La fiducia può esaurirsi, se si vuol troppo cimentarla.
Bertold Brecht
Il
trust[1] (letteralmente “fiducia” ma anche “affidamento” in inglese) è un istituto che affonda le sue antiche origini in quel ramo dell’ordinamento britannico noto col nome di
Equity.
Infatti, nel ripercorrere, in poche righe, lo sviluppo originale dell’ordinamento giuridico anglosassone (che interessa la Gran Bretagna, con esclusione della Scozia, e in seguito gli Stati Uniti d’America e i Paesi parte del Commonwealth britannico), il sistema giuridico e giudiziario si costituì e si fondò principalmente sulla Common Law fin dalla occupazione normanna dell’Inghilterra, operata da Guglielmo il Conquistatore nel 1066. In pratica l’embrione di Stato formatosi insediò a Londra (Westminster) un insieme di Corti regie permanenti, le quali amministravano giustizia applicando principi di diritto e norme elaborate dal centro (“comuni” appunto), contrapposte alle consuetudini locali in cui erano ancora presenti influssi romanistici (alcuni principi fondamentali del diritto romano si consolidarono fin dall’invasione della Bretagna di Giulio Cesare nel I secolo a.C.).
Lo sviluppo dell’ordinamento veniva assicurato dall’attività giurisprudenziale, fondata sull’autorità dei precedenti, cioè sul “vincolo nella decisione” che una determinata pronuncia giudiziale rappresentava per le pronunce successive relative a casi analoghi. Inizialmente, fu costituito un organo unitario, il
King’s Council (
Curia Regis), presieduto dal Sovrano, che nel corso del tempo si suddivise in tre organi “specializzati”, la Corte dello Scacchiere (
Exchequer[2]), formatasi nella prima metà del secolo XII, con competenza in materia demaniale e fiscale, la Corte delle Udienze Comuni (
Common Pleas), creata nel 1178 con competenza sulla generalità delle controversie fra privati, e la Corte del Consiglio Reale (
King’s Bench[3]), la terza e più importante magistratura competente sui casi civili e penali di maggiore rilevanza. I tre organi giudiziari centrali si posero in posizione antagonista di fronte al gran numero di giurisdizioni locali e feudali, presiedute dagli sceriffi e dai lords, riuscendo in breve tempo a imporre un’amministrazione della giustizia centralizzata. L’intervento di una delle Corti londinesi veniva promosso dal cittadino/attore attraverso la richiesta di emissione di un ordine regio (
writ, brevia in latino), indirizzato al Giudice locale, di dare giustizia in un procedimento pendente presso di lui: la richiesta permetteva di trasferire la causa alla Corte di Westminster, in quanto l’alternativa all’esecuzione “locale” dell’ordine regio era l’instaurarsi del processo davanti al magistrato londinese. Si tratta di un sistema che fino al secolo XIII si sviluppò e si espanse “…
crescendo con aspetti di notevole flessibilità e ramificandosi duttilmente in una cospicua varietà di meccanismi processuali.
[4]”; al contrario, dal secolo XIV in avanti, questo fluido di regole e di tecniche creatosi in precedenza cominciò a fissarsi in forme rigorose, ad irrigidirsi in schemi non più liberamente estensibili e malleabili. La
Common Law tese a chiudersi, a consolidarsi nel numero definito delle forme di azione ormai esistenti, esponendosi al pericolo di atrofia e inadeguatezza di fronte ai bisogni sempre nuovi della vita sociale inglese
[5]. Lo schematismo inflessibile delle forme consolidate minacciava sempre più spesso di tramutare il
summum ius in
summa iniuria, portando in certi casi a risultati di formale legalità ma di sostanziale iniquità.
Ecco che nel corso del 1300, la tradizione tipicamente medievale che concedeva al privato di ricorrere al Re quando si trovava privo di qualsiasi mezzo per tutelare il proprio diritto, mai tramontata in Inghilterra, conobbe un notevole rinverdimento: i ricorsi alla giustizia del
King’s Council da parte di coloro che erano rimasti esclusi dai rimedi protettivi della
Common Law o che erano caduti vittima del suo severo formalismo procedurale, si fecero numerosissimi. Qui si inserisce l’opera della Cancelleria regia, il più importante ufficio della Corte inglese: il Cancelliere (
Chancellor) è il primo funzionario del regno
[6], è di solito un grande ecclesiastico ed altrettanto di consueto è il confessore del Re
[7]. Avvenne dunque che, con l’aumentare delle suppliche trasmessegli dalla Cancelleria del Re, il
King’s Council rinunciasse a prenderne collegialmente in esame la ammissibilità e delegasse questa incombenza preliminare di nuovo direttamente al Cancelliere, il quale, a sua volta, cominciò sempre più spesso a risolvere da solo, in nome del Re, le questioni sottoposte al
Council. Alla fine del Quattrocento la supplica indirizzata al Re divenne il modo ordinario per adire non più la
Curia regia, ma la Corte della Cancelleria (
Court of Chancery), ormai staccatasi come organismo a sé dal
King’s Council e divenuta un’istituzione fondamentale dell’ordinamento inglese. Si è detto che il Cancelliere (almeno fino alla metà del XVI secolo), è in genere un religioso e come confessore del Re ne è anche tradizionalmente il “rettore della coscienza” (
keeper of the King’s conscience): quale interprete dell’animo del Re, supremo dispensatore di giustizia, il Cancelliere comincia a giudicare e a intervenire equitativamente nei confronti dello
ius strictum. L’
equity non è, d’altra parte che una manifestazione delle alte prerogative giudiziarie regie
[8]. Essa nasce appunto da questa idea che contrappone un diritto superiore della coscienza a quello della forma e delle procedure legali.
Il sistema giuridico progressivamente emerso accanto alla Common Law con lo sviluppo della giurisprudenza della Court of Chancery comprende taluni importanti istituti tra cui l’originalissimo prodotto dell’equity, pietra angolare del diritto inglese, che è l’istituto del TRUST.
Nel suo schema essenziale il
trust comporta che A, la persona che istituisce il trust (
settlor), trasferisce un patrimonio (beni mobili, immobili o somme di danaro) a B (
trustee) con il patto (basato sulla fiducia) che lo amministri nell’interesse di un terzo designato come beneficiario (
cestui que trust[9]). Questo tipo di negozio fiduciario, diffusosi nella prassi inglese soprattutto a partire dal XIV secolo (e specialmente in sostituzione del testamento, il cui impiego era soggetto a forti limitazioni quanto alla disponibilità della terra), crea in capo al
trustee un vero e proprio diritto di proprietà e nello stesso tempo lo vincola con un obbligo morale a versare i proventi del “patrimonio” al
beneficiary. D’altra parte la
Common Law non riconosce se non la proprietà regolarmente trasferita al
trustee, considerando come irrilevante l’obbligo di coscienza cui egli è legato dalla clausola fiduciaria. La prassi giurisprudenziale della
Court of Chancery si è costantemente orientata nel senso di costringere il
trustee, eventualmente recalcitrante, a tenere fede al proprio obbligo: è venuto creandosi in tal modo a favore del terzo un
beneficial interest protetto
an equity. Ciò ha provocato nel mondo anglosassone l’enorme sviluppo del
trust, un (per noi) singolare istituto che non partecipa né della nozione del contratto (poiché il
factum fiduciae non ha trovato posto nelle categorie contrattuali di
Common Law), né della nozione di rappresentanza (poiché il
trustee è proprietario formale del bene e non rappresentante del beneficiario).
Oggi, l’atto costitutivo (
deed of trust) può essere
inter vivos o
mortis causa, revocabile o irrevocabile ed ha carattere vincolante; eventuali propositi, consigli, indicazioni e desideri del
settlor sono espressi in un apposito documento distinto, la
letter of wishes. La natura contrattuale del
trust è negata anche dalla
giurisprudenza italiana così come dall’ordinamento anglosassone; tale aspetto è confermato ancora dalla Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata dall’Italia, la quale ha permesso il riconoscimento del
trust anche nel nostro Paese
[10]. Il
trust infatti è considerato un negozio unilaterale che non necessità di accettazione, e con il quale il
settlor dichiara unilateralmente di assoggettare i suoi beni ad esso
.
In seguito alla ratifica della citata Convenzione dall’Aja si è posta la questione della ammissibilità del c.d. “
trust interno”, ovvero del
trust costituito da cittadini italiani ed avente ad oggetto beni situati in Italia. In particolare, secondo una parte della dottrina giuridica, la Convenzione avrebbe solo scopo di regolare il riconoscimento da parte di Stati il cui ordinamento interno non prevede il
trust, dell’efficacia giuridica dei
trust costituiti nei Paesi anglosassoni (si pensi all’ipotesi di un
trust costituito il Gran Bretagna che abbia ad oggetto beni immobili situati nel territorio italiano); secondo altra tesi dottrinale invece, la ratifica della Convenzione avrebbe aperto la strada per la costituzione del
trust interno, e la posizione sarebbe rafforzata dall’introduzione nel Codice Civile italiano dell’art.2645
ter, che renderebbe possibile la trascrizione nei pubblici registri di atti “atipici” (come il
trust) contenenti vincoli di destinazione di beni immobili e/o mobili registrati (es. automezzi)
[11]. Rimangono, dunque, contrasti in dottrina sia sulla ammissibilità del
trust interno, sia sull’annosa questione circa la trascrivibilità in generale dell’istituto, la quale è del resto oggi unanimemente ammessa dalla giurisprudenza.
Altri aspetti interessanti e controversi riguardano il riconoscimento o meno della soggettività giuridica del
trust e l’individuazione di una responsabilità del
trustee nei confronti dei terzi per gli atti effettuati nello svolgimento del proprio ruolo
[12].
Per quanto riguarda la soggettività (o personalità), un filone giurisprudenziale minoritario muovendo dal principio per cui i beni del
trust risultano separati dal patrimonio personale del
trustee, giunge a riconoscere la soggettività allo stesso
trust come autonomo soggetto “titolare” dei beni patrimoniali. Un diverso indirizzo, maggiormente seguito, ritiene che la costituzione del
trust non determini la creazione di un nuovo soggetto di diritto, ma comporti solamente l’applicazione di un particolare regime patrimoniale a quanto posseduto dal
trustee[13].
Per quanto riguarda la “responsabilità” di quest’ultimo, occorre premettere che, per effetto dell’istituzione del trust, i beni in esso ricompresi risulteranno “segregati” (separati) dal patrimonio personale del trustee, sicchè i creditori personali del trustee non potranno aggredire tali beni, così come i creditori del disponente (settlor) in quanto, a seguito del trasferimento al trustee, i beni sono usciti dal patrimonio del primo.
Una concisa conclusione può constatare solo che lo sviluppo nel tempo del “diritto vivente”, cioè l’applicazione giurisprudenziale delle norme da parte dei Giudici, ci dirà se la diffusione di questo istituto anche in Italia richiederà una sua specifica disciplina in norme di diritto interno.
L’eredità più bella e migliore di ogni patrimonio
che i genitori possono lasciare ai figlio
è l’esempio di una vita onesta.
Cicerone
In realtà quest’ultima norma vuole solo confermare la non tassatività dell’elencazione (contenuta nell’art.2643 c.c.), delle categorie degli atti soggetti a trascrizione, introducendo l’ulteriore possibilità di realizzare la pubblicità dichiarativa anche per i negozi atipici.