “erogatore”, a lungo termine è “autodistruttiva”; certo l’industria beneficiaria può operare al riparo della concorrenza ma ciò elimina gli incentivi ad essere competitiva e a sviluppare processi produttivi superiori. Viceversa, le imprese che non beneficiano dell’aiuto si vedono costrette a sviluppare pratiche più efficienti per rimanere sul mercato: alla fine del ciclo, le aziende non beneficiarie risulteranno irrobustite e quelle beneficiarie, decotte e bisognose di ulteriori aiuti (c.d. “aiuti al funzionamento” sempre proibiti).
Le norme di base del sistema sono contenute negli articoli 107, 108, 109 del Trattato, e nel corso degli anni sono state delineate meglio e ampliate dal diritto derivato (Direttive, Regolamenti, Comunicazioni), e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea[3].
L’art. 107, par. 1, TFUE stabilisce che:
“1. Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.”.
La norma è formulata in modo da ricomprendere anche le forme di aiuto che non si traducono in sovvenzioni pure e semplici: l’aiuto può consistere, infatti, in una diminuzione o nella totale cancellazione del carico fiscale, riduzioni del prezzo dell’energia, contributi all’esportazione, concessione da parte dello Stato, che se ne accolla i costi, di prestiti senza interesse, etc. cioè, secondo una definizione della Corte GUE, di tutti “gli interventi che, sotto forme diverse, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa”. La Commissione Europea e la Corte di Giustizia UE hanno elaborato un sistema di analisi che valuta, innanzitutto, i parametri indicati dall’art.107, paragrafo 1, ai fini di verificare la sussistenza di un aiuto[4]:
· il vantaggio economico per l’impresa beneficiaria derivante dalla misura pubblica (di cui normalmente non avrebbe goduto), che si sospetta costituire un aiuto;
· l’incidenza di tale misura sul commercio all’interno dell’Unione (effetto potenziale sulla concorrenza e gli scambi fra gli Stati membri, per cui è sufficiente rilevare che il beneficiario esercita attività su un mercato in cui si effettuano scambi commerciali fra Stati membri[5]);
· la selettività o specificità dell’aiuto, nel senso che esso deve favorire solo alcune imprese e non la totalità[6];
· il trasferimento di risorse pubbliche: l’agevolazione può essere concessa anche non direttamente dallo Stato centrale, ma da un organismo intermedio, privato o pubblico, a ciò delegato[7].
Proseguendo la lettura dell’art.107, si nota che gli aiuti non sono sempre proibiti. Il paragrafo 2 definisce compatibili con il mercato interno:
a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori (non imprese), a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti (ad esempio anche “riduzioni fiscali” per chi acquista un’automobile nuova meno inquinante);
b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali;
c) gli aiuti concessi all’economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione…[8].
A ben vedere queste norme costituiscono una parte complessivamente marginale del diritto degli aiuti di stato, nel senso che la loro applicazione non ha creato particolari problemi[9]: è il paragrafo 3 dell’art.107 che costituisce il fulcro della norma, poiché elenca le situazioni in cui la Commissione Europea può “discrezionalmente” concedere esenzioni al divieto generale: infatti “Possono considerarsi compatibili con il mercato interno”,
a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione…;
b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro;
c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse;
d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio[10];
e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della Commissione[11].
Perché dopo quanto abbiamo detto sugli effetti negativi degli aiuti all’economia, la Commissione dovrebbe avere il potere di regolamentarne la concessione? Non sarebbe più semplice vietarli sic et simpliciter? La risposta deriva, da un lato, dal fatto che un divieto assoluto sarebbe difficile e costoso da far rispettare e che gli Stati potrebbero considerarlo come un’ingerenza eccessiva nei loro affari interni, dall’altro che gli effetti negativi sopra ricordati possono essere tenuti sotto controllo e gli aiuti possono essere utilizzati per conseguire obiettivi di carattere comunitario se coordinati a livello sopranazionale[12].
L’esistenza delle deroghe giustifica il preventivo controllo degli aiuti di Stato, da parte della Commissione. Come stabilisce l’art.108 del TFUE, gli Stati membri devono notificare alla Commissione qualsiasi progetto diretto ad istituire aiuti prima di procedere alla sua attuazione; l’esecutivo di Bruxelles deciderà se l’aiuto può beneficiare della deroga o se lo Stato interessato “deve sopprimerlo o modificarlo nel termine da essa fissato”. Gli aiuti istituiti senza essere stati notificati sono considerati illegali, oltre all’ipotesi che la Commissione stessa possa giudicare la sovvenzione incompatibile con le “norme sostanziali UE” (indicate sopra): gli Stati membri dovranno recuperare gli aiuti illegali e incompatibili[13].
Il passaggio dalla teoria delle norme comunitarie alla realtà quotidiana è immediato e interessa (e ha interessato), in realtà, un numero elevatissimo di casi. Nel nostro Paese, in particolare, la disciplina degli “aiuti di Stato” rappresenta un “convitato di pietra” costantemente presente al tavolo dei rapporti, ultimamente molto tesi quando non conflittuali, tra Commissione europea e Governo italiano[14]. L’attualità ci mostra che, appellandosi al divieto generale di aiuti, la Commissione europea si è opposta all’intervento del “Fondo interbancario di tutela dei depositi” per salvare dal fallimento le quattro banche locali (per questo poi poste in liquidazione, con la perdita dei capitali investiti da azionisti e obbligazionisti interni); la Commissione ha ritenuto che la natura obbligatoria dei contributi delle banche (private) al Fondo, unita al ruolo di vigilanza della Banca d’Italia e alle regole di gestione/amministrazione dello stesso, configurassero un organismo con obiettivi di natura pubblica, non guidato da logiche solo private[15]. Così prossimamente, si aprirà a Bruxelles il dossier Ilva, per comprendere se i contributi pubblici che hanno permesso all’acciaieria di Taranto di proseguire le proprie attività e avviare le prime fasi di bonifica ambientale, siano da considerare come aiuti di stato[16].
Quello che occorre comprendere è se dall’Unione Europea arrivino interventi e freni “impropri”, o invece uno stimolo a calibrare l’intervento pubblico (diretto) secondo logiche di “efficienza”, attraverso l’esame approfondito dei più tradizionali strumenti di “politica industriale” degli Stati nazionali, che in talune ipotesi possono avere giustificazioni al pari di tutte le politiche dell’offerta, dall’antitrust (divieto di accordi tra imprese), alla regolazione alla politica industriale. Infatti, alla base di un intervento diretto dovrebbe esserci un ben individuato fallimento di mercato (quale per esempio una calamità ambientale), l’incapacità dei soggetti privati di realizzare investimenti che abbiano come risultato un vantaggio generale, la garanzia di obiettivi pubblici quali la stabilità e la difesa del risparmio. Nelle fasi drammatiche della crisi finanziaria del 2008-2009, il timore di un effetto a catena, che partendo dal fallimento di un’azienda di credito potesse avviare un collasso generale del sistema bancario, ha portato ad allentare notevolmente i criteri per consentire salvataggi attuati con fondi pubblici[17].
Quanto, poi, gli interventi siano stati giustificati da un reale timore di crisi sistemica e quanto invece abbiano consentito di salvaguardare Banche di piccole dimensioni (incapaci di innescare effetti a catena col loro eventuale fallimento), è un punto “difficile” a dirsi. Tuttavia, se questo atteggiamento maggiormente “comprensivo” può avere avuto, in quelle circostanze, un fondamento (pur difficile da “digerire” per chi apprezza il rispetto delle regole), non modifica la bontà degli argomenti a favore della regolamentazione contro gli aiuti di Stato: aver peccato di lassismo in passato, non è buon argomento per proseguire su questa strada.
E da questo punto di vista riteniamo che la disciplina degli aiuti di Stato sia un presidio imprescindibile per evitare che le nuove sirene della “politica industriale” riportino l’orologio della storia di almeno venti anni indietro, proprio quando iniziò ad accumularsi quell’enorme debito pubblico che rende così fragile il nostro sistema economico-sociale, esposto facilmente alle tempeste speculative dei mercati internazionali e soprattutto incapace di reagire efficacemente alla condizione di stagnazione dell’economia.
Siamo convinti che, anche se a volte la disciplina appare amara e indigesta, meglio che le sentinelle degli “aiuti di stato” rimangano allerta.
 
Molta gente vuole che il governo protegga i consumatori.
Un problema molto più urgente
è proteggere i consumatori dal governo.
Milton Friedman

[1] Cfr. Fausto Capelli, I fondamenti di una tutela della concorrenza. Libertà di concorrenza e sua giustificazione, estratto da “Controllo dei prezzi e normativa comunitaria”, Giuffrè Milano, 1991. La ricchezza delle nazioni o Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations), pubblicata il 9 marzo 1776, è la principale opera di Adam Smith, ritenuto il fondatore dell’economia politica liberale (Wikipedia). 

[2] Cfr. Tito Ballarino, Lineamenti di diritto comunitario, CEDAM Padova, 1993.

[3] TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA, PARTE TERZA POLITICHE DELL’UNIONE E AZIONI INTERNE, TITOLO VII NORME COMUNI SULLA CONCORRENZA, SULLA FISCALITÀ E SUL RAVVICINAMENTO DELLE LEGISLAZIONI, Capo 1 Regole di concorrenza, Sezione 2 Aiuti concessi dagli stati (artt. 107-109, già numerati nelle passate versioni del trattato come artt. 92-94, e successivamente 87-89). 

[4] Nel complesso tali parametri sono conosciuti come criterio VIST (vantaggio, incidenza, selettività, trasferimento). 

[5] La natura del beneficiario non è rilevante, anche un’organizzazione senza scopo di lucro può ricevere un “aiuto di Stato”. 

[6] Il criterio della è quanto differenzia un aiuto di stato dalle cosiddette “misure generali” (applicabili in maniera automatica e indiscriminata a tutte le imprese di tutti i settori economici di uno Stato membro, come avviene per la maggior parte delle misure fiscali a livello nazionale. 

[7] Ciò può avvenire ad esempio nel caso in cui una banca privata sia incaricata della gestione di un regime di aiuti pubblici a favore delle PMI. 

[8] Questa norma resiste nonostante i quasi 26 anni trascorsi dalla unificazione tedesca (3/10/1990). Il testo è stato integrato dal trattato di Lisbona (in vigore dal 1/12/2009), con un’ulteriore disposizione: “Cinque anni dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare una decisione che abroga la presente lettera”, che non è stata ancora attuata. 

[9] Cfr. a cura di Ugo Draetta, Elementi di diritto comunitario, Parte speciale, Milano Giuffrè, 1995.

[10] “…quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione in misura contraria all’interesse comune.”. l’esenzione è stata introdotta dal Trattato di Maastricht (1993). 

[11] Anni or sono furono adottate sulla base di questa norma le direttive sugli aiuti in materia di “cantieristica navale”. 

[12] Nell’esercizio dei suoi poteri, la Commissione ha messo a punto specifici metodi di esame in funzione delle dimensione dell’impresa, della sua ubicazione, del settore di attività o della finalità dell’aiuto. Per la natura discrezionale del suo potere, la Commissione ha cercato di rendere pubblica l’impostazione adottata, e ciò allo scopo di garantire che la discrezionalità sia esercitata con la dovuta trasparenza e che le Autorità e le imprese abbiano chiara la propria posizione rispetto al diritto comunitario. La Commissione ha così pubblicato i criteri che applica nelle decisioni riguardanti la concessione o meno di deroghe per gli aiuti, attraverso Regolamenti, Comunicazioni, Orientamenti, lettere agli Stati membri. 

[13] La finalità del recupero consiste nel ripristinare la situazione esistente sul mercato precedentemente alla concessione degli aiuti.
Il recupero non è una sanzione, bensì la logica conseguenza della constatazione che gli aiuti sono illegali e incompatibili. Il recupero è disciplinato dalla legislazione nazionale (autonomia procedurale), a condizione che questo consenta il recupero immediato ed effettivo.
Regolamento di procedura n. 659/1999: norme di base in materia di recupero.
Comunicazione sul recupero degli aiuti 2007: principi in materia di recupero, compresa giurisprudenza e orientamenti sulle migliori pratiche.

[14] Cfr. Michele Polo, “Aiuti di stato, una scomoda sentinella”, in www.la voce.info del 22.01.2016. 

[15] Il salvataggio delle quattro banche (CariFerrara, Banca Marche, Popolare dell’Etruria e CariChieti), inoltre, andava al di là della mera tutela dei depositanti, cui il Fondo è destinato, rafforzando l’idea che si volesse impiegare uno strumento con cui le autorità pubbliche utilizzavano fondi privati per finalità proprie. La natura locale di queste banche, infine, rendeva poco plausibile l’innescarsi di effetti a catena. 

[16] Altri dossier, in modo forse meno appariscente, hanno passato il vaglio severo degli aiuti di stato, come il piano per lo sviluppo della rete a banda larga o i sussidi alle fonti rinnovabili

[17] In quel periodo sono stati concessi dalla Commissione UE aiuti pubblici per 238 miliardi di euro (8 % del Pil) alla Germania, 42 miliardi di euro (22 % del Pil) all’Irlanda e interventi superiori al 5 % del Pil ad Austria, Paesi Bassi e Portogallo.

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