Vorrà dire che saremo molto concisi. Iniziamo con una domanda consueta: parlaci un po’ di te, quanti anni hai, cosa fai nella vita, quali sono i tuoi interessi…
Il mio percorso personale cambia ogni sei mesi, nel senso che prendo delle strade poi le cambio. Ho finito un anno fa l’università, una laurea breve in Statistica; anche questa era nata da un cambiamento di strade perché alle superiori avevo fatto lingue poi ho deciso di cambiare. Poi ho vinto una borsa di studio e ho fatto un corso sull’editoria multimediale; qui mi sono avvicinata a concetti che fino ad un anno prima erano in un mondo che non avevo mai toccato. Al momento lavoro nel campo dell’informatica. Tra l’altro ero anche andata l’anno scorso a fare le selezioni per la scuola Holden, a Torino, che viene considerata la più importante scuola di scrittura creativa in Italia. Solo che aveva un costo eccessivo e non avendo vinto la borsa di studio…
La scrittura è sempre stata la mia valvola di sfogo e infatti non ho mai voluto canonizzarla, perché volevo che rimanesse qualcosa di incontaminato, spontaneo.
Quanti anni hai?
25 martedì prossimo.
Auguri! Facciamo un passo a quando avevi ancora 24 anni: come hai conosciuto l’anno scorso il concorso del Giovane Holden?
Credo di avere letto in una biblioteca un volantino, che poi ho ritrovato anche nella Biblioteca della Rotonda e, reduce dall’esperienza della scuola Holden e colpita dal tema proposto, mi sono sentita fare una domanda a cui dovevo dare una risposta personale.
Lo sai che quest’anno è stato riproposta una nuova edizione del concorso?
Si, mi è sembrato di vedere dei volantini, però ero via da Modena per quel corso sull’editoria multimediale, quindi non ho nemmeno pensato di partecipare.
Comunque non avresti potuto partecipare, dato che il concorso aveva un limite per l’età dei partecipanti.
In un certo senso l’anno scorso avevo apprezzato che ci fosse questa eterogeneità di età, anche se è stato sicuramente più complicato valutare i racconti; però è stato molto interessante potere confrontare persone diverse con esperienze molto diverse.
Trascorso un anno, che ricordo hai del concorso?
A me è piaciuto moltissimo: ci sono state molte cose che mi hanno colpito come il dischetto consegnato alla fine, che mi ha permesso di rileggere i brani anche degli altri concorrenti, e anche il fatto che alla fine fossero interpretati nella lettura da attori. E’ stato bello sentire il proprio pezzo che veniva spersonalizzato ed ascoltare il suono di quello che uno ha scritto.
Poi un’altra cosa che mi aveva colpito è stato vedere come l’avessero affrontato tutti diversamente. Ad esempio, io mi sono resa conto solo nella premiazione che avevo iniziato il racconto in chiave narrativa e poi l’avevo evoluto in chiave saggistica, infatti parlavo di giovani come se fossero una qualcosa al di fuori di me. Invece molte altre persone hanno voluto esprimere il concetto senza parlarne direttamente.
Uno degli scopi del concorso era quello di avvicinare le persone all’uso del computer come strumento creativo. A tuo avviso, porre come condizione la consegna del materiale su supporto informatico è stata una scelta efficace per raggiungere questo scopo? Ti ha creato difficoltà?
Personalmente no, dato che ero già in parte inserita nel mondo dell’informatica. Penso poi che sia stata una scelta efficace: io stessa ho conosciuto e capito il concetto di ipertesto grazie al concorso. Dopo anche la mia scelta di avvicinarmi all’editoria multimediale è stata condizionata da questo. Inoltre avevo già fatto qualche articoletto per un giornale, quindi bene o male avevo già sfruttato gli strumenti informatici; e poi è tutta un’altra cosa, nel senso che puoi andare a modificare, staccare degli interi pezzi, appiccicarli alla fine, correggerli…
Siamo contenti di sentirti dire tutto ciò. Molte altre persone non sono state affatto contente di dover usare il computer e preferivano la loro buona e vecchia penna perché è una scrittura molto più spontanea.
Infatti, mi sto rendendo conto che quella la sto perdendo anch’io. In agosto è venuto a trovarmi un mio amico; in quel periodo lavoravo da un provider e gestivo la posta elettronica; era una lavoro fatto completamente alla tastiera. Alla fine quando è andato via mi ha regalato una biro dicendomi: "Ricomincia a scrivere…". Lui è una di quelle persone che proprio non vuole avvicinarsi all’informatica.
Conoscevi già KULT Underground prima del concorso?
No, prima non ne avevo mai sentito parlare. Dopo la premiazione ho letto il dischetto che mi era stato dato e poi sono andata nelle pagine su Internet. Una volta un mio amico per scherzo su Altavista ha scritto "Giorgia+Mantovani", al primo posto è uscito il racconto e io sono rimasta scioccata.
Guarda, come panoramica generale, è stato un concorso che mi è servito… ci sto ripensando adesso. Ad esempio, per me internet era ancora un mondo un po’ lontano e infatti l’idea di una rivista in rete oppure di articoli che puoi leggere da un dischetto erano concetti che allora mi hanno fatto maturare certe idee.
In questo numero di KULT Underground riproporremo il racconto con cui hai partecipato al concorso. Puoi darci un’introduzione o un commento sul tuo racconto?
Il racconto era nato da un pezzo del mio diario che ho unito alla domanda ed ho ampliato. La cosa bella è che uno magari vive e si dimentica di fermarsi a pensare, ma per fortuna come in questo caso scatta la domanda e allora ti fermi un attimo a riflettere; ti rendi conto che dentro hai tremila cose che vorresti esprimere. Infatti io avevo dentro qualcosa che avevo scritto riguardo a questo ragazzo che nel racconto ho finto di conoscere ma che in realtà mi aveva colpito anche senza conoscerlo perché aveva più o meno la mia età. Dopo l’inizio del racconto la chiave narrativa si è evoluta alla riflessione. Parlavo di questo ragazzo perché non si è capito se in una curva ad angolo aveva tirato dritto ed era andato contro il muro di una casa apposta oppure se era stato un incidente. La prima parte del racconto parla proprio di questo, cioè che in certi momenti ti rendi conto che puoi scegliere… cioè ogni tanto vivi la vita in modo estremamente lontano e la vedi come un qualcosa di irraggiungibile; in quei momenti te ne riappropri e dici: " ma perché io devo essere schiava di questa cosa qua?" e allora a volte scatta come in questo ragazzo la ribellione, il dire "no non ci sto: qualcun’altro ha deciso che io dovessi esserci, ma io posso decidere di non esserci più".
E allora la riflessione era: anch’io in certi momenti soffro, perché lui ha scelto di smettere e io scelgo di andare avanti. Oppure sto scegliendo o non sto scegliendo? Sto scegliendo di andare avanti ma come lo sto facendo? Mi fermo un attimo e ci penso.
E’ da un certo punto in poi della storia che l’uomo si chiede se deve andare avanti; probabilmente prima l’uomo non ha pensato in maniera così forte a questo gioco tra vita e morte, nel senso che la sopravvivenza era l’istinto fondamentale, adesso che viviamo tutti in maniera molto "tranquilla" il concetto di sopravvivenza, ci scatta il meccanismo contrario.
Mi è piaciuto molto nel racconto come hai descritto molti giovani: "una società di Peter Pan disorientati".
C’è anche un altro concetto simile, quello della coperta di Linus! Ho amici che vanno dai 20 ai 40 anni e si aggrappano tutti a qualcosa. Alla fine, per dire, anche Internet con le chat line è un rifugio. Praticamente è la stessa cosa che ha fatto sognare nel mondo di OZ o nel mondo di Peter Pan, che una volta veniva chiamata favola, adesso viene chiamata illusione; alla fine è una favola anche Internet.
La cosa più sconcertante, perché probabilmente la sento anch’io, è l’idea dell’autodistruttività. Ho visto un documentario, l’altro giorno, che parlava del gatto siberiano. Per sei mesi, durante tutto l’inverno, si vede la sua lotta sfrenata per sopravvivere e io invidio il suo avere uno scopo così preciso, quello di tirare avanti da un giorno all’altro. Si vedeva questo gatto che odiava l’acqua perché era un gatto, ma si doveva buttare nell’acqua congelata per prendere su il pesce e mangiare per sopravvivere e arrivare alla primavera.
E questo credo che sia tutto quello che manchi adesso, avere un concetto di lotta per un obbiettivo preciso […]
Ma è causata da agenti esterni e non sta nell’uomo questa mancanza?
Beh, chiaramente quando diventa così collettivo uno crede che non sia più sua la responsabilità. Però probabilmente la responsabilità è di ogni singolo individuo. Comunque questo fenomeno lo sento collettivo, lo respiro nell’aria, lo respiro come ieri sera quando in un locale vedo la cena che si trasforma in un delirio collettivo. […]
Credo che sia tutto creato dal disinteresse, non ci sono stimoli e non ce li vogliamo cercare. In questi casi è facile trovare il capro espiatorio nella collettività.
Io, per dire, ho fatto duecento cose anche finito l’università, ho lavorato, mi sono reiscritta al corso, l’ho lasciato, mi sono iscritta a filosofica, però io alla sera vado a letto e dico: "mi manca qualcosa" e non capisco dove lo devo cercare. Ma non do la colpa di questo a nessuno, perché la mia lotta la dovrei iniziare da me stessa, probabilmente anche fermandomi più spesso a pensare a questa cosa. La cosa che si preferisce fare in molti casi è dire: "ci penso domani!".
OK. Grazie per il tempo che ci hai concesso e speriamo di vedere in un fututo molto prossimo qualche tuo racconto sulle nostre pagine di KULT Underground.
Intervista a Giorgia Mantovani
Lo sai, vero, che a chi piace scrivere non piace parlare…
Thomas Serafini