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Dizionario delle cose perdute – Francesco Guccini

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Libellule Mondadori – Pag. 140 – Euro 10
 
Premetto che sono un fan di Francesco Guccini cantante. Possiedo tutti i suoi dischi in vinile che ho cominciato a comprare nei primi anni Settanta, persino Radici, Francesco due anni dopo, Stanze di vita quotidiana, Via Paolo Fabbri. Ritengo che Guccini sia un poeta, degno di finire nelle antologie scolastiche, un cantastorie capace di raccontare in musica la nostra realtà, anche si lascia prendere da derive politiche non sempre condivisibili, ma questo fa parte delle idee e non è contestabile. Guccini è un mito per la mia generazione, un uomo imprescindibile, un personaggio fondamentale, uno dei pochi cantanti capaci di scaldare la platea di un concerto popolata tanto da ragazzi che da uomini della mia generazione. Tutto questo per dire che ho acquistato con entusiasmo il suo Dizionario delle cose perdute, edito da Mondadori, convinto che tra quelle pagine avrei trovato tutta la poesia delle ballate di Guccini. Mi è andata male, purtroppo. A ciascuno il suo, direbbero i latini. Se uno è bravo a suscitare emozioni usando la musica perché deve tentare di farlo scrivendo? Il libro di Guccini – introdotto da una pessima poesia di Raffaele La Capria che dovrebbe essere il logo della collana – è piatto, senza sangue, monocorde, procede con incedere nostalgico senza produrre fremiti di commozione. Un vero peccato, perché gli argomenti ci sarebbero stati, ma vengono trattati come in un tema scolastico di uno studente svogliato, scritti con una penna che non ha visto neppure da lontano l’inchiostro della letteratura. Il primo capitolo parla della pettinatura a banana che negli anni Sessanta andava di moda per i bambini piccoli, ma la narrazione ricorda una puntata del programma di Carlo Conti e non ha niente a che vedere con la scrittura. Si va avanti con il chewing-gum e di nuovo leggiamo un racconto pedissequo su tutto quello che gli americani hanno portato in Italia, ma senza un briciolo di partecipazione emotiva. In questi casi sarebbe utile interessare il lettore raccontando esperienze personali, non è possibile limitarsi a fare elenchi di cose perdute, non è questo il compito della letteratura. Il capitolo migliore è dedicato al cinema di terza visione, al rumore dei ragazzini, ai semi di zucca che adesso non mangia più nessuno, ma tutto il resto è noia, direbbe Califano. Un’occasione perduta per una rievocazione proustiana del tempo perduto. La cosa più bella è la copertina che riproduce un vecchio pacchetto di sigarette nazionali, ma che fastidio il nome dell’autore (richiamo per le allodole) a caratteri cubitali e il titolo quasi nascosto! Questo è proprio genere di editoria che non amo e contro la quale ho polemizzato in tre libercoli che nessuno ha letto. Visto che ogni tanto ci casco pure io, vuol dire che sono proprio bravi. Non come editori ma come venditori.

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