Rifiuti… editoriali
Tutti gli autori, come d’altronde gli uomini pubblici e, a ben pensarci, anche moltissime persone normali, si vantano dei traguardi raggiunti. Chi più, chi meno, tutti amiamo parlare bene di noi stessi. E, in egual modo, cerchiamo di nascondere abilmente i nostri fallimenti. In alcuni casi evitiamo semplicemente di parlarne, come se non fossero mai esistiti, mentre in altri modifichiamo un po’ la realtà, indorando la pillola. Anche in questo, scrittori, uomini pubblici e persone qualunque si assomigliano terribilmente.
Penso sia capitato a ogni autore di preparare pacchi voluminosi e spedirli, quasi alla cieca, a un numero non ben precisato di case editrici, chili e chili di carta che viaggiano grazie alle Poste Italiane fregandosene degli eventuali ritardi di consegna. Poi cominciano ad arrivare le prime risposte. Concentriamoci su quelle negative. (In effetti c’è anche il caso in cui le risposte non arrivano. Sembra quasi che il nostro libro sia stato inghiottito da un calderone e non ci sia verso di farglielo risputare fuori. Be’, questo è il momento peggiore: brucia più l’indifferenza che il rifiuto.)
In alcuni casi la causa del niet è semplicemente una questione di linea editoriale: se pubblico libri horror è più che plausibile che non sia interessato a una sdolcinata storia d’amore. Forse sarebbe meglio informarsi sui titoli presenti nel catalogo di un editore prima di bussare alla sua porta, almeno risparmieremmo i soldi delle fotocopie e le spese postali.
La reazione normale di un autore di fronte a una risposta negativa è l’indignazione: vestiti strappati, ira, vergogna. Su, non neghiamolo: siamo uomini o inglesi? E allora ci sta che ci mettiamo a sbraitare andando anche fuori dalle righe. Subito dopo scatta l’anatema verso quelli che, a differenza nostra, sono riusciti a pubblicare un libro con un colosso editoriale. Bravura? Fortuna? Conoscenze? I soliti nomi? La accendiamo o chiediamo l’aiuto da casa?
Per abitudine non mi esprimo su cose che non conosco: ammetto di non aver ancora compreso a pieno le logiche di un mondo che si basa sulla trasformazione di un libro-opera in un libro-prodotto. È un’alchimia di non poco conto, quasi degna della pietra filosofale. Quindi rimango sul vago e non mi pronuncio. Sì, va be’, messo di fronte alla domanda di prima anche io avrei detto a Jerry di accendere la c (conoscenze) o la d (soliti nomi)… E già che ci sono posso anche ammettere di avere una certezza, nella vita: se mai avessi mandato a una casa editrice un testo come Grazie di Pennac nessuno avrebbe anche solo pensato di dovermi dare risposta.
Ma torniamo ai rifiuti, non quelli come Grazie, ma nel senso di risposte negative. A voler proprio sforzarsi per trovare il loro lato buono si potrebbe dire che sono quasi come un passaggio obbligatorio per ogni nuovo (giovane?) scrittore, una parte ineliminabile del proprio cammino editoriale. Ci permettono di tenere i piedi saldamente ancorati al terreno e di migliorarci costantemente. Insomma, una bella sveglia per non dormire sugli allori. Però… diciamocela tutta, quando arrivano ci sembrano soltanto uno schiaffo all’impegno, al tempo e alla fatica che ci abbiamo messo nel partorire la nostra opera.
Sveliamo quello a cui un lettore non pensa mai: non sono molti gli autori che vivono dei proventi dei loro romanzi. Tutti si immaginano gli scrittori immersi in ricchezze da nababbo: sarà vero per Grisham o King, ma se si guarda qui sotto, molto più in basso, le cose sono ben diverse. Un nuovo autore o un aspirante tale non è pagato per scrivere e non può smettere di andare a lavorare per stare a casa a pensare al prossimo libro. Scrivere vuol dire sottrarre tempo alle altre cose della vita: la famiglia, gli affetti, il sonno… e non sempre è una cosa fattibile. Spesso si passano gli inverni a prendere appunti e le vacanze estive davanti al pc. E alla fine, dopo tutti questi sforzi, è davvero difficile mandar giù un rifiuto.
Tra tutti i non se ne parla che ho ricevuto, in questo ferragosto vacanziero me ne torna in mente uno del tutto particolare. Anni fa, quando cominciai a prendere in mano carta e penna (o meglio, schermo e tastiera) con l’intento di dare corpo alle mie storie, preparai un paio di sceneggiature che avevano come protagonista uno dei miei personaggi preferiti dei fumetti, Dylan Dog. Chiusi tutto in una busta e la spedii a Sergio Bonelli Editore.
La risposta fu molto cordiale. I testi presentavano buoni spunti, ma purtroppo la Casa Editrice non aveva modo di (soldi da investire per) formare i nuovi sceneggiatori. In più, lo staff era al completo. Perciò il materiale che avevo inviato sarebbe stato cestinato. Mi è spiaciuto, ovviamente, e anche tanto, ma non per questo ho smesso di comprare i fumetti di Bonelli, anzi, ho aumentato il numero di acquisti. E ci ho anche riprovato, visto che nella vita mi piace essere recidivo: la risposta è stata simile ma altrettanto ferma. Tra l’altro, dopo una recente rilettura dei testi, ammetto che meritassero di essere cassati. Insomma, non dico queste cose per lamentarmi del mio genio incompreso.
A distanza di anni, tuttavia, mi fa rabbia trovarmi sotto l’ombrellone a leggere un’intervista a Tiziano Sclavi sul numero estivo del Mucchio, talmente tanta rabbia da darmi spunto per scrivere queste righe. Il papà di Dylan Dog si lamenta perché uno dei maggiori problemi delle Case Editrici di fumetti in Italia è la penuria di sceneggiatori. Per contro, dichiara che “di disegnatori ce ne sono fin troppi”.
C’è penuria, ma non c’è modo di formare o informare le persone sugli standard richiesti dalla Casa Editrice. Che sia un altro caso di cane che si morde la coda? Adoro chi si lamenta di un problema e non si accorge di essere parte integrante delle sue cause.
Andrea Borla