Champions: return to arms La cosa più complessa è stata smettere. Tirare via le dita anchilosate dal pad e dirigersi verso il computer, acceso da almeno un’ora, e resistere al richiamo di “dai, solo un’altra partita, solo un’altra prova.” Ho lasciato la TV accesa. Ora il mio alter-ego guerriero è là, sotto la neve, ad aspettare. E’ stata dura. Ma non si può giocare per sempre. O no? Perché l’impressione, dopo avere iniziato “Champions: return to arms” in effetti è che si POSSA giocare per sempre. Ok, i livelli, grandi, ben fatti, curati, anche se in certi casi forse un po’ “strani”, non sono di certo eterni. Ma non ti viene voglia, cioè, di riprovare un pezzo di un livello, non ti viene voglia di rifare un ponte, o una stanza, o una galleria infestata di mostri di tutti i tipi, provando, chessò, un’altra arma? o tentando di usare una caratteristica speciale? o di vedere che effetto fa una certa armatura? Lo chiedo a me stesso, ovviamente, anche se poi faccio fatica a scrivere, perché continuo a gettare lo sguardo verso l’entrata del sotterraneo da cui sono appena uscito. Insomma, nevica, c’è freddo. Non posso mica lasciare Leji là da sola, con quel buffo copricapo in testa, no? O forse, sì, posso lasciarla là ancora un po’. Ho sterminato – non mi viene in mente un termine migliore – tutti quegli “orsi”, e quelle creature gigantesche che sorgono dalla neve. Quindi, beh, non dovrebbe correre rischi. Credo. E quindi, posso forse riposare gli occhi un attimo e magari iniziare da capo con questa recensione. Iniziare proprio dall’inizio, intendo. Magari spiegando che cos’è “Champions: return to arms”? La storia non ha molta importanza. In queste cose non l’ha mai veramente avuta. Tu sei “qualcuno” (un qualcuno che puoi definire partendo da svariate razze base – alcune delle quali dalle sembianze animali – con la possibilità di modificare vari aspetti grafici e tattici) e l’unica cosa che ti importa è fare più morti di Commando e Rambo messi insieme. Magari però usando una spada (o al massimo un bel martello da guerra) al posto del mitra, e magia o pozioni al posto delle bombe a mano. Sia quel che sia, ti trovi un posto “ufo” – una sorta di isolotto in mezzo al nulla chiamato eufemisticamente “piano della tranquillità” – dove tale Firiona Vie (che non sfigurerebbe anche in una pubblicità di telefonini) ti racconta le solite cose: il male incombe, blah blah blah, magari se ci dai una mano è una cosa buona, blah blah blah, qui c’è pure un bel negozio e se torni quando hai del denaro magari ti aiutiamo a salvarci la pelle cercando di spennarti (a volte non ti basta avere rubato tutto per un mezzo universo per comprarti una spada decente…). E dietro di lei un cancello alla Star Gate. E tutto inizia e continua così. Passando da un punto all’altro dell’universo immaginario che programmatori e grafici hanno progettato (un universo molto vario e vasto, che comprende territori sotterranei, subacquei, pieni di fuoco o di neve, di palazzi sospesi sulle nubi e di tantissimo altro), compiendo, dietro richiesta, incursioni in territori con una percentuale di creature avverse che può sembrare un poco fastidiosa, spaccando tutto (ehi, non si sa mai dov’è che questa gente ha nascosto qualcosa di utile…) e – ovviamente – uccidendo tutti. Parlando giusto con qualcuno che ti da indicazioni molto generiche su perché farai quello che stai per fare. Qualcuno che però dopo un po’ non è detto che tu stia più neanche ad ascoltare – perché la febbre sale in fretta. Molto in fretta. E dopo l’unica cosa che ti interessa è andare avanti. E poi avanti ancora. Pigiando forsennatamente sui tasti per colpire, schivare, scappare. Come al solito, in questi giochi, l’aspetto “organizzativo” del personaggio è importantissimo. E a mio parere qui hanno fatto un lavoro discreto nell’offrire varie caratteristiche che consentano di rendere ogni nuova partita un po’ diversa dalla precedente. In modo che, ad esempio, giocare con un essere con poteri magici risulti MOLTO diverso che con un guerriero… e che anche nel caso di scelte a mezza via siano molte le componenti di “customizzazione” che consentono di costruire personaggi diversi tra di loro, con possibilità di sviluppare quindi tecniche di gioco differenti. Per non parlare poi di armi ed armature (ce ne sono centinaia diverse – e si possono anche queste modificare con oggetti magici, aumentandone l’efficacia, o rendendole utili anche per altri aspetti) che da sole sono in grado di offrire al giocatore un range ampio di situazioni da provare. Certo, ci sono altri giochi in commercio molto più ricchi di elementi su cui intervenire (intendo almeno per PC), ma io ho trovato comunque ottimo l’equilibrio che hanno progettato. Insomma, è chiaro che potete anche trovare qualche videogame che permetta di scegliere uno spettro più ampio di tipologia di avventura (qui la scelta cardine è “solo” se stare con i buoni o con i cattivi…), che abbia qualche elemento manageriale in più, e che abbia una intelligenza artificiale dei nemici superiore a “se ti vedo ti vengo incontro, o al massimo mi nascondo qua”, ma la domanda è: avere questi aspetti arricchiti è SEMPRE una cosa positiva? Io non penso. Secondo me un gioco come questo è vincente se riesce a stupire con le ambientazioni, se ti fa dannare per capire come sconfiggere da solo una spianata piena di non morti, se ti fa “scervellare” mentre ti giostri tra gli oggetti e i “punti esperienza” (semplificando il concetto), se riesce a farti stare alzato fino a tardi per provare e riprovare a passare un punto difficile. E, sempre secondo me, “Champions: return to arms”, queste cose riesce a farle tutte. Superando il problema dell’intelligenza artificiale, non esattamente allo stato dell’arte, con livelli progettati con molta cura che sanno dosare nemici normali, nemici con armi a distanza e nemici più resistenti, nel modo migliore. Superando qualche semplificazione nella parte di gestione con una giocabilità veramente alta. Superando pure la stranezza di qualche livello (ce n’è uno con dei robot – in un mondo fantasy – e devo ammettere che è particolarmente singolare trovare alabarde o “martelloni” dentro i “cadaveri” di piccoli cinghiali…) con il fascino che sono riusciti a instillare nei tanti particolari del design. Un gioco che vale la pena provare – se il genere (con tutti i limiti del caso) vi piace. Un gioco che, vale la pena ricordarlo, sicuramente vi verrà la voglia di riprendere in mano anche una volta finito, per sperimentare qualche variante, per mostrare orgogliosi agli amici i vostri nuovi acquisti in armeria, o passare ancora una mezz’ora in un universo veramente fuori dagli schemi in cui tutti vi sono nemici, ma in cui nessuno è veramente più forte di voi. Ah – come dicevo all’inizio – state solo attenti. Se iniziate a giocare poi potreste avere qualche problema a rispettare gli impegni e a continuare ad essere puntuali. E ora vi lascio – ho un guerriero con forza 100 che sta aspettando di ritornare in un sotterraneo e che mi sembra stufo di rimanere all’aperto in un posto così freddo… Marco Giorgini
Beh, la risposta è facile: un action RPG per Play Station. Giusto per citare un nome sicuramente conosciuto a tutti, per intenderci potremmo dire che è “una cosa alla Diablo”. Solo che questo gioco, rispetto a questo caposaldo, è ovviamente interamente in 3D, quindi con visuale mobile, con vari livelli (tre) di prospettiva (dall’alto, da tre quarti e – quasi – da dietro), mappa automatica, luci, ombre, scie dell’acqua quando cammini nell’acqua, effetti eccetera eccetera eccetera. Qualcosa, quindi, in linea con quanto ci si aspetta da un gioco del genere nel 2005 dal punto di vista dell’aspetto per così dire “tecnologico”, ma con intatto quel fascino particolare che questo tipo di mix tra un RPG, un “picchiaduro” e una avventura ha da sempre, da quando cioè 3D voleva dire avere davanti una immagine fissa per ogni “movimento”, semplicemente in prospettiva.
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