Se pensi di poter fare una cosa falla.
Nell’azione c’è genialità, potenza, magia.
Wolfgang Goethe
Secondo un’antica e consolidata concezione le
norme giuridiche, cioè i “comandi” imperativi generali (rivolti a tutti i soggetti indistintamente) e astratti (idonei a disciplinare ogni caso si presenti nella realtà), sarebbero sempre suscettibili di
attuazione forzata (coercizione) o sarebbero comunque garantite dalla previsione nell’ipotesi di una loro trasgressione, di una conseguenza in danno del trasgressore, chiamata “
sanzione”
[1]. La minaccia della sanzione favorirebbe l’osservanza spontanea della norma, attraverso una forma di
costrizione psicologica diretta a dissuadere dal tenere un comportamento antigiuridico chi fosse intenzionato a violare le regole dell’ordinamento; infatti, molto spesso, accanto a norme “di condotta” (dette primarie), il legislatore prevede una “risposta” o “reazione” dell’ordinamento (c.d. norme sanzionatorie o secondarie), da attuare in caso di inosservanza del comportamento prescritto (es. in materia di obbligazioni
“Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno…”, art. 1218 cod. civ.)
[2].
Certamente la difesa dell’ordinamento non viene perseguita solo per mezzo di misure repressive o restaurative di una situazione preesistente illegittimamente violata, ma anche mediante regole
preventive, di
vigilanza, di
dissuasione, e perfino attraverso norme che si limitano ad affermazioni di principio (
“Il figlio deve rispettare i genitori…” art. 315 bis, comma IV, cod. civ.)
[3], che svolgono un’importante funzione “esemplare” (psicologico-pedagogica), indipendentemente dalla previsione di qualsiasi sanzione. Tuttavia, a ben vedere, secondo l’opinione di molti, il funzionamento essenziale di ogni ordinamento giuridico si basa quasi esclusivamente sulla dinamica “
regola/sanzione”, soprattutto nelle organizzazioni statuali come quella italiana in cui il livello di senso civico, la coscienza della legalità, la consapevolezza di ciò che è giusto e ingiusto, hanno subito negli ultimi decenni un tale deterioramento da relegare il rispetto spontaneo delle norme ad un comportamento non dovuto a ragioni morali o etiche, ma al solo timore di vedersi infliggere una sanzione, conseguenza a sua volta non raramente poco efficace o addirittura inesistente, per i noti e cronici limiti e inefficienze di ogni livello e settore dell’apparato pubblico italiano. In ogni caso, l’ordinamento giuridico di una società politica moderna prevede sempre l’organizzazione di un apparato coercitivo, tendente ad assicurare, se occorresse anche con l’uso della forza, da un lato la salvaguardia, contro minacce esterne o interne, del c.d. “ordine costituito”, e dall’altro
l’applicazione in concreto delle conseguenze sanzionatorie previste in astratto da singole norme per il caso della loro violazione.
Per quanto riguarda questo specifico punto di vista, abbiamo già illustrato la natura e le funzioni dell’
organo giurisdizionale esecutivo per eccellenza previsto dall’ordinamento italiano in materia di obbligazioni civili e commerciali, e cioè l’Ufficiale Giudiziario
[4], il quale risulterà l’esecutore anche di questa particolare forma di “
sanzione” in risposta alla
non attuazione spontanea di un obbligo di fare o di non fare[5].
Per comprendere meglio l’argomento occorre prendere le mosse dalle norme sostanziali previste dal Codice Civile, che anzitutto all’art.
2931 stabilisce “
Se non è adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può ottenere che esso sia eseguito a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura civile”[6]. Dunque la legge prevede una forma di
esecuzione forzata “in forma specifica” affinché un diritto rimasto insoddisfatto venga attuato, coattivamente, per l’appunto, nella sua “identità specifica” in modo da assicurare al titolare del diritto stesso, se non proprio l’esatta prestazione che garantirebbe il suo completo soddisfacimento, quanto meno un risultato del tutto equivalente
[7]. Alla luce della norma appare evidente che, oggetto dell’esecuzione per gli obblighi di fare, possono essere soltanto gli
obblighi di fare fungibili[8]. In altri termini si deve prescindere dalla natura del diritto da cui scaturisce l’obbligo di fare o di non fare rimasto ineseguito (tutela del diritto di proprietà, tutela di un diritto obbligatorio, ecc.), ma ciò che rileva ai fini dell’esecuzione forzata è la
prestazione dovuta, la quale deve poter essere realizzata in via coattiva indifferentemente dal soggetto obbligato o da un terzo, che si sostituisce al primo, nel caso in cui questi ometta di provvedere
[9]. Questo modello risulta del tutto inutilizzabile quando la prestazione è
infungibile: è tale la prestazione che risulta obiettivamente non eseguibile da un terzo, ma anche quella corrispondente ad un obbligo caratterizzato dall’
intuitus personae (l’incarico professionale affidato ad una determinata persona), come pure la prestazione che implica una specifica “determinazione di volontà” dell’obbligato, che si traduca, ad esempio, nel compimento di un’attività negoziale di carattere fiduciario. Tradizionalmente la descrizione di ciò che rende un obbligo infungibile (e quindi, non attuabile coattivamente) si completa con un esempio di scuola, ossia il riferimento al celebre pittore che si è impegnato a realizzare un quadro, ma si sottrae all’adempimento dell’obbligo assunto. In questo caso il creditore non ha alcun interesse a che un quadro qualunque sia dipinto da un altro pittore, né, d’altro lato, è possibile imporre all’obbligato (magari ricorrendo alla forza) di realizzare la prestazione dovuta
[10].
L’art.2933 Cod. Civ. dispone ancora che “Se non è adempiuto un obbligo di non fare, l’avente diritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell’obbligato, ciò che è stato fatto in violazione dell’obbligo.
Non può essere ordinata la distruzione della cosa e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale”.
Diversamente dalle obbligazioni di
facere di cui sopra, qui non si pongono problemi di fungibilità, in quanto l’eventuale distruzione di quanto fatto, non adempiendo correttamente all’obbligo, viene senza dubbio posta in essere da un soggetto diverso rispetto al debitore. La disposizione in esame offre tutela alla parte assicurandole una concreta soddisfazione nell’ipotesi di
obblighi (positivi) di non facere (si pensi all’esempio di colui che, tenuto a permettere il passaggio attraverso il proprio fondo in forza di un diritto di servitù, ne ostacola o impedisce l’esercizio ponendo un cancello o barriera sul varco), i quali risultano suscettibili di esecuzione in forma specifica solo a condizione che la loro violazione si sia tradotta nella creazione di un
quid novi, che possa essere eliminato anche senza la collaborazione dell’obbligato
[11]. L’art. 2931 Cod. Civ. richiama le norme processuali, per l’attuazione concreta dell’obbligo, contenute nel Codice di Procedura Civile, e cioè gli artt. dal
612 al
614 bis[12].
“Chi intende ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o di non fare, dopo la notificazione del precetto, deve chiedere con ricorso al giudice dell’esecuzione che siano determinate le modalità dell’esecuzione.
Il giudice dell’esecuzione provvede sentita la parte obbligata. Nella sua ordinanza designa l’ufficiale giudiziario che deve procedere all’esecuzione e le persone che debbono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta”[13].
Il tenore letterale dell’art.
612 C.P.C. lascia intendere che l’esecuzione forzata in forma specifica di cui stiamo parlando, possa avere luogo solo sulla base di una “
sentenza di condanna”: in realtà l’espressione viene riferita ad ogni tipo di provvedimento (anche non di origine giurisdizionale), contenente una condanna a fare o non fare
[14]. Questo presupposto sostanziale è l’elemento giuridico che determina il
quid faciendum, ed è il titolo che deve essere portato a conoscenza del destinatario dell’obbligo, attraverso rituale notificazione, affinché questi possa
spontaneamente adempiere senza costringere la controparte a ricorrere all’uso della forza
[15]. Il momento iniziale del procedimento coincide con la presentazione del
ricorso al Giudice dell’Esecuzione con cui la parte istante chiede che siano determinate le
modalità di esecuzione[16]; il Giudice deve innanzitutto attuare il
contradditorio (naturalmente quel contraddittorio con portata e funzioni limitate tipico del processo esecutivo in generale), disponendo l’audizione delle parti; dopo averle sentite, pronuncia l’
ordinanza contenente le modalità dell’esecuzione, designa l’
Ufficiale Giudiziario ed i terzi incaricati del compimento delle operazioni necessarie per l’attuazione del provvedimento, stabilendo
come tale attuazione debba avvenire. A questo riguardo, si è posto il problema di determinare entro quali limiti possa esplicarsi il potere del Giudice di fissare “le modalità dell’esecuzione”: per l’opinione prevalente l’ordinanza ha una funzione
integrativa del titolo esecutivo, tale da consentire che siano superati eventuali profili di incertezza o di genericità del titolo stesso, non potendosi affidare la concreta determinazione delle modalità alla parte interessata
[17]. Il
contenuto dell’ordinanza, nella realtà dell’esperienza forense concreta, è spesso
molto generico, proprio per dare all’Ufficiale procedente, e ai tecnici e ausiliari nominati che lo affiancano, la massima flessibilità nell’affrontare e risolvere le imprevedibili difficoltà che si possono presentare durante la fase attuativa. Anche la “designazione” dell’Ufficiale Giudiziario raramente si riferisce alla scelta di uno specifico Funzionario da parte del Magistrato, limitandosi il Giudice ad indicare un addetto all’Ufficio NEP (Notifiche Esecuzioni e Protesti) del Tribunale di competenza: l’individuazione concreta dell’incaricato sarà conseguente alle regole di distribuzione della competenza sul territorio, vigenti internamente ad ogni singolo Ufficio. Quindi è compito della
Cancelleria comunicare il provvedimento alle parti e all’Ufficiale Giudiziario designato, anche se questo adempimento non costituisce la vera e propria “fase di impulso”, nel senso che spetterà alla parte richiedente attivarsi, attraverso il proprio legale, e consegnare all’UNEP il titolo, il precetto e tutti gli atti e documenti utili all’esecuzione inseriti nell’apposito fascicolo, già formato dal cancelliere del Giudice dell’Esecuzione.
L’art.
613 C.P.C. dispone che l’Ufficiale Giudiziario “…
può farsi assistere dalla forza pubblica e deve chiedere al giudice dell’esecuzione le opportune disposizioni per eliminare le difficoltà che sorgono nel corso dell’esecuzione. Il giudice dell’esecuzione provvede con decreto[18]”. La
ratio dell’articolo consiste nel garantire l’attuazione della tutela esecutiva concessa, in quanto fornisce all’Ufficiale Giudiziario i mezzi per risolvere e superare una serie di difficoltà e di resistenze che potrebbero insorgere durante il procedimento esecutivo, idonee a paralizzare l’esecuzione, pregiudicando le aspettative del creditore procedente.
Quanto alle
spese del procedimento, secondo l’art.
614 C.P.C. alla loro liquidazione provvede il
Giudice dell’Esecuzione mediante decreto ingiuntivo, su richiesta del creditore procedente, che presenta la nota delle spese anticipate (comprese i diritti e gli onorari di difesa), vistata dall’Ufficiale Giudiziario
[19].
Un ultimo accenno al problema dell’impossibilità, o forte difficoltà, di assicurare tutela esecutiva ai diritti cui corrispondono obblighi aventi ad oggetto prestazioni di
fare (o di
non fare)
infungibile, che sembra aver trovato una soluzione nel nuovo strumento previsto dall’art.
614 bis C.P.C., introdotto dall’art. 49, co. 1, L. 18.6.2009, n. 69
[20]. La norma stabilisce che, su richiesta dell’avente diritto, il Giudice, nel disporre la condanna dell’obbligato ad un fare infungibile o ad un non fare, pronunci a suo carico un’ulteriore condanna accessoria, fissando la somma da lui dovuta “
per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”. La norma, quindi, introduce una
misura coercitiva patrimoniale di carattere generale, al fine di incentivare l’adempimento spontaneo degli obblighi che non risultano facilmente coercibili. Nel determinare la somma dovuta per ogni violazione, il Giudice dovrà tenere conto di alcuni parametri come il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o quello prevedibile, le condizioni personali e patrimoniali delle parti, accanto ad ogni altra circostanza utile. Tali parametri vorrebbero rappresentare un limite all’ampia discrezionalità del Magistrato giudicante.
Per concludere, le norme che il Codice dedica a questa forma di esecuzione forzata, poche se messe a confronto, ad esempio, con l’articolata disciplina dettata per le diverse ipotesi di espropriazione, potrebbero erroneamente far ritenere che si tratti di un procedimento di rilevanza marginale. All’opposto l’esperienza recente ha dimostrato che esiste un ampio ventaglio di casi in cui la realizzazione effettiva di diritti, anche di primaria importanza, presuppone necessariamente l’attuazione spontanea, o più spesso coattiva, di obblighi di fare o di non fare: di qui, l’esigenza di verificare in che misura questo modello di esecuzione sia utilizzabile per garantire al creditore “per quanto è possibile praticamente … tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire”, secondo la celebre formula del grande processualcivilista Chiovenda.
La cosa più deliziosa non è non avere nulla da fare.
È avere qualcosa da fare e non farla. Marcel Achard
Oggi il pregiudizio all’economia nazionale si configura considerando le fonti di produzione e di distribuzione della ricchezza: perciò, ad esempio, può essere ordinata senza problemi la demolizione di un immobile edificato contrastando un divieto legale o contrattuale, sebbene persista la crisi in tema di alloggi.
Il decreto con cui il Giudice risolve le difficoltà, tecniche e materiali, è privo di contenuto decisorio e ha natura prevalentemente ordinatoria, non è suscettibile né di appello (Cass., 18.3.2003, n. 3979), né di ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, co. 7, Cost. (Cass., 10.10.2003, n. 15176).