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Lezione #5: le idee e l’invenzione

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Lezione #5: le idee e l’invenzione


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    Giunge il momento di costruire una trama. E’ tempo perso partire all’avventura se non si hanno le idee chiare sul dove si vuole arrivare. Ho parlato di una certa ripetitività nella struttura. Inutile negare anche un certo conservatorismo nella costruzione degli intrecci; non si sono fatti molti passi avanti dalle commedie di Pluto, basate sullo scambio di persona e sull’equivoco. L’equivoco riesce a creare situazioni abnormi, in cui è più facile dare fondo all’umorismo e calcare la mano sui colpi di scena, fino alla rivelazione di rito, che rasserena e rende al lettore l’illusione dell’ordine ritrovato. Insomma,  il lieto fine è un’altra carattersistica portante del romanzo, e se non questo, almeno il ritorno alla normalità, dopo che il caso aveva intorbidito le acque.

     Ma bisogna cercare di uscire dal pessimismo. Mi dice Luigi Malerba: “Lo stato d’animo ‘leopardiano’ è quanto di peggio possa capitare a chi scrive o ha intenzione di scrivere. E’ un vicolo cieco dal quale si deve cercare di uscire. L’ironia, per esempio, aiuta a scrivere, e anche a vivere. Se invece il  temperamento tende a essere drammatico, bisogna cercare di dargli forma e figura di personaggio o di storia”. 

      Altri temi ispiratori dei romanzi sono:  l’amore, meglio se non corrisposto, almeno all’inizio, la guerra, la vendetta, la pazzia, il momento di oltrepassare la ‘linea d’ombra’, cioè l’illuminazione e la crescita interiore. Il tutto condito da temi attinenti alla vita stessa, cioè la politica, il danaro, la sessualità.

    Gli americani, a cui non sovviene quasi mai lo scrupolo di attenersi alla realtà, cioè la tendenza neorealista, tentano in genere di rendere credibili le storie più assurde, poiché hanno una visione illimitata, a causa della grandezza del loro paese e dello sviluppo della moderna tecnologia, nonostante le sue aberrazioni, della gamma infinita di avvenimenti che pendono sull’uomo.

    Restando ancora agli americani, non si può negare che habbiano raggiunto un buon livello di espressività, sia in letteratura che nel cinema, anche con l’adozione di tecniche omai codificate. Ottime scuole di giornalismo hanno insegnato la concretezza, per esemplificae quella che si riassume nel rispetto completo dell’informazione, cioè illuminando il lettore con le famose ‘5 W’ (who, what, where, when, why: chi è, o sono, i personaggi; che cosa sta succedendo; dove l’azione si ambienta; quando si  svolge; perché sta accadendo qualcosa) e adopeando dal linguaggio cinematografico  l’abilità di convergere dal molto grande verso il piccolo, con un restringimento dell’inquadratura (per esempio da una visione d’insieme di una città passare a una strada e poi a un appartamento e quindi a una persona) oppure il contrario (cioè allargando a cerchi concentrici la visione dei luoghi da un particolare a una persona, a un luogo, all’intero villaggio, etc.). Anche in letteratura, pertanto, si tende ad adoperare quello che è il ‘linguaggio’ filmico.

    Ma ecco, per pura cronaca,  alcuni dei temi più famosi trattati.

    – ‘Cime tempestose’ di E. Bronte, 1847. Romanzo di forti passioni, con la storia d’amore fra Heathcliff e Catherine in una cornice di odio  fra due famiglie inglesi.

    – ‘Bassifondi’ di M. Gor’kij, 1902. Drammi di vagabondi, ospiti in una lurida pensione, fra uccisioni, miseria, sopraffazioni e illusioni.

    – ‘Figli e amanti’ di Lawrence, 1913.  Incapacità di amare a causa del rapporto di dipendenza e dedizione alla propria madre. Solo la morte di quest’ultima aprirà nuove prospettive al protagonista.

    – ‘Dedalus’ di J. Joyce, 1916. Infanzia e pubertà, alla ricerca del proprio ideale di vita, fra costrizioni religiose e politiche, fino alla partenza dall’Irlanda, luogo chiuso e privo di idealità.

    – ‘Gita al faro’ di V. Woolf, 1927. Passato e presente, progetti sognati ma irrealizzati e nostalgia, con flash back e flusso di coscienza.

    – ‘Addio alle armi’ di E. Hemingway, 1929. Prima guerra mondiale: un americano volontario nell’esercito italiano si innamora di un’infermiera inglese. Si arriva alla disfatta di Caporetto e i due decidono di fuggire insieme verso la Svizzera, ma lei muore di parto.

    – ’42° parallelo’ di J. Dos Passos, 1930. Romanzo senza protagonista, sull’America degli inizi di questo secolo, fra ‘sogno americano’ e i perversi meccanismi sociali, in cui si fa largo uso del monologo.

    – ‘Tenera è la notte’ di F.S. Fitzgerald, 1934. Un medico sposa una donna che un rapporto incestuoso col padre ha reso psicolabile. Dopo un primo momento di felicità, riesplodono i contrasti, a causa dell’insoddisfazione di lui, che s’innamora di un’attrice. Alcolismo, solitudine, fuga verso nuovi destini.

    – ‘La nausea’ di J.P. Sartre, 1938. Sul ‘male di vivere’, il rifiuto dell’esistenza, la depressione, la nausea, fino a trovare un appiglio nella scrittura.

    – ‘Agostino’ di A. Moravia, 1944. Un tredicenne vaga per Roma in compagnia di ragazzi sbandati, alla ricerca di nuove esperienze. I problemi dell’adolescenza. Di qui tutto un filone che ha come protagonisti i ‘ragazzi di vita’, a cui si rifanno anche Pasolini, Grimaldi, Tondelli, etc.

    – ‘Lolita’ di V. Nabokov, 1958. Un uomo rinchiuso in carcere, in attesa dell’esecuzione della sentenza capitale, racconta la storia della sua ossessione  per un’amante ragazzina, che lo ha portato a commettere un omicidio.

    – ‘Herzog’ di S. Bellow, 1964. Lettere mai spedite a personaggi della cultura, nel tentativo di comprendere il mondo e capire se stessi. Ma il tentativo è destinato all’insuccesso, poiché la realtà è incomprensibile e inafferrabile. Un lento scivolare verso la pazzia.

 

   Giuseppe Pontiggia  afferma: “L’atteggiamento di fronte al problema  narrativo  mi sembra ‘inventivo’, nel senso che  può consentire di ‘trovare’ più che un atteggiamento di nostalgia per il passato: anche se quest’ultimo può essere a sua volta, imprevedibilmente, carico di futuro. Quello che conta sono le forze, le energie, fantastiche che la poetica mette in moto”.

    Ma cos’è l’invenzione? Maria Corti l’ha sviluppato ampiamente in una ricognizione comparsa su ‘Millelibri’ nei mesi di maggio e giugno del 1990. Ricapitolo brevemente la sua lunga analisi: -In latino la parola ‘inventio’ (dal verbo ‘invenire’, trovare) significava ritrovamento, rinvenimento ad opera del pensiero di qualcosa di già esistente. Il vocabolo invenzione evoca invece per noi un processo creativo, e sembra affine a parole come ‘ispirazione’, ‘illuminazione’ e ‘immaginazione creativa’… A monte dell’invenzione c’è sempre quella situazione che Paul Valery chiama ‘état d’attente’, lo stato di attesa ccosciente o no, cioè una disposizione o tendenza a cercare, a scorgere nelle cose la possibilità di essere ‘altro’  (e come abbiamo già rilevato nella testimonianza di Lalla Romano)… Il poeta Zanzotto, invitato a descrivere l’invenzione poetica, risponde che d’abitudine annota su qualsiasi foglietto sottomano un’idea, un’immagine, un suono, il che sarà poi il nucleo di una poesia. Tali foglietti possono restare anche anni in un cassetto prima che si calamitino l’uno con l’altro… Avviene allora ciò che i poeti chiamano il ‘corto circuito’… Un’altra costante dell’invenzione è l’insorgere dell’imprevisto. Cioè  chi inventa può incontrare un ostacolo che gli blocca il percorso intellettuale e glielo dirige verso regioni mentali e reali impreviste.  Si tratta di condizionamenti dettati dalla genesi dell’opera stessa e dalle sue leggi di coerenza, ancora sconosciute   all’autore quando comincia a stendere l’opera stessa. Questa dinamica, però, avviata da formazioni spontanee, generate dall’inconscio e dal conscio, dal sogno e dal pensiero, raramente stacca l’invenzione dal contesto reale in cui è maturata, ma le consente di rimanere sempre inserita in un quadro culturale preesistente, allo scopo di renderla fruibile dagli altri. Spesso capita di incontrare persone dalla forte carica immaginativa, magari le ascoltiamo incantati quando parlano; ma la loro immaginazione non produce invenzioni stabili e durature. forse a causa della troppa inventività. Infatti gli uomini hanno in sostanza paura del nuovo in quanto hanno paura dell’ignoto. A volte un artista mancato ha più immaginazione di un vero artista. Qui, allora subentrano i processi operativi, propri ad ogni disciplina. Qui scatta la visione letteraria dell’invenzione, il suo rapporto con il lettore, il saper porgere. Molti filosofi, anche sommi, sono stati pessimi scrittori. Come Nietzsche, per esempio.

 

    Ancora meglio ci dice Emile Cioran, morto nel luglio del ’95: “Si apre una pagina, si legge una pagina, è una pagina straordinaria perché pur non dicendo nulla dice qualcosa, anche se non si riesce a capire da dove emanano i suoi prolungamenti. C’è una sorta di irrealtà nella letteratura, così come nel rapporto con gli esseri umani. Può capitare di incontrare una persona dopo molto tempo e di parlare per ore senza ricavarne nulla, può capitare invece di incontrare un’altra persona e di tornare a casa sconvolti dopo quell’incontro: è questa la vera originalità degli esseri umani, quello che nascondono, quello che affiora e traspare, malgrado tutto, da quel che dicono”. Così è per la scrittura, così è per i libri: ci sono necessità interiori, urgenze di natura intima, misteriosa, irrazionale.

 

    Comunque, se proprio si è a corto di idee, si può attingere dalla cronaca quotidiana. Gli articoli dei  giornali sono una vera miniera di intrecci, suscettibili di trasposizione romanzata. La bravura consisterà nell’elaborazione della fisionomia dei personaggi, dando loro, nel contempo, una maggiore motivazione psicologica; dando loro ‘spessore’. Ecco un ‘caso’ riportato dal quotidiano ‘La Stampa’ sabato 22 ottobre 94, a firma di Enrico Benedetto.

    “Da sei anni la mia casa è l’aeroporto”  -titolo-

     Il re dei clochard   -sottotitolo-

     Respinto da Londra, vive e dorme a Parigi-Roissy: “Leggo molto, peccato che al bar si mangi male” -occhiello-

     “Senza passaporto non posso uscire né ripartire” -sommario-

            – Parigi

     “Alfred? Ha già guardato agli arrivi internazionali? Beh, allora può trovarlo nella caffetteria. Anzi no, le toilettes. Magari è lì che si fa la barba”. Nel caos di Roissy, il più grande scalo aereo parigino, rintracciare qualcuno senza recapito fisso né telefono richiede tenacia e fortuna. Ma infine eccolo spuntare dietro una colonna Merhan Karimi Nasseri, Alfred per gli amici. E’ vicino all’hamburgheria, sulla poltroncina che gli farà da giaciglio stasera, il carrello con i suoi pochi averi a fianco.

    Potrebbe entrare nel Guinness, Merhan-Alfred, quarantanovenne anglo-iraniano che da sei anni vive a Roissy 24 ore su 24. Ci arrivò nel lontano ’88, espulso dalla Gran Bretagna ove il suo stato di esule non era riconosciuto. Ma neanche Teheran lo vorrebbe indietro. E lui, comunque, non desidera tornarvi. Figlio di medico persiano e infermiera britannica, lasciò l’Iran un quindici anni fa per ritrovare oltremanica la madre. Invano. Era lìinizio di una vera Odissea. Alfred vaga per l’Europa. La Germania non lo vuole, Londra gli chiude la porta in faccia, solo Bruxelles mostra qualche compassione offrendogli un permesso di soggiorno. Ma lui non vuole saperne. Desidera tornare sul Tamigi, o -al massimo- un visto per il Canada. Parigi, o meglio lo Charles de Gaulle,  doveva essere una tappa tecnica. E invece il provvisorio si cristallizza. Senza passaporto, Alfred rimane prigioniero della cittadinella aeroportuale. A lasciarla per avventurarsi sugli Champs Elysées violerebbe la legge francese. Ma nessuno sa offrirgli altre destinazioni. Così ormai l’aeroporto gli è casa, rifugio e carcere insieme… – Fin qui l’articolo.

   Non vi pare una buona storia per un romanzo? Ebbene, sappiate che invece da questa vicenda  è stato tratto un film, diretto da Philippe Loiret, intitolato ‘Tombés du Ciel’. Anzi, con il film, Alfred è diventato famoso e spera che un legale si occupi di lui, sbloccando finalmente la situazione. Noi non sappiamo come si è conclusa la sua storia, ma questo è irrilevante, nell’ottica  del nostro discorso.

Giuseppe Cerone

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