“Dimenticarsi di se stessi è un’arte”. Così si esprime nelle prime battute del film, la madre della protagonista, Beatrice in arte Tris, appartenente alla fazione degli abneganti che tra i principali divieti contempla quello di guardarsi allo specchio. E’ un mondo avveniristico antiutopico quello che l’America ridefinisce, dove le regole tradizionali dell’esistenza sono esplose. Il nuovo essere umano è valutato sulla base di test che scavano nei meandri più profondi delle sue paure, prima fra tutte quella del male di cui è depositario l’estraneo o il neo-iniziato quando entra in contatto con una comunità consolidata. Riuscita quanto scontata a tal riguardo, la scena hitchcockiana in cui Beatrice, durante un’allucinazione causata da un siero iniettato per monitorare il suo orientamento, si libera da un attacco feroce di uccelli, tuffandosi in un fantastico acquitrino che le restituirà lo stato di coscienza.
Divergent è un film del 2014 diretto da Neil Burger con protagonisti Shailene Woodley, Theo James e una spietata Kate Winslet. La pellicola è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo del 2011 di Veronica Roth, primo di una saga che comprende tre libri.
Una Chicago post-apocalittica che ricorda Gotham City, è cinta da mura misteriose e attraversata da treni vuoti che sfrecciano ad alta velocità senza chiare destinazioni, immersa nelle sfumature dark di una fotografia di certo non rivoluzionaria. Qui, uno stato totalitario che, tradizionalmente per questo genere, ha ridotto al minimo il contatto con la natura e ha ingabbiato e omologato gli esseri umani, classifica gli individui dividendoli in una delle poche fazioni esistenti ovvero quella degli abneganti, dediti al prossimo e attualmente al potere; degli intrepidi, guerrieri preposti all’ordine; dei pacifici, dei candidi e degli eruditi, in lizza con gli abneganti per il governo della città. Tris e il fidanzato Quattro, inizialmente leader degli intrepidi, sono “divergenti” e dunque complessi, non riducibili ad un’unica tipologia esistenziale e per questo, se scoperti, rischiano di essere uccisi o di essere confinati tra gli esclusi poiché sfuggono ad ogni forma precostituita di controllo. Il passaggio da una fazione all’altra è pressoché impossibile. Compiuta la propria scelta che il test già manipola, non è possibile cambiare fazione. Tris infatti, dapprima vive insieme alla sua famiglia tra gli abneganti ma dopo l’effettuazione del test, al compimento del sedicesimo anno che sancisce la sua iniziazione pubblica, si accrediterà tra gli intrepidi sottoponendosi di conseguenza a moduli formativi crudeli e competitivi che non lasciano chance sociali ai perdenti.
L’idea è importante e il tema attuale. Rappresenta un indiscusso touché sociale per descrivere la difficoltà d’interazione e gestione delle persone nella ridondanza quantitativa delle possibili forme di vita e di governo e nella ricerca di logiche che armonizzino le spinte individuali con le richieste provenienti dall’esterno. Il plot sembrerebbe una risposta surreale quanto possibile per arginare il caos e la molteplicità, acuiti dalla globalizzazione e dall’incremento demografico quasi insostenibile delle megalopoli. L’utopia di sistemi come quello di Fourier o Saint Simon si trasforma in questo genere narrativo in antiutopia, quella già rappresentata ampiamente da Orwell e trasposta in tanta fanta-cinematografia soprattutto americana che non trascura zombie e ultracorpi sullo sfondo di una guerra persistente e di intrighi di potere che annientano il libero arbitrio e tendono piuttosto a spacchettare la personalità per indagarne i lati più oscuri ricomponendola con l’ausilio delle macchine.
Interessante come il tentativo di ridurre la complessità senza semplificarla ma solo schematizzandola rigidamente, non solo depauperi la bellezza proteiforme del singolo e il suo rapporto con gli altri, ma alla fine non faccia che riproporre, estenuandole, le leggi del disordine morale e riconduca tutto a forme più pericolose di controllo sociale. Il potere infatti, rispondendo alla sua logica auto-distruttiva, spesso si vede costretto ad emarginare gli individui più strutturati poiché non inseribili tout court nelle griglie di un sistema che livella ogni sporgenza della personalità, quella creativa o semplicemente quella del dubbio, normalizzandola.
A fronte di un’idea decisamente azzeccata, il film non riesce tuttavia a gestire le tante narrazioni che mette in campo confusamente, concentrandosi con superficialità su pochi temi che danno troppo spazio all’azione e riportano il finale su un consueto cliché buonista. Certo conferire ordine al caos è un’antichissima necessità che ha visto avvicendarsi e sperimentare molteplici forme di convivenza, dalla suddivisione in tribù fino a quella in caste, ed è un bisogno impellente quanto irrealizzabile. Buone leggi e regole efficaci dovrebbero, forse, aiutare l’individuo a farsi spazio per danzare più che per marciare, educandolo a conoscere per riconoscersi. E forse solo in questo modo sarà davvero possibile dimenticare se stessi.