KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Dei ”danni punitivi”

8 min read

Dei “danni punitivi1


Se una vacca si lancia in corsa contro un coltello affilato,
alla fine qualche bistecca ci scappa
Alberto Melloni

Nell’ordinamento della maggior parte dei singoli Stati degli Stati Uniti d’America, sono previsti i così detti “danni punitivi” o “esemplari” (punitive o exemplary damages), i quali danno luogo a risarcimenti di vaste
proporzioni2.
Questo risarcimento può essere riconosciuto al soggetto offeso in aggiunta a quello destinato alla compensazione del danno (materiale e/o morale) effettivamente sofferto, quando il pregiudizio subito è aggravato dalla condotta furbesca, male intenzionata, o addirittura fraudolenta e maligna dell’altra parte.
Il principio che sta alla base della nascita del concetto di “danno punitivo” è lo stesso che regge l’intero sistema dell’
Equity3 anglosassone. Nell’Inghilterra del XIV secolo il sistema della common law4 si era ormai fortemente irrigidito, con la rigorosa fissazione di regole e formule di azione createsi nel corso dei secoli precedenti, tanto che appariva necessario tutelare adeguatamente i nuovi rapporti giuridici non ancora riconosciuti5. Si affermò una nuova sensibilità, una diversa visione degli strumenti giuridici: i giudici iniziarono ad applicare principi di “equità nel caso particolare” (spesso assunti dal diritto romano, come regole ben definite nella coscienza dell’uomo), per fare giustizia, senza il bisogno di seguire schemi precostituiti.
Il “danno punitivo” nasce, così, in un sistema giudiziario che non conosce bene (o, meglio, ha dimenticato) la distinzione tra diritto civile e diritto penale, dove la condanna al risarcimento deve anche assolvere ad una funzione pedagogica: la sanzione deve rappresentare un deterrente da utilizzare non solo nei confronti del condannato, ma anche verso l’intera comunità (una condanna “esemplare” appunto), un risarcimento pieno, in cui le esigenze di “giustizia del caso singolo” prendono il sopravvento.
Infatti, la filosofia dei “danni punitivi” vuole garantire un effettivo equilibrio tra le parti nel processo, soprattutto quando esiste un’evidente disparità economica fra loro.
Nei sistemi anglosassoni, dunque, il riconoscimento dei “danni punitivi” è rimesso alla
discrezionalità6 del Giudice e tende al perseguimento di quattro obiettivi principali:
1) punire il colpevole per il suo malevolo comportamento, anche per non innescare fenomeni di “giustizia privata”;
2) cercare una finalità educativa, tentando di distogliere il colpevole, e la collettività, da comportamenti socialmente dannosi, quando la minaccia del semplice risarcimento non possa costituire un valido deterrente;
3) ricompensare la parte lesa, oltre al risarcimento, per l’impegno nell’affermazione del proprio diritto, vista come rafforzamento dell’ordine legale;
4) attribuire al danneggiato un compenso superiore all’importo del risarcimento, quando quest’ultimo appare inadeguato.
Nell’ordinamento giuridico italiano, almeno nel campo civilistico, manca una norma che citi espressamente il termine “danni punitivi o esemplari”. Tuttavia è lecito chiedersi se sia possibile individuare disposizioni vigenti, in grado di comprendere alcuni aspetti del concetto e di tener conto delle diverse finalità della figura.
In passato, alcuni giuristi hanno ravvisato la possibilità di configurare i “punitive damages” nell’ambito delle norme che disciplinano la facoltà del giudice di determinare l’ammontare del danno in via equitativa, nei casi in cui non sia possibile una precisa
quantificazione7.
Tuttavia, come si è detto, i “danni punitivi” costituiscono una sanzione per chi agisce o resiste in giudizio ben sapendo di non avere
ragione8.
Ecco che
altri9 hanno richiamato l’attenzione sul primo comma dell’art. 96 del Codice di Procedura Civile italiano, che recita: “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”.
Più
precisamente10, per questo comportamento del soccombente11 (che si suole qualificare come temerarietà della lite), la norma configura un’ipotesi di “abuso del diritto di azione“, e perciò di un vero e proprio comportamento illecito12.
La norma sanziona, indubbiamente, un comportamento riprovevole della parte (e dell’avvocato), dal momento che colpisce tutti coloro che utilizzano il processo allo scopo di logorare e snervare il proprio avversario, ovvero, senza impiegare quella diligenza che permette di avvertire subito l’ingiustizia della condotta nel
processo13.
Infatti, è piuttosto noto che la semplice condanna al pagamento delle spese per chi perde (oltre ai danni liquidati dal giudice per il merito della causa), non sempre spinge le parti a comportarsi correttamente. In particolare, se ciò può costituire per il cittadino “medio” una misura efficace per distoglierlo da azioni legali evidentemente infondate, lo stesso non può dirsi per soggetti con rilevanti possibilità economiche, i quali hanno il solo fine di costringere a trattative (e transazioni inique) la parte più
debole14 .
Dunque, si è ritenuto che il danno ex art. 96 c.p.c. risulta slegato e autonomo da quello effettivamente subito dalla vittima, di conseguenza il Giudice sarà libero di liquidare qualsiasi somma reputi giusta ed equa per il caso concreto. Il danno punitivo potrà essere contenuto tra un margine minimo (anche solo simbolico), fino a una somma tale da incidere seriamente sulla parte responsabile.
Nonostante gli sforzi di molti operatori del diritto, la giurisprudenza dei Tribunali italiani ha dimostrato, in concreto, che non è semplice sostenere nel nostro ordinamento una lettura dell’art.96 c.p.c. che permetta non solo il risarcimento, ma anche l’arricchimento del
danneggiato15;
eppure i tentativi di affermare il nuovo orientamento sono lodevoli, soprattutto se diretti ad adeguare il nostro diritto civile a criteri più moderni di equità e di impiego etico degli strumenti giudiziari.

Alberto Monari

Solo uno sciocco verifica la profondità dell’acqua
con entrambi i piedi
Enzo Majorca

1
Vedi D.Minotti, A.Sirotti Gaudenzi, M.V.Vaglio:”L’atto giudiziario” Maggioli Editore-Rimini 2002, pag.63 ss. Per approfondimenti: www.dannipunitivi.com a cura dell’Avv. Aldo Grassi, e “Introduzione al concetto di Danni Punitivi” di Andrea Sirotti Gaudenzi su www.diritto.it/articoli/civile/gaudenzi1.html
2
Si pensi ai casi dei mega-risarcimenti inflitti dai Tribunali statunitensi alle multinazionali del tabacco, per indennizzare le vittime di “cancro da fumo”, sotto forma di danni punitivi miliardari (in dollari), con sentenze basate, spesso, sul danno da “prodotto difettoso”.
3
Cfr. A.Cavanna, Storia del diritto Moderno in Europa, Giuffrè, Milano 1982, pag. 530 ss.
4
Sistema giuridico inglese (e dei paesi anglosassoni in genere) sviluppatosi ad opera delle Corti regie di giustizia. La C.L. si è sviluppata essenzialmente come diritto giurisprudenziale, per cui sono gli stessi giudici, attraverso le loro pronunce, a creare il diritto, vincolando anche le decisioni successive. Caratteristica di questi sistemi è l’inesistenza della distinzione romanistica tra diritto privato e diritto pubblico.
5
La giurisdizione regia entrava in funzione secondo il meccanismo dei writs (in latino brevia), veri e propri ordini del Re indirizzati ai responsabili delle Corti territoriali (scheriffs) o baronali (lords), affinché fosse amministrata giustizia. Il writ era richiesto (a pagamento) in caso di denegata giustizia della Corte locale o di mancata reintegrazione del diritto. Queste formule, con uno schema ricorrente e prestabilito per ogni tipo di richiesta, in qualche decennio furono fissate in modo che divenne sempre più difficile per i privati farsi rilasciare writs di nuovo tipo (c.d. serrata dei writs).
6
A cui è anche affidata la determinazione dell’importo da attribuire a titolo di “danno punitivo”, che normalmente tiene conto di una pluralità di parametri quali il carattere dell’azione illecita, il tipo del pregiudizio e le proporzioni che esso assume per l’attore e soprattutto le condizioni economiche del convenuto.
7
Art.1226 Codice Civile: “Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa“.
8
In base a quello che i giuristi anglosassoni definiscono “cynical disregard” (cinica indifferenza).
9
Il già richiamato Avvocato Aldo Grassi, del foro di Rimini, ha avuto il merito non solo di convincere un gruppo di colleghi sull’applicabilità dei c.d. “danni punitivi” in Italia (individuandone il fondamento normativo nell’art. 96 c.p.c.), ma anche di aver messo a disposizione della comunità forense la propria significativa esperienza in materia, con la cura di un sito Internet, interamente dedicato ai danni punitivi.
10
Cfr. C.Mandrioli “Corso di diritto processuale civile-Vol.I” Giappichielli, Torino 1991, pp.288 ss.
11
Quello della “soccombenza” è il principio che pone a carico dello sconfitto e a favore della parte vittoriosa, le spese del processo.
12
La fattispecie del comportamento illecito, in quanto tale, rientrerebbe nella portata dell’art.2043 “Risarcimento per fatto illecito.
Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Sennonché l’art.96 c.p.c. prevede un caso particolare di “responsabilità aggravata“, speciale rispetto all’art.2043, con la conseguenza che va esclusa l’applicazione diretta di quest’ultima norma in tutte le ipotesi di illecito processuale.
13
A sostegno di questa lettura innovativa del primo comma dell’art. 96 c.p.c. è possibile indicare anche l’art.88 c.p.c., che al primo comma afferma il dovere delle parti di comportarsi in giudizio secondo lealtà e probità. Il non rispetto di questo dovere sarebbe infatti privo di una adeguata sanzione e la sua previsione si risolverebbe in una semplice frase di stile.
Art.88. “Dovere di lealtà e di probità. Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”.
14
Basti pensare ai numerosi casi in cui le Compagnie Assicuratrici resistono in giudizio per scoraggiare la parte che ha subito danno, dall’insistere nell’azione legale, considerati i tempi lunghi della giustizia italiana. Il tema poi diventa addirittura rovente nell’ipotizzare la sua applicazione al contenzioso bancario. Anche altri temi sono potenzialmente idonei ad essere investiti dal ciclone dei c.d. “danni punitivi”, come per esempio le cause di tutela ambientale e quelle di responsabilità per i danni causati da prodotti difettosi.
15
L’Avv.Grassi ha seguito personalmente il caso della Signora Pasquina Gualtieri, la quale rimase coinvolta, il 7.10.1990, in un incidente stradale. Nonostante la istruttoria della causa fosse stata espletata fin dal 1995 e nonostante l’assicurazione convenuta avesse riconosciuto un concorso di colpa del proprio assicurato fin dal primo atto difensivo, la stessa si era sempre rifiutata di risarcire il danno che riteneva non dovuto.
Nel 1998, la Gualtieri è deceduta senza avere avuto la possibilità di godere in vita del risarcimento dei danni sofferti. L’assicurazione, infatti, ha evitato il pagamento, consapevole che solo una minima parte dei danneggiati è disposta ad adire le vie legali e persistere, fino in fondo, nell’azione intrapresa. Non a caso al momento in cui la causa è stata rimessa in decisione, la stessa Assicurazione ha provveduto ad offrire una somma di denaro, che è risultata essere, poi, la metà di quella liquidata in sentenza. Il Tribunale di Rimini non ha, purtroppo però, accolto la richiesta di risarcimento per “danni punitivi”.

Commenta

Nel caso ti siano sfuggiti