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Il lupo mannaro tra scienza e leggende

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Il lupo mannaro tra scienza e leggende

Per la psichiatria, la licantropia è una sorta di delirio in cui il soggetto teme di essere trasformato, o crede di assumere le sembianze, e imita il comportamento di un lupo o di altro animale da preda, come la tigre (in Asia) o la iena (in Africa). Si tratta di gravissimi, ma molto rari, casi di melanconia.
Credenze religiose di popoli primitivi, alcuni aspetti del folklore europeo, alcune leggende, ma soprattutto alcune superstizioni si ricollegano a questa malattia. Il lupo mannaro appartiene, in realtà, all’immaginario collettivo: uno spauracchio per i bambini, una specie di orco nelle fiabe popolari.
Dal mondo classico, dalla Grecia, ci arriva la leggenda di re Licaone (il termine indica, in natura, un mammifero africano simile al lupo) trasformato in lupo da Zeus Liceo per aver sacrificato un bambino, a questa stessa divinità. Il più antico e saggio re degli Arcadi, iniziatore del culto di Zeus Liceo e delle famose feste Licee, fondò Licosura sul monte Liceo. Padre di 50 figli, la sua immagine è legata a episodi di sangue. Una leggenda successiva descrive la crudeltà di Licaone e dei figli che offrono, come cibo, a Zeus carni umane. Zeus inorridisce, rovescia la tavola e annienta col fulmine Licaone. Nell’antichità romana “…c’era chi credeva al “lupo mannaro”; alcuni uomini (versipelles) avevano il potere di trasformarsi in lupo; andavano in giro come veri lupi ad assaltar gli ovili nella notte: poi riprendevano la forma umana. Se in quelle bestiali spedizioni venivano feriti, rimaneva nell’uomo la ferita inferta al corpo del lupo” (da Vita romana di U.E.Paoli, Le Monnier 1969).
Durante la famosa cena del Satyricon di Petronio (autore latino del I sec. D.C.), Trimalchione, l’inelegans padrone di casa, prega Nicerote di narrare qualche suo caso e l’ospite, pur temendo di essere canzonato dai “letterati” presenti, racconta di un soldato, suo compagno di viaggio, che si trasforma in lupo “…la luna mandava un lume chiaro come di pien meriggio…, si arriva in mezzo a certi sepolcri: il mio amico si china a far le sue occorrenze vicino alle pietre…, lo vedo spogliarsi e posar gli abiti sul ciglio della strada…, innaffiò tutt’intorno d’orina i suoi abiti; e di punto in bianco si trasformò in lupo…, si mise a ululare, e fuggì nelle selve…, m’accostai, per raccattare i suoi abiti: ma quelli si mutarono in pietra” (trad. di G.F. Cesareo e N. Terzaghi). Nicerote, arrivato a casa della sua Melissa, apprende da lei che un lupo, penetrato nella cascina, aveva sgozzato tutte le pecore, ma che un servo gli aveva trapassato il collo con una lancia. Fatto giorno, Nicerote trova al posto degli abiti, mutati in pietra, una pozza di sangue e poi l’amico Gaio sul letto mentre il medico gli fascia il collo.
Già nel mondo classico, come si vede, gli ingredienti della licantropia ci sono tutti: la luna piena, l’ululato, la fuga nel bosco, la ferita che resta sul corpo ritornato umano, ma il medioevo li arricchì con le sue superstizioni, ne fece una forma di stregoneria, di competenza di teologi come J.Bodin, di giudici come H.Bougurt che, a dire di Voltaire, si vantava di aver fatto morire più di seicento licantropi e demonolatri.
Né le cose cambiarono nei secoli successivi, almeno fino al sec. XVII; i lupi mannari si rifugiavano ancora nei boschi, dove morivano per fame o erano massacrati da contadini superstiziosi. Il popolino continuò a credere che nascere nella notte di Natale, a mezzanotte in punto, o essere concepiti nella notte di San Paolo significava essere lupi mannari e che il bambino sospetto poteva essere guarito dal padre (o dal compare) che con un carbone acceso lo scottava in forma di croce sulla collottola o sotto la pianta dei piedi, per tre notti nel periodo natalizio.
Ma se il lupo mannaro è un adulto c’è un solo rimedio: colpirlo a sangue nella fronte.
In alcuni posti si crede che si può diventare lupo mannaro per magia o a causa del “mal di luna” La luna è carica, in questo contesto, di forte simbolismo. E’ nelle notti di plenilunio che, ne “Il racconto del lupo mannaro”, pubblicato nel 1930 nella raccolta “Il mar delle blatte”, di Tommaso Landolfi, traduttore di Poe, Hoffmann, Kafka e Gogol’, due amici si trasformano in lupi mannari. “L’amico ed io non possiamo patire la luna: al suo lume escono i morti sfigurati dalle tombe…, tutto c’è da temere…, essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando…, guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti. Con cieca furia, lo sbraneremmo, almenocché egli non ci pungesse, più ratto di noi, con uno spillo”. I due credono che l’origine del loro male sia la luna, una vescica viscida di cui cercano di liberarsi, ma non ci riescono.
Ma T.Landolfi ha il pensiero tutto rivolto a quella irresistibile legge a cui tutti gli esseri, viventi e non, sono sottoposti, anche la maligna luna: è la legge della vita stessa, una condanna universale che non conosce eccezioni, contro la quale tutto è vano. Ed è illusoria la gioia dei momenti in cui si crede di essere sfuggiti a questa condanna “Liberi e leggeri. Liberi dalle tristi rabbie, ma non liberi” (T.Landolfi). Che gli antichi volessero, pure loro, dire questo?
Nei primi decenni del Novecento, in Valaquenta, opera di John Ronald Reuel Tolkien, professore di Oxford, oltre gli dei e le creature ignote, fa la sua comparsa Ungoliant, ragno mostruoso che distrugge gli alberi, Laurelin e Telperion che rappresentano simbolicamente i principi di sole e luna. Seguono le creature del Male, tra cui orchi, lupi mannari, ecc.
Letteratura e medicina a parte, oggi “lupo mannaro” è usato come epiteto. Lo si affibbia a colui che incute paura, che eccede in cattiveria e in furbizia, che è solito uscire a notte fonda o, soprattutto, che mangia con voracità.

Simonetta De Bartolo

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