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Corporate Social Responsibility

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Corporate Social Responsibility
dall’onu un corpus iuris per le multinazionali

«Tanzi: -Ho dato cinquecento milioni brevi manu a GF-
PM: -In che senso?-
Tanzi: -I soldi li ho portati io personalmente a Roma al direttore F, erano contenuti in una borsa.
Non ricordo se fossero cinquecento milioni o un miliardo.
[…] non so da che voce di bilancio quei soldi fossero stati presi, né a che servissero-
PM: -F che cosa le disse?-
Tanzi: -Mi disse solo: grazie-
»
(Dai verbali di interrogatorio a Calisto Tanzi, ex-presidente di Parmalat)

Il 2005 dovrebbe essere l’anno europeo per la responsabilità sociale d’impresa e il condizionale è d’obbligo dal momento che, per il momento, le iniziative promosse in questa direzione sembrano essere state poche (se ce ne sono state) e di efficacia pressoché nulla, nonostante lo sviluppo del sistema economico globale e le interrelazioni tra gruppi multinazionali e interessi privati e sociali abbia già da tempo portato alla luce la necessità di tratteggiare delle regole di condotta, anche minime, per impegnare la “responsabilità” dei capitani d’azienda oltre ai dettami previsti, e violati, dai singoli ordinamenti nazionali.
Casi famosi quali Enron negli Stati Uniti o Parmalat in Italia rappresentano solo esempi macroscopici di un sistema molto più ampio e complesso che necessita di regole che vadano al di là della semplice normazione giuridica e coinvolgano la totalità degli stakeholders (portatori di interessi) coinvolti (aziende: manager, azionisti; istituti finanziari e di credito; poteri pubblici; società civile; esperti).
Per questo motivo ci sembra doveroso dedicare alcune riflessioni a questo tema partendo dall’esame del corpus elaborato in tema di responsabilità sociale delle multinazionali da parte delle Nazioni Unite, per poi soffermarci nei nostri prossimi appuntamenti sulla proposta della Commissione Europea e la risposta del Governo italiano. In questa ultima tappa, vedremo poi anche le posizioni di alcuni operatori italiani e il dibattito acceso in merito al posizionamento dei codici etici d’impresa tra etica e diritto e la forza, o debolezza, che ne consegue.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di inquadrare l’argomento dal momento che al concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa non corrisponde ancora una univoca definizione “ufficiale”. Spesso si parla, con significato affine, di “etica di impresa”, di “cittadinanza aziendale” (corporate citizenship), di “sviluppo sostenibile”, di “sviluppo durevole” per giungere ad una logica che risponde ai criteri del cosiddetto “triplice approccio” (TBL – Triple Bottom Line): per valutare le prestazioni globali di un’impresa, si fa riferimento all’insieme degli aspetti economici, di tutela ambientale e di contributo sociale.
Pertanto la performance dell’impresa non è più solo performance economica, ma tiene conto anche del contribuito dato alla qualità dell’ambiente ed al sistema sociale.
Ciò implica che le imprese devono diventare consapevoli dei legami esistenti tra la dimensione economica, sociale e ambientale e delle ripercussioni che una decisione assunta in uno di questi ambiti esercita, più o meno visibilmente, sui restanti.
Le Nazioni Unite hanno varato nel 2003 un sistema organico di norme a questo
proposito, ma tali Norme sulle responsabilità delle società multinazionali e di altre imprese in relazione ai diritti umani purtroppo al momento non possono contare su alcuna cogenza verso le aziende né verso gli uomini che tali aziende governano. Si tratta, dunque, di un bel documento che indica una serie di impegni: per la prima volta si afferma che le imprese multinazionali dovrebbero tenere condotte responsabili e che tali condotte dovrebbero essere obbligatorie.
Partiamo dalla fine di questo documento per delinearne la portata, che abbiamo già detto non avere alcuna vincolatività nei confronti di Stati, persone fisiche e giuridiche. Al punto F., troviamo alcune utili definizioni: ecco allora che all’art.20 scopriamo che l’applicazione soggettiva delle norme di specie si estende alle società multinazionali, espressione che identifica qualunque «entità economica operante in più di un Paese o a un raggruppamento di entità economiche operanti in due o più Paesi – quale che sia la loro forma legale, sia nel Paese d’origine sia nel Paese in cui si svolge l’attività, e sia che le si consideri individualmente o collettivamente» e a quelle “altre imprese” che con le prime abbiano un qualche
rapporto.
All’art.22, invece, vengono delineati i portatori di interessi (gli stakeholder) che possono avanzare richieste e debbono essere tutelati nei loro rapporti con le attività delle corporations: si tratta di «azionisti, altri proprietari, lavoratori e loro rappresentanti, come pure qualsiasi altro individuo o gruppo» e si specifica che bisognerà ricomprendere tra tali soggetti anche «parti interessate indirette quando i loro interessi sono o saranno sostanzialmente toccati dalle attività della società multinazionale o altra impresa» nonché «gruppi di consumatori, clienti, governi, comunità vicine, popoli e comunità indigene, organizzazioni non governative, istituti di credito pubblici e privati, fornitori, associazioni professionali ed altre». Quasi una sorta di nuovo diritto universale attivabile, in futuro, da chiunque.
Utile a questo punto, indicare pure cosa intende il redattore di queste norme con le espressioni “diritti umani” e “diritti umani internazionali” che si devono salvaguardare da eventuali violazioni delle aziende multinazionali: l’art.23 fa riferimento a quelli «enunciati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e nel Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali come anche in altri trattati sui diritti umani, nonché il diritto allo sviluppo e i diritti riconosciuti dal diritto umanitario internazionale, dal diritto internazionale dei rifugiati, dal diritto internazionale del lavoro, e da altri strumenti pertinenti adottati nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite».
Sembrerebbe proprio che la comunità internazionale stia facendo un passo decisivo verso l’abbattimento di quel classico principio di diritto secondo il quale “societas delinquere non potest“, già peraltro incrinato da strumenti giusinternazionalistici particolari quali la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, firmata a Parigi nel 1997, o la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee, siglata a Bruxelles nel 1995, ma di strada da percorrere ne rimane ancora molta.
Il corpus di norme che qui ci impegna, richiama gli Stati alla loro responsabilità primaria di «promuovere, assicurare l’attuazione, rispettare, garantire il rispetto e tutelare i diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale come da quello nazionale, compresa la responsabilità di assicurare che le società multinazionali e le altre imprese rispettino i diritti umani» e le società multinazionali al loro dovere di «promuovere, assicurare l’attuazione, rispettare, garantire il rispetto e tutelare i diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale come da quello nazionale, inclusi i diritti e gli interessi delle popolazioni indigene e di altri gruppi
vulnerabili»: importanti prescrizioni che dovrebbero trovare uguale applicazione alle attività condotte nel Paese o territorio d’origine della multinazionale o dell’impresa, e in qualunque Paese l’azienda svolgano le loro attività. Sulle multinazionali ricade la responsabilità di usare la giusta diligenza nel garantire che le loro attività non contribuiscano direttamente o indirettamente ad abusi dei diritti umani e che esse non traggano direttamente o indirettamente beneficio da tali abusi.
Inoltre, le multinazionali e le altre imprese devono astenersi da attività che potrebbero minare lo stato di diritto e gli sforzi dei governi per promuovere e garantire il rispetto dei diritti, e devono usare la loro influenza al fine di collaborare a tale promozione.
All’art.2 si prevede il diritto alle pari opportunità e a un trattamento non discriminatorio «in base a razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica, origine nazionale o sociale, status sociale, condizione di indigeno, disabilità, età», con conseguenti due tipi d’obblighi in capo alle imprese: un dovere negativo di astenersi dagli atti discriminatori e uno positivo di promuovere la pari opportunità. Il commento all’articolo definisce discriminazione ogni atto che produce l’effetto «di rendere nulla o d’indebolire l’eguaglianza d’opportunità o di trattamento nell’assunzione o nel lavoro». È inutile sottolineare la portata della disposizione in parola per le donne o per gli affetti da alcune disabilità.
L’art.3, si occupa di un argomento molto attuale, vale a dire il coinvolgimento delle imprese negli avvenimenti bellici internazionali e interni, e prescrive che esse «non si impegneranno né trarranno vantaggio da crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio, tortura, sparizione forzata, lavoro forzato o coatto, presa di ostaggi, esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, altre violazioni del diritto umanitario ed altri crimini internazionali contro la persona umana secondo la definizione del diritto internazionale, in particolare della normativa sui diritti umani e del diritto umanitario». È chiaro qui il riferimento alle crescenti preoccupazioni di violazioni in contesti di conflitto armato. In chiave interpretativa non è esclusa la configurazione di un dovere di diligenza nella scelta dei clienti, che non devono essere conosciuti come soggetti che violano i diritti umani. È sancito altresì il divieto di produrre o vendere armi dichiarate illegali dal diritto internazionale. Si richiede, inoltre, alle imprese una rinuncia a maggiori profitti per evitare di diventare complici di violazioni dei diritti umani.
Particolare attenzione è data, dall’art.4, all’impiego di forze di sicurezza private da parte delle
multinazionali richiamate all’esclusiva finalità di prevenzione e di difesa senza violazione dei diritti umani e dei diritti sindacali dei lavoratori. Inoltre, le aziende non possono avvalersi di forze che sono state riconosciute responsabili di violazioni dei diritti umani. Anche in questo caso per via estensiva è stato individuato un dovere di diligenza dell’impresa nella scelta delle forze di sicurezza ma anche che le stesse rispetteranno i diritti umani. È previsto l’obbligo di consultare il governo ma anche la società civile del Paese ospitante per verificare quale impatto abbiano le misure di sicurezza adottate sui diritti delle persone.
Passando all’art.5, si prevede il divieto di ricorrere all’utilizzo di lavoro forzato o coatto ed il contestuale riconoscimento di condizioni giuste e favorevoli per i lavoratori.
All’art.6, invece, viene ribadita l’opposizione allo sfruttamento del lavoro minorile facendo peraltro esplicito riferimento alle convenzioni internazionali
in materia; in questo contesto si sottolinea che lo sfruttamento economico si verifica anche quando il lavoro intacchi la salute del piccolo lavoratore e si impedisca la frequentazione scolastica o l’assolvimento di altre responsabilità ad essa collegate. …
Con l’art.7, si ha l’obbligo per le aziende di assicurare un «ambiente di lavoro sicuro e sano», i cui requisiti sono però demandati agli ordinamenti nazionali. Le imprese devono approntare le misure di soccorso necessarie per affrontare le emergenze e gli incidenti. Devono altresì fornire, a loro completo carico, l’abbigliamento e l’equipaggiamento protettivi che sono considerati necessari. Le imprese sono tenute a sostenere, inoltre, i costi per la predisposizione delle misure di sicurezza. Le multinazionali devono collaborare con le autorità sanitarie e di sicurezza sul lavoro nazionali e internazionali al fine di giungere alla redazione di standard internazionali ma anche per gli accordi sindacali collettivi.
Particolare previsione è quella per cui le imprese non potranno chiedere ai lavoratori di prestare la propria attività per più di 48 ore settimanali o più di 10 ore in un giorno. Il lavoro straordinario, il cui compenso deve essere superiore a quello ordinario, non può superare le 12 ore settimanali e comunque non può essere la regola e deve essere previsto almeno un giorno di riposo settimanale. Queste regole ammettono eccezioni limitatamente al settore edile, delle ricerche di risorse naturali e per altri lavoratori che lavorano per periodi limitati (una settimana o due).
La norma di cui all’art.8 richiama invece un precetto cardine di molte rivendicazioni sindacali prevedendo che «le società multinazionali e le altre imprese dovranno offrire ai lavoratori una remunerazione che assicuri un adeguato tenore di vita a loro e alle loro famiglie» in prospettiva «un progressivo miglioramento» delle proprie condizioni. Non si è voluto stabilire uno stipendio minimo internazionale ma la retribuzione, consegnata a intervalli regolari e brevi, deve essere equa e ragionevole in ragione del lavoro prestato, concordata liberamente o definita da leggi o regolamenti nazionali. Il livello di equità è stabilito secondo standard locali mentre un lavoro svolto senza un equo compenso è considerato a tutti gli effetti sfruttamento.
L’art.9, a questo punto, garantisce la libertà di associazione per i lavoratori nonché il diritto ad addivenire a forme di contrattazione collettiva tra le rappresentanze delle rispettive parti (lavoratori e datori di lavoro).
Con l’art.10 si apre la parte E. di questo compendio di norme, Rispetto della sovranità nazionale e diritti umani, cara ai Paesi in via di sviluppo e alle frange più progressiste della comunità internazionale, che rappresenta un’importante innovazione per il settore del business internazionale: si prevede, difatti, l’obbligo esplicito per le società multinazionali di «riconoscere e rispettare le norme applicabili del diritto internazionale, le leggi e i regolamenti nazionali, nonché le pratiche amministrative consuetudinarie, lo stato di diritto, l’interesse pubblico, gli obiettivi di sviluppo, le politiche sociali, economiche e culturali, compresa la trasparenza, la responsabilità legale e il divieto di corruzione, e l’autorità, dei Paesi in cui le imprese operano». Di notevole rilievo l’impegno delle multinazionali al rispetto del diritto delle comunità locali che subiscono gli effetti delle loro attività e i diritti delle comunità indigene nel rispetto degli standard internazionali.
L’art.11, proseguendo, vieta ogni atto di corruzione «a beneficio di qualsivoglia governo, pubblico ufficiale, candidato a cariche elettive, membro delle forze armate o di sicurezza, o altri individui od organizzazioni» e, facendo ciò, devono contribuire al miglioramento della trasparenza dei propri rapporti con i pubblici poteri anche con l’adozione di principi di rendicontazione di bilancio che siano chiari e univoci.
Il seguente articolo, prescrive il rispetto dei diritti economici, sociali e culturali al pari dei diritti civili e politici nonché il contributo alla realizzazione del più ampio «diritto allo sviluppo, a cibo ed acqua potabile adeguati, al più alto livello raggiungibile di salute fisica e mentale, ad alloggio adeguato, alla riservatezza personale, all’istruzione, alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione, alla libertà di opinione ed espressione» che, se realizzati, renderebbero in futuro vane tutte le lotte dei movimenti dei lavoratori del nord quanto del sud del mondo. Un marcato quanto, purtroppo, vano per ora tentativo di affermazione dei diritti dell’umanità, presente e futura, nei confronti dei poteri forti e transnazionali delle grandi aziende.
Dall’art.13 si apre, invece, la sezione cara agli europei e all’OMC, Obblighi riguardanti la tutela dei consumatori, per cui si prevede che «le società multinazionali e le altre imprese agiranno in conformità ad eque pratiche aziendali, di commercializzazione e pubblicitarie, e intraprenderanno tutti i passi necessari per assicurare la sicurezza e la qualità dei beni e dei servizi che forniscono, ivi compresa l’osservanza del principio di precauzione. Esse non produrranno, distribuiranno, commercializzeranno o pubblicizzeranno prodotti dannosi o potenzialmente dannosi per i consumatori». Per questo, si dovrà attivare un sistema di standard internazionali relativi alla concorrenza e una normativa anti-trust comune, come la serie di principi e regolamenti concordati in seno all’UNCTAD. A tale scopo sono vietati gli accordi con imprese rivali per fissare direttamente o indirettamente i prezzi, dividere i mercati di influenza o creare posizioni di monopolio. Le multinazionali devono inoltre osservare le regole comuni per la tutela dei consumatori, come le Linee guida delle Nazioni Unite per la tutela dei Consumatori e per la promozione di specifici prodotti, come il Codice internazionale per la commercializzazione dei sostituti del latte materno, adottato dall’Assemblea Mondiale della Sanità e i Criteri etici per la promozione dei farmaci dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Ulteriore prescrizione importante è contenuta all’art.14 ove si prevede l’impegno delle società multinazionali alla conservazione dell’ambiente dei Paesi in cui esse operano nel rispetto delle relative disposizioni ordinamentali e di modo da «contribuire al più ampio obiettivo di uno sviluppo sostenibile». Importante a questo fine è l’applicazione dei principi di prevenzione e precauzione per i quali le aziende sono tenute a prevenire e mitigare impatti negativi identificati nel corso delle proprie valutazioni e indicare le conseguenze inaccettabili sulla salute o sull’ambiente di una propria attività assumendo le necessarie iniziative per ridurre i rischi di incidenti e danni all’ambiente.
Per l’art.15, ai fini attuativi del corpus, ciascuna multinazionale s’impegna ad adottare, diffondere, anche fra gli stakeholders, e a dare attuazione a regole interne conformi alle Norme che dovranno essere comunicate in forma scritta e orale a tutti i soggetti che intrattengono relazioni con l’impresa. Inoltre, si dovrà fornire adeguata formazione ai dirigenti, lavoratori e loro rappresentanti.
La multinazionale dovrà stilare un rapporto e prendere ogni altra misura necessaria per dare loro attuazione. Le stesse dovranno trovare applicazione concreta nei contratti o negli accordi e nelle relazioni con appaltatori o altri soggetti che con essa abbiano rapporti di tipo contrattuale.
All’art.16 si prevede un monitoraggio continuo delle multinazionali da parte di organi delle
Nazioni Unite che terranno in debita considerazione anche le comunicazioni provenienti da esponenti della società civile organizzata.
L’art17 prevede, invece, un impegno per gli Stati chiamati, se pur con il condizionale “dovrebbero”, a «costruire e rafforzare il necessario quadro giuridico ed amministrativo che garantisca l’attuazione delle Norme e delle altre leggi nazionali ed internazionali in materia da parte delle società multinazionali e delle altre imprese».
Con l’art.18 si prevede l’obbligo per le multinazionali di «offrire sollecito, effettivo ed adeguato indennizzo a quelle persone, entità e comunità che siano state negativamente colpite dalla mancata osservanza di queste Norme, mediante, tra l’altro, indennizzo, restituzione, risarcimento e ripristino per qualsiasi danno procurato o proprietà sottratta», indicando anche la modalità della restitutio e l’eventuale cumulo con sanzioni di carattere penale previste dal diritto nazionale o internazionale.
L’art.19, infine, nella maniera più tradizionale per gli strumenti convenzionali sui
diritti umani, prevede che nessuna disposizione del presente sistema «potrà essere interpretato nel senso di diminuire, restringere o influenzare negativamente gli obblighi degli Stati in tema di diritti umani previsti dal diritto nazionale ed internazionale», norme più protettive dei diritti umani, altri obblighi o responsabilità delle società multinazionali. Clausola limitativa che mira a garantire che le imprese adottino quei comportamenti che meglio tutelino i diritti oggetto delle Norme stesse.
A questo punto resta da osservare che, se nel mondo vi sono circa 75.000 multinazionali, solo alcune migliaia aderiscono, su base volontaria, a codici d’impresa o a standard internazionali per il rispetto dei diritti umani a fronte del loro sempre maggiore potere a livello di singolo Paese e di scenario globale. Pare ovvio, dunque, il desiderio di molti affinché questo complesso di norme, seppur al momento non vincolante, si trasformi quanto prima in diritto internazionale consuetudinario irraggiandosi su tutti gli operatori economici e i poteri pubblici andando oltre le blande regole di condotta stabilite dalla buona, ma limitata, volontà e capacità di influenza di qualche illuminato imprenditore definendo con la massima chiarezza possibile le responsabilità di cui le imprese, e gli Stati nazionali, hanno l’obbligo a farsi carico in virtù del ruolo che occupano.
Chi dice che il libero mercato già prevede in sé quel sistema sanzionatorio automatico e naturale che espelle i players che non rispettano le regole del gioco dimostra però di avere una memoria assai corta e di non capire che il mercato da solo non è sufficiente, perché non sempre è messo in condizione di agire in maniera veramente libera e perché non ha ancora integrato pienamente nei suoi meccanismi la sensibilità socially responsible necessaria. Sensibilità che non è “di mercato”!
Tale sistema di norme si vuole dunque porre ad integrazione di quelle volontarie che le multinazionali o le varie associazioni di categoria si stanno dando, offrendo precisi riferimenti per operare le proprie valutazioni. Inoltre, vantaggio non secondario, con queste Norme si ha la possibilità di operare a livello mondiale con un linguaggio comune e condiviso, necessario per il perseguimento di simili obiettivi “universali”.
Governi nazionali e imprese multinazionali sono ovviamente i primi soggetti chiamati ad impegnarsi; ma il supporto di cui le Norme hanno bisogno per divenire effettive deve provenire da chiunque creda nel loro valore e nella loro capacità di operare quel cambiamento culturale che è indispensabile per rendere più “umano” il villaggio globale.

Davide Caocci


1
Cfr. Norme sulle responsabilità delle società multinazionali e di altre imprese in relazione ai diritti umani, approvate il 13 agosto 2003 con la Ris.2003/16 della Sotto-Commissione delle Nazioni Unite sulla Promozione e Protezione dei Diritti Umani, Doc. Nazioni Unite E/CN.4/Sub.2/2003/L.11 a 52 (2003).
2
Di fatti, non si tratta di un trattato internazionale.
3
Cfr. art.21.
4
Cfr. art.1.
5
Cfr. dello stesso Autore, Mercenari: liberi professionisti della guerra o terroristi?, in Kultunderground, n.92 – 2002.
6
Cfr. dello stesso Autore, Offresi lavoro pesante e malpagato, … solo a bambini sotto i 15 anni, in Kultunderground, n.68 – 2000.
7
Sarebbe interessante capire a chi sarà data questa competenza e con quali risorse sarà finanziata tale attività ispettiva.
8
Cfr. Convenzione sui diritti dell’infanzia (art. 41), Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (art. 27)

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