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7
Ogni giorno che nasce, incontriamo ancora una volta noi stessi. Forse un giorno impareremo a parlare con questo mondo sterminato di vento e polvere bianca. Allora saremo pronti a incontrare sconosciuti, senza esserci estranei.
Dal laboratorio analisi al piano terreno dell’ospedale, proprio di fianco al pronto soccorso, attraverso i grandi finestroni si poteva scorgere una delle vie più trafficate che collegavano la città alla periferia. In lontananza si sentivano continuamente le sirene delle ambulanze e ancora oltre si poteva scorgere la boscaglia incolta, verde brillante, della riva del fiume. Le piastrelle bianche del balcone riflettevano i raggi del sole già bassi, di un pomeriggio d’estate inoltrata. Irene si muoveva lenta e sinuosa di fronte all’uomo che la osservava in silenzio accarezzandole i capelli languidamente. In certi momenti la donna riusciva ad essere piacevolmente ambigua, lasciando trapelare il dubbio che non stesse facendo altro che ignorare la realtà che la circondava.
Alto e abbronzato, sulla quarantina, l’uomo sembrava non riuscire a staccare lo sguardo dalla donna, tradendo pensieri di gesti irresistibili. L’attimo che stava per svelarsi apparteneva ad un presente ineluttabile.
Lui le sta esattamente di fronte quando le prende il volto fra le mani e l’avvicina a sé con decisione. Irene si rivela e sta al gioco, risponde con segnali senza parole che non lasciano possibilità di essere fraintesi.. Socchiude la bocca e reclina leggermente il capo, chiude gli occhi e abbandonandosi ad un desiderio inevitabile i loro respiri si sfiorano.
Irene si lascia trattenere dalle braccia dell’uomo, appoggiandosi a lui con tutto il suo corpo, fino a sentire i seni che premono contro il compagno.
Un attimo dopo lui la scosta leggermente e silenziosamente le sbottona il camice bianco. Le mani sui fianchi la stringono scaldandole la pelle, ruotano attorno al suo corpo fin sulla schiena per scendere lentamente. Il camice completamente aperto ricorda un lenzuolo, gettato con noncuranza sulle spalle. Irene si lascia travolgere da quell’ondata di desiderio e scopre completamente il torace dell’uomo. Sente fra le labbra i suoi capezzoli, mentre gli slaccia i pantaloni. Il silenzio è rotto per un attimo dallo schiocco secco della cintura, poi le dita fresche della donna si infilano fra le sue gambe, lasciando scivolare a terra i pantaloni.
L’uomo le scorre l’indice nella parte più interna delle gambe e senza difficoltà gli slip sottili si scostano con discrezione lasciando scoperto il sesso di Irene. La prende con entrambe le mani, sollevandola sulle natiche contratte e la solleva mentre lei si aggrappa al suo collo. Con una mano la donna lo aiuta dolcemente e si lascia penetrare gemendo in un attimo senza fine.
Quell’amore consumato nel silenzio contenuto dei gesti, preda di emozioni contrastanti e paura di essere scoperti li travolge. Lentamente, senza freni, entrambi scoppiano in una intrattenibile risata mentre i loro corpi già si ricompongono continuando a fronteggiarsi..
L’attimo di solare intensità appena trascorso qualche minuto dopo può essere confuso con un sogno immaginato ad occhi aperti. Un altro peccato inconfessabile parte di una storia non scritta, che nessuno dei due saprà dimenticare.
L’uomo improvvisamente cambia espressione, facendosi più serio. Un pensiero continua insistente a sovrastare emozioni e sentimenti da giorni senza poter essere scacciato. – Ector? – disse fissando Irene negli occhi. – Ector. – Irene, senza imbarazzo, risponde al suo sguardo con un’espressione vagamente corrucciata. – Devo parlargli. Vorrei che capisse, e vorrei che capissi anche tu. – L’uomo annuì serio, riflettendo un attimo prima di rispondere. – Non possiamo andare avanti così, questo lo capisci, vero? – aggiunse calmo, senza alcuna traccia di nervosismo.
– Lo so, Lorenzo, lo so. – disse Irene stringendosi nelle spalle. – Irene, non è più un’avventura fra colleghi, la nostra. – riprese Lorenzo quasi con tono di rimprovero. – Lo so benissimo, sai cosa provo. Devi lasciare che le cose seguano il loro corso, non forzarmi la mano, ti prego. E’ stata una decisione mia, non dimenticarlo. – Irene parlava senza asprezza ma era visibilmente infastidita. Sapeva meglio di lui che avrebbe dovuto affrontare la questione con Ector il più presto possibile, e forse aveva anche lasciato passare troppo tempo ma ancora non se la sentiva. E Lorenzo aveva sempre quella nota di tristezza nella voce, quando affrontava questo argomento.
– Non mi sembra di averti mai fatto pesare nulla. – Lorenzo non si sarebbe arreso facilmente e ora aveva assunto un atteggiamento polemico e provocatorio. Irene trasse un lungo sospiro, poi incrociò lentamente le mani davanti al viso. I suoi occhi lo guardarono con tenerezza, mentre cercava invano di spiegarsi. – Sei già stato fin troppo paziente, ma devi lasciarmi ancora un po’ di tempo, Lorenzo.- Era fermamente decisa a non riprendere il discorso fintanto non avesse trovato la forza di parlarne con Ector. Gli diede un bacio su una guancia e restò in attesa di un suo sguardo di compiacimento, poi si allontanò e scomparve in bagno. Lorenzo restò a lungo ad osservare la collina oltre il fiume, mentre gli ultimi raggi del sole illuminavano il verde di fronte a lui, cercando di dissipare i pensieri che cupi continuavano a farsi strada senza che fosse capace di respingerli, poi tornò al lavoro.
Irene rientrò tardi e trovò Ector che l’aveva aspettata alzato. – Ciao, – disse sonnecchioso dalla poltrona mentre il televisore proponeva immagini a volume bassissimo. Si alzò a spegnere la tivù mentre lei lo salutava con un cenno che si sforzò di sembrare affettuoso, dirigendosi in cucina. – Fammi una cortesia, domattina chiamami presto, alle otto devo essere in biblioteca. – Irene lo guardò incuriosita. – Qualche problema? –
Ector non rispose subito, scostò una sedia e sedette, appoggiando un gomito al tavolo. – Approfitto delle prime ore, poi comincia il caldo e non si riesce più a combinare nulla. – disse scrollando la testa. – Va bene, quando mi alzo tiro giù dal letto anche te. Domani pomeriggio non lavoro, passo a prenderti con la macchina? – Ector l’osservò pensieroso. – Non so. Non so ancora a che ora esco, ti telefono a mezzogiorno. –
Irene si sentiva come a casa di estranei. Sapeva benissimo che dipendeva da lei e da nessun altro, ma sentiva con chiarezza che non era il momento di parlare a Ector, sempre così immerso nelle sue cose, così distante. O forse anche questo era frutto della sua immaginazione, era lei che era distante e in qualche modo doveva al più presto trovare il modo di liberarsi di un peso che stava diventando insostenibile.
Vinto dalla stanchezza Ector cadde in un sonno profondo e pulito, senza sogni e senza incubi, senza ricordi.
8
Non ho più parole da dare al mio spirito. Attendo dalla vita nuove emozioni. Forse camminarti al fianco guarirà le mie ferite.
Un bacio sussurrato e il rumore del caffè che stava salendo, impercettibili ritagli di quotidiano furono sufficienti a svegliare Ector ma appena aprì gli occhi dovette fronteggiare sconosciute sensazioni. Attese e piccoli spazi urbani lo separavano da un desiderio e una paura. Cercò invano di rallentare il ritmo dei suoi battiti ma inutilmente. I minuti che mancavano, i gesti comuni da compiere, servirono per cercare di trarre in inganno il tempo che gli elargiva ancora più di un’ora prima di poterla incontrare.
Il suo modo di fare contagiò anche Irene, che quel mattino sembrava animata da una strana euforia. – Se ti prepari in fretta ti aspetto. – disse dal bagno mentre finiva di truccarsi. – Grazie ma prendo la macchina, così faccio prima questo pomeriggio. Appena posso vengo a casa. – Irene sporse la testa dal bagno e gli disse sorridendo – Cerca di arrivare prima di cena, devo di nuovo uscire. –
Ector, senza motivo prestò particolare attenzione alle sue parole – Lavoro? – intanto lei era uscita e cercava la borsa lasciata chissà dove – Più o meno. – rispose con fare distratto e cambiò discorso.
Si separarono sotto casa e appena Ector si fu allontanato Irene si sentì più tranquilla. Desiderava riflettere ed era quasi infastidita all’idea di rivedere Lorenzo, che con le sue giustificate richieste in quei giorni riusciva solo a rattristarla.
La fermata del tram di fronte all’atrio partenze, a quell’ora era ancora deserta. Mancavano dieci minuti alle otto e la stazione centrale mostrava uno spettacolo di folla in continuo movimento. Il grande quadrante dell’orologio, proprio al centro della piazza, aveva ipnotizzato Ector. Scandiva i minuti come fosse al corrente di ogni cosa.
Alle otto e cinque Ector guardò impaziente l’ora e dopo altri quindici minuti stava ancora aspettando. Il suo umore oscillava fra depressione e furore. Rimase in quello stato finché non la vide arrivare, sorridente e disarmante come sempre. Non fece in tempo a scendere dall’auto che si trovò in una nuova dimensione, circondato da una frizzante allegria. Camminarono sottobraccio, come un gesto spontaneo dettato dall’abitudine ed entrarono nel primo bar all’angolo del corso dirimpetto alla stazione che si stagliava monumentale e protettiva, anonima alle loro spalle. – Un caffè – ordinò Ector appena riuscì ad attirare l’attenzione del ragazzo al banco e poi si volse verso Francesco con un’espressione interrogativa. – Per me un succo di pompelmo, grazie. – Sedettero ad un tavolino miracolosamente rimasto vuoto ed attesero quanto avevano ordinato.
Parlarono del più e del meno fino all’ultimo minuto poi furono costretti a separarsi, quasi bruscamente, prima che il ritardo di Ector diventasse ingiustificabile. Non avevano fatto grandi discorsi, ma Ector si sentì piacevolmente complice della situazione e di Francesco, assaporando a fondo quei brevi momenti di intimità, cose inutili sussurrate, la presenza affascinante e sensuale della donna che stava lentamente scivolando nella sua vita.
Fuori dalla biblioteca, alle cinque in punto c’era Irene ad aspettarlo. – Ciao, Ector – disse accarezzandogli affettuosamente una guancia. – Ma non hai preso la macchina, stamattina? – le rispose lui con un sorriso raggiante. – Non ti aspettavo. – continuò Ector. – Un’ora fa mi sono stufata, così ho mollato tutto e sono venuta qui. Non va bene? – disse assumendo un’espressione vagamente corrucciata. – Figurati. E’ una sorpresa, una bella sorpresa. Tutto qui. –
Camminando e conversando amabilmente avevano raggiunto l’auto. – Dove si va? – disse Ector afferrando scherzosamente il volante con entrambe le mani, pronto a partire per qualsiasi direzione. – In giro – disse Irene decisa, ed imboccarono la strada verso la collina.
Vagarono a lungo senza meta, per strade immerse nel verde raccontandosi storie e pettegolezzi finché furono colti dalle prime avvisaglie della notte. Si fermarono a cenare in una malandata trattoria poco fuori città.
Mentre stavano mangiando, a un certo punto Irene gli chiese – Francesco, non l’hai più sentito? – Ector sollevò gli occhi dal proprio piatto e le sorrise. – Quasi tutti i giorni. Anche solo una telefonata. Quattro chiacchiere. Però ci sentiamo. – A quel punto Irene si fece più seria, aveva perso la sua allegria e si era fatta scura in volto. – Ector, a volte mi sembra che la vita mi stia stretta. Non lo so, ho bisogno di qualcosa. Ci sono altre persone, altre cose e io sto chiusa là dentro. – Ector la guardava assorto e sorpreso, non aveva ancora messo a fuoco ciò che realmente stava cercando di dirgli. – Secondo te, come facciamo a essere così egoisti da pensare di dare il nostro amore a una sola persona? – Irene aveva ragione, pensò Ector fra sé. – Il ritmo della vita è l’anima, il cambiamento.- le rispose pensieroso. Eppure c’era una nota stonata. La notte ripensò al discorso di Irene, convincendosi sempre più che qualche elemento non era al suo posto.
Nei giorni successivi Ector si abituò ben presto al suo piacevole appuntamento mattutino. Era nulla più che tenersi per mano, raramente abbracciati, camminando per le vie semivuote del centro prima che la metropoli riprendesse vita. Era come essere vicinissimi ad un gigante addormentato, tanto da sentirne il respiro ma resi invisibili dal suo sonno. Ector viveva momenti magici, immerso in un mondo completamente diverso da ogni cosa che aveva conosciuto fino ad allora.
Quel mattino ci fu qualcosa di nuovo, che Ector scoprì di desiderare da giorni. Stavano per salutarsi, andando ognuno verso la propria giornata, quando Francesco disse – Ci vediamo stasera, Ector. – Sicuro! – rispose lui senza riflettere. – Vieni a prendermi quando esco? – Francesco stette un attimo a pensare – Non posso, più tardi. Prima devo fare delle cose a casa. Puoi passare da me verso le nove e mezza. – prima che lui potesse ribattere la vide allontanarsi con passo deciso – Va bene, nove e mezza! – lei lo salutò con un cenno senza voltarsi e poco dopo scomparve dietro l’angolo della via.
Ector si allontanò a passi lenti, pensando a cosa avrebbe detto a Irene.
9
Quali tempi potranno guarire un momento perduto? Nell’attesa la donna che non voleva crescere continuò a percorrere le strade del proprio destino, mentre le albe morenti delle grandi pianure riflettevano senza tregua di domani in domani, l’eco del vento che corrodeva le montagne. Ogni giorno, il sole, coglie la notte impreparata alla propria morte.
Luglio surriscaldava la città e precipitava ogni cosa in una morsa di insostenibile caldo afoso, rendendo le persone intolleranti e irascibili. Le giornate trascorrevano lente e senza ombre nella metropoli che diventava ogni giorno più deserta, propagando un senso di solitudine inadatto agli esseri umani. Quasi miraggi urbani, le strade grigie d’asfalto trasudavano una lucentezza inquietante, evaporavano l’essenza della metropoli sotto un sole impietoso.
Appena superata la porta a vetri, Irene e Lorenzo quasi si pentirono di essere usciti dall’ospedale per il pranzo. – Vedrai, a casa farà un po’ più fresco – disse Irene mentre si avviavano verso la macchina rimasta parcheggiata miracolosamente sotto un esiguo rettangolo ombreggiato. – Stamattina prima di uscire ho tirato giù le tapparelle e spalancato le finestre. –
Dopo qualche minuto i due sembravano essersi abituati alla temperatura e all’afa opprimente; scherzavano fra loro mentre Lorenzo guidava a velocità sostenuta in una città curiosamente senza traffico, quasi irriconoscibile. Percorsero in un tempo inaspettatamente breve la distanza che li condusse a casa di Irene.
Entrando in cucina Lorenzo guardò l’orologio appeso al muro. – Preparo un boccone in un attimo… – disse Irene mentre posava la borsa nell’ingresso e si toglieva le scarpe lasciandole dove capitava. – Abbiamo ancora un’ora e mezza. – disse Lorenzo senza troppo entusiasmo, mentre gironzolava curioso con l’aria circospetta per le stanze della casa.
Aspettando si lasciò andare scompostamente sul sofà quando Irene lo prese per mano tirandolo verso di sé – Vieni a mangiare. – disse facendolo alzare in piedi. Si trovarono vicini, al centro della stanza. Lorenzo avvicinò ancora di più Irene e la baciò con forza, mentre lei si stringeva avvinghiando una gamba alla sua. La mano dell’uomo scivolò dolcemente nei pantaloni leggeri di lei allentando improvvisamente la tensione che il luogo e la situazione inconsueta avevano contribuito a creare. La tenne stringendola con risolutezza, lasciandole lo spazio perché potesse sfilarsi la camicetta senza sbottonarla. Il sudore rendeva i loro corpi lucidi e scivolosi. Lunghi e inspiegabili attimi furono il preludio, improvviso e crescente dell’infinito piacere che li travolse, finché le loro voci libere, si alzarono incuranti di tutto e di tutti.
Esausti e soddisfatti, scivolarono a terra sul tappeto poi con calma i loro corpi si separarono.
Lorenzo guardò nuovamente l’orologio della cucina. – Fine del pranzo! – esclamò Irene ridendo, mentre carponi raccoglieva gli indumenti sparsi sul pavimento. – Dovremmo rientrare adesso – le disse Lorenzo cercando di assumere un’espressione tra il serio e il preoccupato. Lei lo guardava di sottecchi annuendo maliziosa.
Lavorò un’ora in più e rientrando trovò Ector in casa. – Sei già qui – disse chiudendosi la porta alle spalle. – Ciao! – le rispose lui dall’altra stanza. Irene corse in bagno, non vedeva l’ora di farsi una doccia.
– Hai pranzato a casa, oggi? – chiese Ector distrattamente. – Quasi – rispose Irene sistemandosi l’accappatoio. – Sono venuta a mangiare con Lorenzo, un mio collega, ma abbiamo fatto tardi e non siamo nemmeno riusciti a metterci a tavola. – Ector si era avvicinato e l’ascoltava appoggiato allo stipite della porta. – Infatti, ho visto che non c’era nemmeno un piatto sporco nel lavandino. – Irene lo guardò e gli fece segno di sedersi accanto a lei. – Mi ha invitata sabato e domenica, in una casa in montagna con un suo amico – disse quando le fu vicino, abbassando il tono della voce. – Vai, che c’è di male, prendi un po’ di sole. – Irene aveva sul volto un’espressione dubbiosa. – Mi fa un po’ paura. – Ector la guardava con espressione serena – Secondo me è meglio se ci vai. Che tipo è questo Lorenzo? – Irene tirò un sospiro di sollievo. Era stupita e felice di essere finalmente riuscita in qualche modo ad affrontare il discorso con Ector. Si lasciò trascinare dall’entusiasmo e gli parlò a lungo di Lorenzo, del loro lavoro, del fine settimana. Cercò, almeno in cuor suo ne era convinta, di avvicinare Ector ad un discorso che le sembrava più difficile di quanto avrebbe immaginato.
Lui di colpo la interruppe. – Quando partite? – Irene fu presa alla sprovvista e non seppe che rispondere in modo diretto. – Domattina, se glielo confermo. – Ector si alzò e cominciò a passeggiare con le mani in tasca andando ad appoggiarsi al tavolo di fronte a dove era seduta Irene. – Stasera esco. – le disse, cercando di dare continuità al discorso interrotto. – Vado a fare un giro con Francesco, ma non torno tardi. Hai bisogno che domattina ti accompagni? – Aveva assunto un tono abbastanza convincente, dando per scontato che Irene sarebbe partita senza porsi ulteriori problemi. – Posso farmi passare a prendere – rispose lei, con un malcelato senso di gratitudine. Ora si sentiva più tranquilla. Lorenzo adesso era un nome, un volto, presente anche in quella casa, poteva far parte dei suoi discorsi, non avrebbe più dovuto fare attenzione a non nominarlo. Non era molto e certamente non era quello che Lorenzo avrebbe desiderato, ma era certamente un inizio.
Quasi per liberarsi di un peso, con tono quasi distratto continuò a parlare di Lorenzo, raccontare aneddoti, vicende, tutte cose che per Ector costituivano una completa novità.
Verso le nove la salutò baciandola su una guancia ed uscì. – Non so dove andremo, comunque se devi alzarti presto non aspettarmi. Domattina però chiamami, prima di uscire, almeno ti saluto. – le disse prima di chiudere quel mondo alle sue spalle. Lo attendevano momenti assolutamente imprevedibili.
10
Ci incrociamo alle stazioni di servizio, mentre trasportiamo continuamente i nostri destini attraverso queste strade interminabili. I nostri percorsi sono riservati a nomadi senza meta.
La metropoli, assente, priva di traffico e rumori assordanti, alla luce del crepuscolo sembrava un automa addormentato, un gigante di acciaio e cemento che riposava lo scheletro scomposto e inumano, indifferente al correre frenetico o all’assenza dei quattro milioni di individui che la popolavano. La strada per arrivare da Francesco, all’altro capo della città, sembrava quasi diversa, senza ostacoli e code, clacson e sirene delle ambulanze. Ector si accorse che il tragitto non era poi così lungo da casa sua, adesso che molti erano andati in vacanza e giunse in anticipo a destinazione. Riuscì a parcheggiare immediatamente, proprio di fronte all’ingresso del vecchio portone che ormai conosceva e che l’avrebbe accolto in un mondo incredibile, cui non si era ancora saputo abituare.
Il portone come sempre accostato si aprì docilmente ad una semplice spinta, lasciandogli varcare la soglia senza bisogno di farsi annunciare dal campanello malandato. Ector non salì subito le scale, ma si soffermò nell’ingresso stretto e lungo, che dava sul cortile interno. Passò davanti a una piccola finestrella a vetri di portineria, con una tendina di stoffa scura che impediva anche solo di immaginare chi o che cosa vi fosse dall’altra parte. Finì di percorrere l’ingresso camminando piano senza fare rumore, quasi temesse di violare quella strana quiete che avvolgeva la casa, che aveva notato fin dalla prima volta che era andato da Francesco. Superando la portineria notò con la coda dell’occhio che la tendina oscillava, evidentemente mossa o scostata per un attimo dall’interno, così si preparò a dare risposte evasive, ma nessuno si fece avanti.
Il cortile interno era ben tenuto, pulito e raccolto dava su grandi porte a due ante chiuse da delle persiane. Il muro del cortile che fungeva da cinta e separava la casa con quella adiacente era completamente coperto da un rampicante, molto simile all’edera ma con le foglie di un verde più acceso. Strano, pensò Ector, che non l’avesse notato quando si era affacciato sul cortile dal balcone più sopra, a casa di Francesco. Dopo essersi guardato intorno ritornò sui propri passi, ed ancora una volta passando davanti alla finestra della portineria ebbe la chiara sensazione che qualcuno da dietro la tenda lo stesse osservando, ma nemmeno questa volta riuscì a notarlo.
Il grande gatto con fare sornione stava come al solito disteso sul pavimento di pietra del balcone, riscaldato da una giornata di sole. Si era piazzato all’estremità più lontana dalle scale, quasi sapesse che lui stava per arrivare e non voleva trovarsi in una posizione da essere disturbato.
Ector bussò leggermente con le nocche sulla porta e vide che il gatto, forse abituato alla sua presenza, lo degnò appena di un’occhiata e richiuse immediatamente gli occhi immergendosi nei propri pensieri felini.
Un attimo dopo sentì dall’interno girare la chiave e la porta si aprì, ma prima che lui potesse entrare completamente, Francesco era già scomparso nell’altra stanza. Mentre Ector si voltava distrattamente per chiudere la porta, quasi inciampò in una valigia.
Prima di poter formulare ipotesi Francesco era di nuovo nella stanza. – Ciao! – gli disse esprimendo uno dei suoi soliti sorrisi enigmatici. – Guarda che casino. Domani devo partire e non ho ancora niente di pronto. – Ector si sentì precipitare, senza saper dare una spiegazione, ma rimase immobile. – Ah – disse senza aggiungere altro ma tradendo ciò che provava.
Francesco non disse nulla ma gli si avvicinò muovendosi con eleganza, lo tirò a sé cingendogli il capo con una mano e si abbandonò ad un lungo bacio. – Starò via solo qualche giorno. – disse guardando Ector dritto negli occhi. – Ha chiamato mio padre che è in Italia di passaggio e ci incontreremo a Firenze. Avrei potuto dirgli di no, ma so che ci tiene tanto e lo vedo così di rado. – Ector ora aveva una spiegazione, ma si limitò a rimanere in silenzio senza fare commenti.
Lei gli rimase vicino e sciogliendo i capelli fermati da una matita aggiunse – Mi spiace per stasera, ma ho l’aereo fra due ore e non ho potuto avvisarti in nessun modo. –
Ector non riusciva a scrollarsi di dosso un velo di tristezza. – Mi ero quasi abituato – riuscì solo ad aggiungere. – Vederti tutte le mattine, iniziare la giornata insieme. –
Francesco lo guardò con un’espressione canzonatoria – Ma sto via solo quattro giorni! – disse sorridendo con un tono di rimprovero. – Mercoledì sono di nuovo a casa. E poi possiamo sentirci, ti lascio il numero di telefono dell’auto di mio padre. Tanto quando sono con lui glielo uso sempre io.-
Ector e Francesco trascorsero il poco tempo rimasto ad organizzare appuntamenti telefonici, poi si salutarono malinconicamente.
La vide allontanarsi in taxi mentre ritto sul marciapiedi, di fronte al portone malandato si sforzava di fare un ultimo cenno, ma lei non si voltò. Restò ad osservare finché l’auto gialla non scomparve alla sua vista svoltando nella via qualche isolato più avanti poi si incamminò verso casa.
Aprì la porta di ingresso che era notte inoltrata. Aveva vagato in macchina, senza sapere dove andare per la città semideserta riflettendo sugli avvenimenti. Avrebbe voluto dire a Francesco un sacco di cose, avrebbe voluto accompagnarla all’aeroporto, avrebbe voluto trascorrere del tempo con lei, ma quando gli disse che stava per partire non accennò nemmeno che sarebbe rimasto da solo l’intero fine settimana.
Aveva la spiacevole sensazione di essersela lasciata sfuggire, senza nemmeno compiere un piccolo gesto, ma sapeva anche che non era ancora tempo e il tempo sarebbe venuto. Si svestì e si abbandonò sul letto lasciandosi immediatamente accogliere da un sonno senza sogni.
11
Viviamo in un mondo senza suoni. I rumori popolano i nostri giorni, educandoci all’indifferenza. Varcata la soglia, abbiamo bisogno delle risposte che sono dentro di noi per trovare parole che ci portino nuove armonie.
Due giorni trascorsero inutili. Solo il lunedì mattina Ector avrebbe potuto chiamare Francesco così decise di riflettere e abbandonarsi alla solitudine. Erano anni che non restava solo, completamente solo con la mente sgombra a riflettere della propria vita e delle proprie scelte. Lo stereo diffondeva un sottofondo vago di note di chitarra. Come incenso che brucia lentamente e dissolve nell’aria un profumo di incanto, Ector si era abbandonato alla sequenza di suoni senza ascoltare. Stava sentendo le proprie emozioni, sentimenti dissonanti che lo portavano ora a desiderare ora a cercare di dimenticare lo sguardo e il sorriso della sconosciuta.
Forse avrebbe dovuto rimproverarsi per ciò che stava facendo, non per Irene che aveva iniziato una strada di nuovi domani ma per sé. Forse correva dietro a un sogno, un’illusione che come un miraggio restava immobile e lontana ad attirarlo come il canto delle sirene sulla nave di Ulisse, pronto a dissolversi un attimo prima della sua comprensione.
In cuor suo, Ector sapeva benissimo che aveva giocato con il passato finché aveva finito per immergersi in una realtà presente ma inattuale, una vita parallela in cui non riconosceva nemmeno sé stesso. La storia, quella donna dagli occhi blu che sembravano non saper tradire, nascondeva un enigma incomprensibile. Come poteva sapere, cosa sapeva, quali minacce incombenti il futuro nascondeva fuori dalle porte della sua comprensione. Eppure Francesco, per certi versi era veramente lui, Francesco, l’amico che nasce da dentro, dove Ector avrebbe voluto trovare risposte che solo il tempo gli avrebbe svelato. L’affascinava la meraviglia di un’estranea, capace di entrare così prepotentemente dentro la sua vita.
Non ne faceva un problema di tradimenti o verità negate, Ector era cosciente di aver negato a Irene di conoscere, perché nemmeno lui sapeva la verità in equilibrio su quella linea d’ombra in cui ci troviamo tra il sonno e la veglia, quando un attimo prima di svegliarci tutti i sogni della notte ci sembrano reali. Amava Francesco, ma non era un’infatuazione. Non si sentiva innamorato di una donna che pure aveva saputo giocare bene le sue carte, amava piuttosto la sua storia dentro la quale sapeva avrebbe trovato spiegazione a sé stesso. Sapeva di amare Francesco, perché si sentiva disposto a qualsiasi dolore, pur di restarle accanto.
Un attimo prima che la paura che ciò che sarebbe accaduto potesse sovrastarlo Ector venne distratto con sollievo dal rumore amichevole di una chiave che entrava nella toppa, attutito della porta dell’ascensore che si richiudeva. Irene, raggiante, rientrava con i segni di un’abbronzatura appena accennata che metteva in risalto i suoi occhi chiari e luminosi.
Era così entusiasta che travolse Ector con le sue parole senza lasciargli il tempo di ribattere. Sembrava che in poche ore, un pugno di giorni, fosse accaduta ogni cosa. Il sole, le montagne, il dentro e il fuori. Capita quando si vive intensamente, il tempo si dilata e quando si ripensa a ciò che è successo, voltandosi indietro, sembra impossibile che siano potute accadere così tante cose.
Il racconto di Irene trovò in Ector un ascoltatore attento e discreto, quello che desiderava essere dopo due giorni di solitudine. Poi la stanchezza ebbe il sopravvento e lei lasciò trasparire in un attimo le ore di sonno che le erano mancate, finché un riposo ristoratore la raccolse in una forma scomposta, affascinante e seminuda. Ector restò a guardarla senza toccarla, quasi avesse paura di rovinarle gli attimi. Prima che altri pensieri popolassero la sua mente le si addormentò al fianco.
Il mattino successivo Irene faticò ad alzarsi e raggiunse Ector in cucina, ancora assonnata e di pessimo umore. L’incantesimo era finito e in un attimo era ritornata ad un presente che non ricordava di aver scelto. Riuscì a parlare con Ector solo quando erano già in macchina. – Ancora un caffè? – disse lui voltandosi di sbieco per guardarle il volto senza perdere di vista la strada. – Si, ma all’altro bar, questo fa schifo. – Ector annuì proseguendo ed accostò poco più avanti. Mentre entravano nel bar Irene guardò l’ora. – Non sei in ritardo? – le disse Ector tenendole aperta la porta a vetri. Lei gli rispose con un’alzata di spalle.
Quello che avrebbe detto di lì a poco non fu un’affermazione cosciente, piuttosto trasmise una sensazione senza riflettere, quasi stesse parlando fra sé e sé. – Sei innamorata. – Irene si voltò di colpo verso di lui, con un’espressione sinceramente sorpresa. – Ma figurati! – rispose senza pensarci su. Ector calmo riprese il discorso – Non era un’accusa. Sei innamorata. – Irene invece si stava infervorando – Ma dai! Non ci penso nemmeno! – rispose energicamente.
Vedendo che non era in grado, o non aveva intenzione, di sostenere il discorso, Ector lasciò perdere senza badarci troppo e si mise a parlare d’altro.
Non affrontarono più l’argomento ed Ector evitò ogni riferimento a Lorenzo o a ciò che stava succedendo alla sua compagna. Irene dal canto suo attese fino alla sera del giorno successivo, per riprendere il discorso con Ector.
Sebbene sulle prime fosse un po’ titubante, ammise la sua infatuazione per Lorenzo. Ector in cuor suo sorrideva di quella piccola confessione, sentendosi forte del suo mondo segreto, Francesco e i ricordi. Ascoltava pazientemente Irene che finalmente riusciva a parlare liberamente di sé e di una parte della sua vita, da cui in qualche modo Ector era rimasto escluso da tempo. Ora, in un’altra dimensione era tornata, lui era di nuovo partecipe della sua esistenza, completamente.
Francesco lo chiamò in biblioteca nel primo pomeriggio. – Arrivo stasera alle dieci, hai voglia di venirmi a prendere? – tra tutte le congetture che aveva formulato, attendendo il suo ritorno, chissà perché non aveva previsto di andarla a prendere all’aeroporto. – Sicuro! – esclamò Ector con entusiasmo. – Ector. Ho tanta voglia di dormire con te, stanotte. – fu colto alla sprovvista da una richiesta assolutamente inaspettata. – I… in che senso? – riuscì a balbettare a malapena. – Dormire insieme, scemo! – Francesco fece una lunga pausa – credi che sia possibile? – Ector ora aveva messo a fuoco la situazione. – Non c’è nessun problema, certamente. – disse con malcelato entusiasmo. Si sarebbe messo a gridare dalla gioia. – Ector, – riprese Francesco con voce dolce e suadente – guada che lo so, che c’è Irene. Se non puoi, non importa. – Ector si affrettò a rassicurarla – No, no, non ti preoccupare, adesso è diverso. Ti spiego sta
Francesco (II)
Capitoli introdotti da brani di Caroline Del Rej, Argo Stern, Xenia Brown, Malcom Leopold, Gerylinn Jones, Lucas Abraham, Jonas Lewinson, Alejandro Escondias, Chelsea De Laurie, Allison Bowles, Eliza Cockney, Arthur Melbourne, Albert J. Collins tratti da "Songs & Poetry from long distance America", Ed. Gal & Imar, N.Y., 1993 su gentile concessione degli autori.
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Jonas Lewinson
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Alejandro Escondias
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Chelsea De Laurie
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Allison Bowles
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Eliza Cockney