Una città che sia soltanto di un uomo
non è una città.
Sofocle
La “cittadinanza”, dal punto di vista giuridico, è la condizione giuridica della persona che appartiene ad uno Stato, ed è titolare dei diritti civili e politici che si esercitano secondo il suo ordinamento, e ugualmente degli obblighi da esso imposti. La cittadinanza, quindi, può essere vista non solo come uno
status (dal latino “condizione/posizione”) del cittadino, ma anche come un rapporto giuridico
[1] tra cittadino e Stato. Le persone che non hanno la cittadinanza sono
stranieri se hanno quella di un altro stato,
apolidi se, invece, non hanno alcuna cittadinanza
[2].
Fin dalle prime esperienze della “statualità” organizzata nel mondo occidentale si avvertì la necessità di riconoscere questo
status: nella Grecia antica e successivamente in epoca romana il cittadino diviene tale secondo il criterio fondamentale dello
ius sanguinis o “diritto di sangue”, che attribuisce automaticamente la cittadinanza ai figli di cittadini (per nascita), anche qualora essi siano stati partoriti in territorio straniero
[3]. Nel 212 d.c. la cittadinanza venne attribuita ad ogni individuo dell’Impero Romano, e costituì il presupposto per assoggettarlo al pressante controllo dell’autorità
[4]. In epoca medievale il concetto di cittadinanza subì una sostanziale svalutazione di fronte all’affermarsi di un modello di Stato fondato sul patrimonio e sul territorio, sulla concezione dell’individuo come mera “pertinenza” della terra, quando non inquadrato in corporazioni chiuse, e dunque di una organizzazione sociale in cui l’idea di “popolo” non aveva consistenza. Solo con la Rivoluzione Francese e con l’affermazione del modello tendenzialmente “democratico” di Stato, il progressivo superamento della sua organizzazione corporativa e la personalizzazione del rapporto che lo lega all’individuo, la nozione di “cittadinanza” entra di regola nei testi normativi, e costituisce il presupposto dello
status activae civitatis, cioè della partecipazione del cittadino alla vita politica dello Stato, oltre che il riconoscimento al cittadino stesso di particolari diritti, quali ad esempio lo
ius honorum (possibilità di accesso alle cariche pubbliche), e la protezione diplomatica all’estero; di contro il cittadino accettava alcuni rilevanti doveri, essenzialmente di carattere militare e di assoluta fedeltà al Sovrano. L’istituto della cittadinanza così, progressivamente, ha avuto il rilevante compito di identificare l’appartenenza allo Stato, con riferimento a uno dei suoi elementi costitutivi: il popolo. Ecco che l’istituto si è affermato in quanto e come disciplinato da norme positive (poste/
positae), non ammettendo accertamenti di tipo “naturalistico”.
Per giungere brevemente al nostro tempo, quando è stata promulgata, nel febbraio del 1992, la legge denominata "Nuove norme sulla cittadinanza", essa ha comportato l'abrogazione di numerose leggi e articoli di legge (la prima risale al 1912
[5]), che trattavano singoli aspetti della materia, cercando di dare un quadro organico alle disposizioni e ridisciplinando integralmente la materia
[6].
La cittadinanza italiana è basata principalmente sullo “ius sanguinis” per il quale il figlio nato da padre italiano o da madre italiana è italiano (art.1 l.91/1992); a questo principio si contrappone, in generale, quello dello “ius soli” relativo alla nascita sul "suolo", sul territorio dello Stato. Per i paesi che applicano lo ius soli è cittadino originario chi nasce sul suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori, e la riforma del 1992 introduce elementi di modernizzazione limitando, tuttavia, l'acquisto automatico della cittadinanza iure soli ai figli di ignoti (trovati nel territorio della Repubblica, qualora non venga provato il possesso di altra cittadinanza), di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori (cioè se secondo la legge dello Stato al quale questi ultimi appartengono, non sono cittadini in quanto nati in Italia, art.1, II comma).
Altra modalità fondamentale per acquistare la cittadinanza consiste nella "iure communicatio", ossia la trasmissione all´interno della famiglia da un componente all´altro (per matrimonio, riconoscimento o dichiarazione giudiziale di filiazione, o adozione); ai sensi dell’articolo 5 della legge 91/1992, la cittadinanza può essere concessa per matrimonio, in presenza dei seguenti requisiti:
· il richiedente, straniero o apolide, deve essere coniugato con cittadino italiano e risiedere legalmente in Italia da almeno 2 anni dalla celebrazione del matrimonio;
· se i coniugi risiedono all'estero, la domanda può essere presentata dopo tre anni dalla data di matrimonio
[7].
La legge prevede, inoltre, rilevanti preclusioni per l’acquisto della cittadinanza da parte del coniuge straniero che sia stato condannato per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del Codice Penale (si tratta dei delitti contro la personalità esterna e interna dello Stato, contro gli Stati Esteri, contro la Pubblica Amministrazione, contro l'attività giudiziaria), o che sia stato condannato “per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero la condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia; ma anche la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica”.
Anche il requisito della residenza in Italia è presupposto previsto dalla legge (art.9) per l’acquisto della cittadinanza, che può essere concessa:
· allo straniero del quale il padre o la madre (o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado, es. i nonni) sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni (art.9, c.1 lett.a)
[8];
· allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano, che risiede legalmente nel territorio italiano da almeno cinque anni successivamente all’adozione (art.9, c.1, lett. b);
· allo straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato italiano (art.9 c.1, lett.c);
· al cittadino di uno Stato U.E. se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio italiano (art.9 c.1, lett.d);
· all’apolide e al rifugiato che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio italiano (art.9 c.1, lett.e) combinato disposto art.16 c.2)
[9];
· allo straniero che risiede legalmente da almeno 10 anni nel territorio italiano (art.9 c.1, lett.f);
L’art.14 della legge 91/1992 prevede un caso di “acquisto automatico” per cui i figli minori di chi acquista o riacquista la cittadinanza italiana se convivono con esso, acquisiscono la cittadinanza italiana, ma, divenuti maggiorenni, possono rinunciarvi, se in possesso di altra cittadinanza.
A tutti questi casi di “
naturalizzazione agevolata” per il ricorrere di determinati requisiti, si affianca l’ipotesi di
naturalizzazione per così dire in via
ordinaria, quando cioè la cittadinanza è concessa su istanza dello straniero nato in Italia, residente legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, se dichiara di voler acquistare la cittadinanza entro un anno da quest’ultima data (art.4, c.2)
[10].
La legge in esame è stata ulteriormente integrata da fattispecie particolari concernenti, ad esempio, il riconoscimento della cittadinanza italiana ai connazionali dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia e ai loro discendenti (legge n.124/2006 che introduce l’art.17bis e 17ter).
Il dibattito contemporaneo circa la disciplina dell’acquisto della cittadinanza nei paesi occidentali, e in Italia in particolare, ruota attorno a quale principio guida scegliere tra ius sanguinis e ius soli, avendo gli altri due principi (quello della trasmissione per matrimonio e della naturalizzazione o per decreto o per concessione), una funzione puramente integrativa.
Lo ius sanguinis (conforme al modello tedesco) presuppone una concezione "oggettiva" della cittadinanza, basata sul sangue, sull'etnia, sulla lingua. Lo ius soli (conforme al modello francese) presuppone, invece, una concezione "soggettiva" della cittadinanza, come "scelta di convivenza quotidiana". Attualmente la maggior parte degli stati europei adotta il principio dello ius sanguinis, con la rilevante eccezione della Francia, dove vige lo ius soli fin dal XVI secolo.
L'adozione dell'una piuttosto che dell'altra opzione ha rilevanti conseguenze negli Stati interessati da forti movimenti migratori. Infatti, lo
ius soli determina l'allargamento della cittadinanza ai figli degli immigrati nati sul territorio dello Stato: ciò spiega perché sia stato adottato da paesi (Stati Uniti, Argentina, Brasile, Canada ecc.) con una forte immigrazione e, al contempo, un territorio vasto e in grado di ospitare una popolazione maggiore di quella residente. Al contrario, lo
ius sanguinis tutela i diritti dei discendenti degli emigrati, ed è dunque spesso adottato dai paesi interessati da una forte emigrazione, anche storica (diaspora: Armenia, Irlanda, Israele), o da ridelimitazioni dei confini (Bulgaria, Croazia, Finlandia, Germania, Grecia, Polonia, Serbia, Turchia, Ucraina, Ungheria). Può accadere che una persona acquisisca la cittadinanza dello stato di origine dei genitori, dove vige lo
ius sanguinis, e nel contempo quello dello stato sul cui territorio è nata, dove invece vige lo
ius soli. Queste situazioni di
doppia cittadinanza possono causare inconvenienti (si pensi al caso di chi è obbligato a prestare servizio militare in entrambi gli stati di cui è cittadino), sicché gli stati tendono ad adottare norme per prevenirla, anche sulla base di trattati internazionali (Cfr. art.26 L.91/1992)
[11].
In realtà la situazione è cambiata in modo radicale negli ultimi decenni, tanto che ormai possiamo definire anche l’Italia come paese di immigrazione oltre che di emigrazione; per questa ragione sono in molti a considerare non più adeguato un sistema basato esclusivamente sullo
ius sanguinis, regime che crea una consistente percentuale di individui nati e cresciuti in Italia, quindi di “nazionalità” italiana, sprovvisti però del riconoscimento giuridico della cittadinanza. Il termine “cittadinanza” viene spesso confuso col termine “nazionalità” che nel linguaggio comune assume la medesima accezione, ma che in realtà non implica alcun
status giuridico: essa è infatti un’adesione personale ad una “nazione”, intesa come gruppo di individui che condividono gli stessi costumi culturali (lingua, religione ecc), che non coincide necessariamente con lo Stato e perciò, non necessariamente viene riconosciuta giuridicamente da esso. Ad esempio la nazionalità italiana si estende a cittadini di altri stati come la repubblica di San Marino e ai cittadini dalmati italofoni della Croazia. Al contrario all’interno dello stato italiano vi sono comunità di diversa nazionalità come gli abitanti del Sudtirol, che si considerano di nazionalità austriaca
[12].
E’ facilmente prevedibile che ben presto si avvertirà prepotente la necessità di adeguare la normativa esaminata, nei confronti di questi potenziali nuovi cittadini; ci si chiede se il comune percorso scolastico, la lingua condivisa, la frequentazione delle stesse formazioni sociali siano elementi sufficienti o se il legislatore dovrà individuare altri meccanismi utili ad accertare la volontà reale di far parte dello stesso tessuto comunitario nazionale.
Il cittadino veramente libero
è colui che non dipende dal governo
e non ne riceve niente.
Alfred De Vigny
· si è apolidi per origine quando non si è mai goduto dei diritti e non si è mai stati sottoposti ai doveri di nessuno Stato;
· si diventa apolidi per derivazione a causa di varie ragioni tutte conseguenti alla perdita di una precedente cittadinanza e alla mancanza di una contestuale acquisizione di una nuova.
Cfr. Wikipedia, l’enciclopedia libera
Legge n. 151 del 1975 (riforma Diritto di famiglia), legge n. 123 del 1983 (su adozioni di minori stranieri e matrimonio con persona straniera).