Ci sembra sempre che il più gran bene sia quello che ci manca;
se riusciamo ad averlo, sospireremo un altro bene con lo stesso ardore.
Lucrezio
Il “diritto quesito”, per definizione, è il diritto acquistato in forza di una norma di legge e divenuto parte integrante del patrimonio di un soggetto; questo comporta che eventuali modificazioni legislative successive non possono determinare variazioni del diritto già “acquisito”, già consolidato in capo al soggetto. Un esempio “di scuola” di diritto quesito è quello del lavoratore alla retribuzione per prestazioni già effettuate, principio ricavato dalla costante Giurisprudenza direttamente dalla Costituzione
[2]. Altri esempi di uso, per così dire, “tecnico” dell’allocuzione “diritti quesiti” si rinvengono in materia di diritto processuale civile, laddove, per esempio, si stabilisce che la parte che ha citato in giudizio un convenuto, non perde il diritto di riproporre azione (il diritto è acquisito), anche se il Giudice rileva che l’atto di citazione è in realtà nullo per una serie di motivi espressamente indicati, e il contenzioso non può immediatamente instaurarsi (art.164 Codice Procedura Civile
[3]), oppure nel processo del lavoro in cui il Giudice
“…indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti”; in altre parole per il particolare favore riconosciuto dall’ordinamento al rapporto processuale in materia di lavoro, non solo è sempre permesso al Magistrato di “conservare” la procedura indicando alle parti gli adempimenti necessari a superare le irregolarità, ma anche alle parti stesse di mantenere facoltà processuali altrimenti perdute, causa appunto irregolarità commesse (art.421 Codice di Procedura Civile
[4]).
Ma per inquadrare in una corretta dimensione giuridica il concetto di “diritto quesito”, occorre prendere le mosse dal principio generale della “irretroattività” della legge
[5]. La norma giuridica contiene un comando che per essere osservato necessita almeno della possibilità di essere conosciuto in precedenza: ciò spiega la regola stabilita nell’art.11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale (o Preleggi al Codice Civile
[6]), “
La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”
[7]; in altri termini essa non può applicarsi a rapporti che si sono verificati prima della sua emanazione. Il principio è, ovviamente, ispirato ad esigenze di certezza del diritto ed è
derogabile, nel senso che il legislatore, in via eccezionale, può ritenere di estendere gli effetti di una nuova legge al passato (es. può disporre che certi aumenti di stipendio abbiano decorrenza da una data anteriore a quella di entrata in vigore della legge che li stabilisce), con previsione esplicita o implicita (cioè ricavabile, ad es., dalla
ratio o motivazione logico/politica della norma)
[8]. Con l’entrata in vigore della Costituzione, nel 1948, il principio ha assunto valore di precetto costituzionale, vincolante, solo per le
leggi penali incriminatrici, cui espressamente si riferisce l’art. 25, II comma, Cost.
[9]
Tuttavia l’applicazione del principio dell’irretroattività non è sempre semplice ed immediata, soprattutto quando si tratta di fattispecie verificatesi prima dell’entrata in vigore della nuova legge, ma i cui effetti perdurano nel tempo (esempio, noto in rete
[10], di quella impresa italiana che registrò all’Ufficio Brevetti il proprio marchio nel 1989 pagando la relativa tassa per 20 annualità, periodo al tempo previsto come minimo prima di rinnovare la registrazione. Sennonché nel 1992 fu emanata una nuova norma in materia -D.lgs. 480/1992-, che prevedeva la durata decennale della registrazione del marchio. Ci si è domandati, allora, se la norma fosse retroattiva o no, e se la durata decennale si applicasse anche ai marchi registrati prima della sua entrata in vigore, oppure se questi marchi avessero “acquisito” il diritto di rinnovare l’iscrizione comunque dopo 20 anni. La dottrina era contraria alla limitazione “sopravvenuta” del periodo di registrazione, così come la Giurisprudenza. Tuttavia, ad anni di distanza, il nuovo Codice della Proprietà Industriale (D.lgs 30/2005), ha affermato, all’art.231, che i marchi registrati prima della riforma del 1992 sono assoggettati alla durata decennale. In pratica cadeva il limite dell’irretroattività e cadeva anche il limite dei “diritti quesiti”, poiché un diritto acquistato nel 1989 veniva modificato da una legge del 1992. Dunque, nella maggior parte dei casi, interviene, opportunamente, il legislatore a regolare il passaggio tra la vecchia disciplina e quella nuova con specifiche norme “transitorie” o addirittura, con apposite leggi “interpretative” che guidano l’azione degli operatori del diritto. Nel caso in cui tali norme manchino, da sempre si è avvertita la necessità di individuare un criterio generale che permettesse di risolvere i problemi sorti in seguito alla successione di leggi nel tempo e, di conseguenza, individuare la legge da applicare al caso concreto.
Le origini della teoria dei “diritti quesiti” risalgono all’epoca medievale (XIII° secolo), e nel corso dei secoli il concetto è stato più volte rielaborato fino ad essere ripreso in epoca illuministica come teoria “garantista”, in relazione ai diritti fondamentali riconosciuti ad ogni persona. In epoca pandettistica
[11], in particolar modo, si affermarono diversi orientamenti, dei quali uno considerava “quesito” solo quel diritto che sorgeva per fatto volontario dell’uomo e mirava soprattutto a tutelare i diritti provenienti dai contratti privati contro gli eventuali interventi dell’Autorità. Per altri giuristi la tutela dalla legge successiva doveva essere estesa a tutti i diritti. Il Savigny
[12] distingueva invece le norme che riguardano l’acquisto dei diritti da quelle che concernono l’esistenza dei diritti, il loro modo di essere e di esercizio. Egli riteneva che solo nel primo caso deve operare l’irretroattività, mentre per le seconde vale la retroazione, in quanto sono per lo più imposte da ragioni di necessità, d’ordine pubblico ecc. In pratica, però, è sempre risultato problematico individuare i “diritti quesiti” per via delle numerose eccezioni previste dalle legislazioni transitorie, col risultato che a volte la legge li rispettava, altri li travalicava venendo comunque applicata. Proprio l’indeterminatezza della nozione di “diritto quesito” ha fatto sì che costantemente la Giurisprudenza italiana abbia accolto la diversa teoria del “fatto compiuto” (
facta praeterita), in virtù della quale le nuove norme non estendono la loro efficacia ai fatti compiuti sotto il vigore della legge precedente, benché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti (es. una legge fissa un termine per esercitare un diritto, il termine spira e il diritto si estingue e non dovrebbe essere possibile emanare una nuova norma che disponga un nuovo termine più lungo del precedente, e questo per ovvi motivi di tutela dell’affidamento e di certezza del diritto).
A ben vedere quello della irretroattività costituisce un principio giuridico, non un limite legislativo, perciò non è possibile vietare al legislatore di emanare norme che retroagiscano nel passato, soprattutto in vista di nuove esigenze sociali
[13]. Problema più complesso è quello di stabilire, una volta riconosciuto che la retroattività delle leggi costituisce un’eccezione cui ricorrere in casi di estrema necessità, fino a che punto la legge può disporre per il passato
[14]. E’ fuori di dubbio che una nuova legge non si può applicare a rapporti giuridici che al momento della sua entrata in vigore hanno esaurito i loro effetti in conseguenza di una sentenza passata in giudicato (i diritti quesiti sono, in questo caso, diritti acquistati definitivamente)
[15].
Per valutare meglio questo decisivo aspetto è utile rivolgere l’attenzione alla materia previdenziale: ad ogni (ricorrente negli ultimi anni) riforma legislativa del sistema pensionistico, uomini politici e sindacalisti contrari (oltre che gli stessi futuri utenti) si pongono pubblicamente il problema se sia consentito o meno al legislatore di riformare
in pejus il trattamento pensionistico, e “calpestare” i diritti quesiti e le “aspettative” pensionistiche
[16]. Cosa sono i diritti quesiti e le c.d. aspettative in materia previdenziale, e quando temporalmente “nascono” secondo le Corti Superiori del sistema giudiziario italiano? La Corte Costituzionale (sent. N. 390 del 26/07/1995) ha stabilito che il “diritto quesito” pensionistico
va valutato con riferimento alla normativa vigente al momento del perfezionamento del diritto alla pensione, non sussistendo un diritto quesito relativo al trattamento di pensione in base alla normativa vigente al momento
in cui il dipendente è stato assunto. Il Consiglio di Stato (sez. V, 28/02/1987 n.140), ancora prima aveva stabilito “…in materia di quiescenza non può parlarsi di diritto quesito se non quando la pensione non sia stata liquidata, mentre
anteriormente al verificarsi del fatto acquisitivo del diritto a pensione il dipendente può vantare solo una aspettativa ad un determinato trattamento di quiescenza
[17]”. In altre parole, il trattamento pensionistico prende vita e misura dalle norme in vigore in quest’ultimo momento, prima del quale l’interessato non può lamentarsi di eventuali modifiche normative che incidono sul predetto trattamento. E non è finita, nel senso che la Corte Costituzionale con sent.446 del 12/11/2002 ha ribadito un principio già espresso in una sentenza precedente, per cui si è aperta una breccia per “toccare” anche i trattamenti già in pagamento, disponendo che il
legislatore può, al fine di salvaguardare equilibri di bilancio e contenere la spesa previdenziale, ridurre trattamenti pensionistici già in atto, certo non limitando del tutto il diritto ad una pensione legittimamente attribuita, ma introducendo con legge successiva una “
disciplina non irragionevolmente più restrittiva”… Questo orientamento è comprensibile tenendo presente che il nostro ordinamento giuridico, al pari degli altri, conosce una pluralità di meccanismi ed argomentazioni giuridiche per intervenire, ridiscutendo anche i diritti acquisiti
[18]. Si parla di
“economia dell’affare”, “equilibrio contrattuale”, “principio di proporzionalità”, interpretazione secondo buona fede, di equità, “condizioni non sviluppate”, “base negoziale oggettiva”, errore, sopravvenienze, integrazione contrattuale, “motivi rilevanti”,
presupposizione. Tutti questi principi, in estrema sintesi, vogliono porre rimedio, nei rapporti a “esecuzione continuata”, ai casi nei quali l’equilibrio iniziale delle prestazioni viene turbato
oltre ogni limite (economicamente) tollerabile da “sopravvenienze”, ossia da fatti nuovi e non (o solo parzialmente) preventivabili. A risolvere il problema potremmo chiamare, tra tutte, la regola (esplicitata nel Codice Civile con locuzione chiara e non equivoca) della “eccessiva onerosità sopravvenuta”, che permette di riconsiderare l’obbligatorietà di prestazioni che, nel corso del tempo e per fatti non preventivabili, si sono rese, appunto, “eccessivamente onerose”
[19]. In conclusione, se la regola “
pacta sunt servanda” indica che gli accordi vanno rispettati, questo è vero “
rebus sic stantibus”, ossia fintantoché la situazione di fatto sottostante all’accordo sia ancora la stessa (o sia, quantomeno, paragonabile); al mutare abnorme di quest’ultima ben si può intervenire, quindi, pure sui cd. “diritti quesiti”. Per il resto occorrerà proprio affidarsi, come ha stabilito con diverse pronunce la Corte Costituzionale, alla “prudente valutazione del legislatore” tenuto ad assicurare “in via di principio” la certezza dei rapporti giuridici, intesa come uno dei cardini della tranquillità sociale e del vivere civile.
Credo profondamente che libertà e legge siano inseparabili:
credo sinceramente che il progresso sociale
rafforzi e diffonda la libertà.
Robert F. Kennedy
Vedi tra le diverse pronunce: Cassazione Sezione Lavoro n. 19351 del 18 settembre 2007, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri, “…infatti l'unico limite in materia è dato dalla intangibilità di quei diritti che siano già entrati a fare parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita. Ne consegue – aggiunge la Suprema Corte – che la tematica dei "diritti quesiti" attiene unicamente a queste ultime posizioni”