Dimenticare Piombino
“Piombino è un posto che chiamarlo città pare troppo, cittadina ricorda la scuola elementare, paese non rende bene l’idea”. Sebbene questa presentazione sembri assegnare a Piombino un immutabile rango di provinciale da cui è impossibile liberarsi, scopriamo sin dalle prime pagine di “Calcio e acciaio”, l’ultimo romanzo di Gordiano Lupi edito da Acar Edizioni, come il sogno e il ricordo siano in grado di mutare realtà che credevamo immodificabili, compresa la natura di un luogo o di una città.
Piombino è la destinazione ultima del viaggio di Giovanni, una carriera da calciatore che l’ha portato in tutta Italia e che è culminata in serie A con la maglia nerazzurra dell’Inter. Prima di imboccare la strada del ritorno a casa sono ben altri i luoghi in cui l’ha condotto la passione girovaga del calciatore professionista. Milano gli ha dato tutto, “nazionale, partite di coppa, viaggi all’estero, soddisfazioni”, senza tuttavia colmarlo di quel calore lasciato al Sud, a Trani, insieme ai campionati in serie B e all’amore di Debora[1]. E neppure Varese, la città in cui si rifugiava con la sua nuova compagna e la sua famiglia di industriali, è riuscita a riempiere il vuoto che lo accompagna, con le sue “colline dove la ricca borghesia trascorreva domeniche primaverili fingendo di affacciarsi sul mare”.
Un solo luogo è in grado di farlo sentire accolto e offrirgli una prospettiva, la Piombino di suo padre e di suo nonno, della sua giovinezza, una città contraddittoria che coniuga la bellezza della natura, le sue calette misteriose, gli anfratti nascosti, gli arbusti sempreverdi e la macchia mediterranea[2] all’ingombrante e onnipresente presenza del complesso siderurgico, un mostro capace di condizionare la vita di intere generazioni[3] che “mandava in fumo la fatica di braccia operaie”.
Giovanni non è tornato a Piombino per denaro, ma per una passione che non vuole saperne di morire e che condivide con chi di calcio si nutre e respira[4]. Si ritrova a soffrire, seduto sulla panchina nel ruolo di allenatore, per un derby che non contrappone più rossoneri e neroazzurri, ma Piombino contro Isola d’Elba impegnate nel "derby del canale", la partita decisiva per il passaggio nel campionato di Eccellenza. È un ritorno, il suo, che potrebbe apparire amaro e macchiato dall’ombra del declino, ma che in realtà nasconde il desiderio di non abbandonare l’amore della sua vita, l’unica cosa positiva che il protagonista reputa di aver fatto: il calcio.
Eppure, nonostante un presente fatto di sudore e di tensione consumati su una panchina, le pietre e gli scorci di Piombino non fanno che evocargli ricordi del suo passato, dal nonno che narrava fiabe, al padre che entrava e usciva dallo stabilimento ma si sedeva a tavola dando le spalle alle acciaierie, per cancellare la loro presenza almeno durante la sacralità del pasto.
Nonostante il volutamente contraddittorio sottotitolo “Dimenticare Piombino”, “Calcio e acciaio” è in primo luogo un romanzo di ricordi, in cui anche il tempo presente è usato per raccontare ciò che è stato, in un processo di fusione tra ieri e oggi che richiama alla mente la metafora dell’acciaieria. A venire svelato non è solo il passato del protagonista, ma quello della sua famiglia, dei suoi amori, dei personaggi che gli si affiancano, che incrociano la sua strada o che percorrono con lui un tratto parallelo.
I ricordi mescolano la loro natura con i sogni, imprescindibili nella vita dell’uomo, costantemente sottoposta alla tensione tra una realtà spesso insoddisfacente ma che va affrontata e la necessità di “immaginarsi altrove, oltre lo scampato pericolo” che sorge soprattutto nei momenti più difficili. Sono i sogni dei vecchi che hanno conosciuto la povertà e le difficoltà, “una casa, un lavoro, un amore, una famiglia”, normali desideri agli occhi di un giovane ma sentiti come “cose grandi e difficili da conquistare” da un nonno “intrappolatore di sogni[5]”. Ma sono anche i sogni dei giovani, dei ragazzi che seguivano Giovanni immaginando per se stessi “un futuro simile al suo passato, [che] pendevano dai ricordi di un uomo insoddisfatto che nascondeva le sue pene e dava l’impressione di avere grande fiducia nei suoi mezzi”.
“Giovanni pensa al passato che lo tormenta, un insieme di incubi strani e di sogni irreali, ogni volta che deve andare in panchina, prima del fischio dell’arbitro”. In quel momento tutto si stempera e in un attimo gli sembra impossibile di essere stato contemporaneamente un giocatore di serie A e della Nazionale, e il bambino che giocava con i Super Tele e che voleva diventare come Lido Vieri e Aldo Agroppi, giocatori famosi che vivevano nella sua stessa città. Ma subito cancella quei pensieri e si abbandona alla passione, perché sa che “il calcio non è una scienza esatta (…), non si può prevedere tutto con il ragionamento, è proprio questo il fascino dello sport che ama”.
“Calcio e acciaio”, che nella dedica iniziale viene presentato dall’autore come “il massimo che posso fare in tema di storie d’amore”, ci regala pagine di poesia dense di immagini che appaiono sfocate dal tempo, intervallate da fotografie in bianco e nero di scorci piombinesi che sanno di nostalgia, di una provincia “immutabile solo se la guardi dall’interno, se non torni a viverla dopo una lunga assenza”. Una provincia che Gordiano Lupi conosce a fondo per averla vissuta, e in particolare quella Piombino che, come scrive Gianni Anselmi, sindaco di Piombino, nella sua prefazione al romanzo, è “fiera e ricca di quello che aveva e produceva, non solo redditi da lavoro ma un ambiente sociale, una comunità di destino, una periferia ma non del pensiero, un luogo ma non un posto”.
[1] “Sei sempre stata più forte di me, Debora, con la tua semplicità mascherata, le tue domeniche a messa tra canti d’organo e di chitarra. Ti guardavo senza capire, e ti attendevo fuori dalla chiesa, con l’indifferenza di un figlio di un mondo diverso”
[2] Forse è da quel tempo che il promontorio è diventato il pensatoio di Giovanni, forse è merito del nonno se ogni volta cerca una soluzione ai problemi con il volto rivolto alla spiaggia di Calamoresca, tra tamerici salmastre e il profumo di pitosforo e rosmarino.
(…) La consueta passeggiata nel promontorio, osserva le isole nel canale, le agavi spinose, le tamerici e i pini marittimi ritorti su loro stessi dopo tempeste di vento. (…) di percorrere la strada sterrata che da Calamoresca conduce al Golfo di Baratti, tra calette misteriose, anfratti nascosti, arbusti sempreverdi e macchia mediterranea.
[3] “Non vorrai mica finire là dentro?” continuava il babbo tendendo la mano verso l’inferno d’acciaio della grande industria che sembrava una gigantesca piovra alla conquista della città.
[4] Il Presidente è un ex calciatore, modesto difensore delle categorie dilettanti, che rimette molto denaro per una squadra che è il suo giocattolo preferito. “Non ho vizi. Non ho amanti. Non ho nemmeno la barca”, si giustifica con la moglie quando lo rimprovera di buttare troppi soldi nel calcio.
[5] Era affascinante. Mi narrava storie del passato, ricordi di guerra, avventure di contadini (…). Mio nonno era un semplice operaio, ma io lo vedevo come un geniale scienziato, meglio ancora, come un narratore di sogni. Ecco, mio nonno era l’uomo che intrappolava i sogni, aveva la dote non comune di farteli rivivere, come un folletto capace di trasmettere saggezza.