Le nevi del Kilimangiaro è un film dei nostri giorni, ovvero un documento realistico nell'era della globalizzazione e della follia autodistruttiva insita in un'organizzazione del lavoro che non esiste, esiste a tratti, in modo scorretto ed indegno, disorganico e saltuario. Esiste pur essendo invisibile o non guardabile troppo da vicino. Anche l'etica è aleatoria e non riesce a garantire un nuovo assetto del mercato occupazionale che sia davvero "riformato" a livello europeo. A prevalere è piuttosto l'ancestrale guerra tra poveri che s'incaglia su vecchie burocrazie, logiche melmose e inadeguate, polverosi decisionismi. Ed è proprio in una luminosa immersione di polvere che si muove la non troppo sofisticata fotografia di Pierre Milon (utilizza il super 16 per la cronaca). Una fotografia fatta di luci scarne ma intense, che irradiano ripetutamente il microcosmo altrettanto povero eppure assai rappresentativo di L'Estaque, quartiere di Marsiglia con un piccolo porto nonché luogo d'origine di Robert Guédiguian. Quest’ultimo è un regista che ha avuto sempre a cuore i problemi del proletariato e che, nel 2005, mentre scriveva un appello per votare contro la Costituzione Europea, citò proprio il poema Les pauvres gens (La povera gente) di Victor Hugo, cui il film si ispira, per descrivere le nuove forme di indigenza sociale che, seppure di sguincio, bisognerebbe comunque iniziare a guardare.
Sta di fatto che la miseria vera e propria qui non viene riprodotta, forse perché sarebbe nitida e riconoscibile, nuda, mentre le classi sociali dei nostri tempi si avvitano su indefinibili forme di collettività e pseudo-valori che scaturiscono da parametri di ricchezza relativi e sfuggenti.
Ma la straordinarietà di questo prezioso squarcio d'Europa, che in controluce Guédiguian trasforma in problema universale, è racchiusa nella profonda rivoluzione in atto, sotterranea e di lunga durata, che parla di incomunicabilità generazionale e avvolge in un vortice di assurda deriva conflittuale il vecchio sindacalista da un lato e il giovane operaio dall'altro, a fare quasi lo stesso lavoro con uno scarto di privilegio minimo eppure decisivo per decretare che, socialmente, il primo è benestante e l'altro indigente. Ma, peggio ancora, all'anziano che ha tentato di difendere i diritti del giovane, viene anche richiesto di sopportare, paradossalmente, l'umiliazione del ragazzo che gli rinfaccia la sua inadeguatezza e lo maltratta con ferocia derubandolo a casa sua insieme alla moglie, la vezzosa Ariane Ascaride. Tuttavia non si percepisce nessun bisogno di tirare delle somme o giudicare, né si approfondiscono i diversi temi, sebbene gli elementi per soppesare e riflettere siano numerosi e sventagliati con disinvoltura. C'è semmai una drammatica leggerezza che sorvola tutte le cose e insegue la forza delle relazioni comunitarie e dell'amore più che l'affidabilità della praxi e della politica. Tutto si disgrega ed è volatile in una dimensione umana che può rovesciare la sorte di ognuno inaspettatamente e potrebbe non essere altresì foriera di giustizia sociale o congruenza, come nel caso di Michel e Marie Claire che alla fine rinunciano al loro minuscolo benessere borghese, parzialmente deturpato, per dedicarsi ad aiutare gli altri. In questa luminosa caverna dell'esistenza, si può essere utili, infatti, e lottare con dignità ma si può anche, in buona fede, incorrere in errori grossolani che hanno conseguenze devastanti sulla vita delle persone. E' il caso del nostro volenteroso sindacalista marsigliese, interpretato da Jean-Pierre Darroussin, originario delle Banlieu parigine e collaudato attore teatrale che, tra il ricordo di Leigh, Loach e anche di un certo Romer leggero e claustrofobico, esprime una ventata di vitalistico pessimismo francese.