Lezione #3: dialoghi e monologhi
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La struttura esterna del testo può essere composta da dialoghi o monologhi. Vediamo alcuni esempi.
“Eravamo silenziosi. Poi Joanna parlò.
“Hank?”.
“Sì?”.
“E’ stato per scappare da qualche donna che sei venuto qui?”.
“Sì”.
“E’ finita con lei?”.
“Mi piacerebbe crederlo. Ma se dicessi ‘no’…”
“Allora non sai?”.
“No, non so…”
“Ma si sanno mai queste cose, d’altra parte?”.
“Io credo di no”.
“Ecco perché le storie d’amore puzzano”.
“Hai ragione”.
“Scopiamo”.
“Ho bevuto troppo”.
“Andiamo a letto”.
“Voglio bere ancora un po’”.
“Non riuscirai a…”
“Lo so. Spero che mi permetterari di restare per quattro o cinque giorni”.
“Dipenderà dalle tue prestazioni” disse lei.
“Mi sembra giusto”.
Finito il vino riuscii a malapena ad arrivare fino al letto. Quando Joanna uscì dal bagno dormivo già”. (Charles Bukowski: ‘Donne’, Sugarco Edizioni, Milano, ’78 – pag 133).
“Più tardi, si andò a cena. Guardai nel piatto e feci una smorfia. C’erano dei pezzettini di pesce, che a me non era mai piaciuto.
“Non ho fame”, dissi.
“Mangia!”, urlò mio padre.
“Davvero non ho fame”.
Mi colpì con uno schiaffo: “E io non ti dico di mangiare per fame, ma per ubbidienza. Sennò ti faccio fare la fine di zia Clotilde, ti chiudo viva nel ‘suppigno’ “.
“Prima devi masticare”, urlò mio padre. “Se non mastichi non ne fai salute. Lo sai o non lo sai quanto costa al chilo questo pesce? E’ un sacrificio che ho fatto per te”.
“Papà ha ragione”, disse mia madre. “Mangia masticando. Forse zia Clotilde ti ha detto, poco fa, nel ‘suppigno’, che quando mangi non devi masticare? Oggi sembri una tisica. In un giorno, hai fatto la faccia d’una vecchia”.
“Non ne voglio più”, gridai.
“Come ti permetti?”, urlarono mio padre e mia madre. “Mangia!”, e lui mi colpì con un altro schiaffo.
Gli afferrai la mano, l’avvicinai alle labbra.
“Non baciarmi la mano”, disse. “Non lo meriti. Non ti perdono”.
Gli strinsi un dito tra i denti: un morso avvelenato.
“Strega!”, urlò lui. “Maledetta strega!”. (Luigi Compagnone: ‘L’oro nel fuoco’, Rusconi, Milano, ’89 – pag. 26).
Il monologo è invece preferito dagli scrittori cosiddetti di idee. Il monologo consente di utilizzare il flusso di coscienza e il ‘flash back’ cioè l’apertura di una finestra sul passato.
“Se lo raccontassi al primo che capita, ma così, come se fosse accaduto ad un altro?… Sono già del tutto pazzo… Che vado facendo così in giro? Che ci faccio per strada? – Già, ma dove dovrei andare? Non volevo andare da Leidinger? Ah! ah! sedermi tra la gente… credo che chiunque me lo leggerebbe in faccia… Sì, ma qualcosa dovrà pur accadere… Che dovrebbe accadere?… Nulla, nulla -nessuno ha udito nulla… nessuno sa nulla… Per il momento nessuno sa nulla… Se andassi ora a casa sua e lo scongiurassi di non raccontarlo a nessuno?… – Ah, meglio bruciarsi subito le cervella che compiere un atto simile!”. (Arthur Schnitzler: ‘Il sottotenente Gustl’, Bur, Milano, ’89 – pag. 59).
E c’è anche chi racconta in seconda persona.
“L’interesse che nutri per i vestiti di solito non ti porta oltre i Brooks Brothers e J. Press – e al momento hai qualche piccolo problema di credito con entrambe le spettabili ditte. Ma questa mattina stai aspettando di entrare nella sala da ballo del Waldorf-Astoria, dove un famoso stilista terrà la sfilata della collezione autunno-inverno. Sei riuscito a farti dare un invito dal tuo amico che lavora a ‘Vogue’. ha un debito con te da quella volta che ha preso la tuua Austin Healey per andare a Westchester ed è andato a sbattere contro mezza tonnellata di cervo. Conosci gente che va a caccia da anni e non l’ha mai nemmeno visto, un cervo così. La macchina è finita in un deposito di rottami di Pleasantville. Non sai cosa è successo al cervo, ed è difficile dire cosa sia capitato ai soldi del’assicurazione tranne che sono spariti in un paio di settimane.
Sulla porta, una donna alta coi capelli d’argento esamina attentamente il tuo invito. Ai lati della porta, due grossi negri in turbante con le braccia incrociate sul petto. Dovrebbero essere schiavi nubiani o qualcosa del genere. Solo uno stilista italiano può permettersi una messinscena come questa. La donna sembra essere un gruppo etnico a sé. Non ha ciglia né sopracciglia. L’attaccatura dei capelli è estremamente alta, non molto distante dalla sommità della testa. Ha avuto un incidente oppure è chic?
“Mister…”
“Allagash,” dici tu, mettendoti sull’attenti. E’ il primonome che ti è venuto in mente. Non hai intenzione di usare il tuo”. (Jay McInerney: ‘Le mille luci di New York’, Bompiani, Milano, ’91 – pag. 103).
Giuseppe Cerone