Da quando non ci vediamo, Alfonsa?
Non mi sembra credibile; è da poco meno di sessant’anni. Tu eri seduta al primo banco a sinistra, nella prima fila dalla parte delle finestre. Io ero nella seconda fila e due banchi più indietro. Eri una delle dieci o dodici ragazze della nostra classe: Eri "caruccia", come si usa dire familiarmente a Terni, non una bellezza, ma caruccia. Quanto basta, quanto ci si aspetta da un’adolescente di sesso femminile. Se qualcosa mi ritorna della tua figura, che trova conferma in una di quelle fotografie di gruppo che ci facevano alla fine di ogni anno scolastico, è un viso rotondeggiante, un sorriso dolce, una corona di capelli biondi ondulati, il capo lievemente piegato da un lato, e un grembiule nero un po’ più lungo della media. Allora le ragazze a scuola portavano tassativamente il grembiule nero, sempre, fino al diploma.
Tu non puoi ricordarlo, ma io sì.
Io mi innamorai di Ginetta, che ti era compagna di banco, non di te. Mi innamorai di Ginetta in maniera bruciante e mi durò forse un anno o due e non le dissi mai niente, assolutamente niente. Lei comunque lo sapeva. A scuola certe cose volano per l’aria e si risanno. Ma se uno non parla….
Tu non puoi ricordare il tuo lungo grembiule, perché la morte ti colse. Non so quando esattamente e come. Comunque durante la guerra, quando eravamo già usciti dalla scuola col nostro diploma in tasca. Lo seppi a guerra finita, per caso, non ricordo da chi. Tuttavia era cosa certa.
Ne rimasi addolorato, come ero rimasto addolorato della scomparsa di Ferruccio, quell’adorabile ragazzo dall’ accento strano perchè sua madre era dalmata e lui stesso era nato a Zara (quel Ferruccio che, meno imbranato di me, aveva finito per soffiarmi da sotto il naso Ginetta), com’ero rimasto addolorato della scomparsa di altri compagni che la guerra aveva in un modo o nell’altro cancellato dalla vita.
La vita!, quella cosa che pensavamo eterna o quasi, tanta ne avremmo dovuto avere davanti.
Alfonsa, mi ero accorto appena di te e la tua morte era stata come uno scoprire allora che eri esistita, due banchi più avanti a sinistra. Mi era suonato sempre strano anche il tuo nome. Ma come avevano potuto i tuoi metterti nome "Alfonsa"? Mentre al contrario piacevole e garbato era il tuo cognome "Cherubini". E giusto un cherubino parevi con quei tuoi riccioli biondi attorno al viso, simile quasi agli angioletti dipinti di Melozzo da Forlì. Di te sapevo solo che abitavi a Narni e venivi a Terni ogni giorno per la scuola. E infatti non ti si vedeva poi per il Corso il pomeriggio, quando noi ci si incontrava per scambiarci i compiti o stare un po’ insieme fuori di scuola.
Giusto quel giugno che finivamo le Magistrali, Mussolini dichiarò guerra all’Inghilterra, la "perfida Albione". Avevamo ascoltato il discorso dagli altoparlanti piazzati lungo il Corso e in piazza Tacito. Egli dal balcone di Palazzo Venezia gridava lo slogan "Vincere!" e la folla "oceanica" radunata rispondeva in coro unanime "….e vinceremo!"
Ma sulle prime non ci eravamo accorti della guerra. Il giornale radio ci diceva quello che si voleva ci fosse detto. Noi, solo quando ci giunse la notizia che Ferruccio era caduto in Africa, appena giuntovi con il contingente italiano, avemmo la sensazione che si giocasse attorno a noi, quasi a nostra insaputa, una partita smisurata, piena di paroloni, di slogan pseudo-patriottici e di ragazzi che non tornavano più.
Poi era venuto il tempo dei bombardamenti, dei rifugi antiaerei scavati sotto la città. Cunicoli e corridoi rischiarati da rare e deboli lampadine, dove ci si rintanava quando le sirene suonavano spiegate lo stato di allarme. Là sotto la gente si sedeva in terra; qualcuno si portava dietro uno sgabello pieghevole, altri restavano in piedi appoggiati alle umide pareti di terra franosa, mal sostenuta da assi, qua e là. Ci si raccontavano cose qualsiasi per ingannare il tempo, ore e ore, a volte. Le donne più anziane intonavano il rosario, prima bisbigliato, poi a voce più chiara; gli uomini, sulle prime taciturni e aggrondati si univano timidamente più tardi, confessando così che, male non avrebbe fatto, anzi forse serviva davvero ad allontanare quella morte che si minacciava col rombo sordo dei B29. Il cuore si fermava un attimo….nunc et in hora mortis nostrae. Amen. Le bombe cadevano a grappoli, or qui or là, ora sì ora no, secondo un gioco perverso che nessuno poteva predire E quando suonava il cessato allarme si usciva di nuovo all’aperto, fra le case distrutte, il polverume delle macerie, il pianto accorato e inconsolabile di chi non trovava più le proprie cose.
Non ho mai saputo cosa ti è accaduto. Non ho trovato nessuno che sapesse dirmelo. Trovare notizie, appena finita la guerra era difficile. Difficile ricostruire i percorsi dei singoli, degli amici dei conoscenti, talvolta persino dei parenti stessi.
E noi ci conoscevamo appena, sebbene per un anno, o forse due o forse tre (è trascorsa una vita, Alfonsa, perdona le mie lacune) siamo stati distanti forse un paio di metri.
Tuttavia c’e’ una cosa che tu sai, da quel tuo mondo diverso dove anzi tempo ti sei rifugiata. Ogni Domenica, senza una sola eccezione, in tutti questi anni, quando il celebrante la Messa dice: Ricordati o Signore dei nostri fratelli defunti…..insieme ai nomi dei miei cari scomparsi, mi torna il tuo. Col tempo la lista si è allungata, tanto che a stento riesco e ripercorrerla con la mente e col cuore, ma tu ci sei, fra i primi posti.
Mille e mille volte mi sono posto la domanda senza risposta: perché? Perché tu, Alfonsa, che non significavi niente per me? Che ti vedevo senza guardarti, che ti udivo senza sentirti, che ti sei fatta presente per tutta la vita scomparendo? Nessuno, al di là dei miei famigliari più stretti, ha goduto di maggior fedeltà, e di un ricordo più vivo.
Sei lì, al primo banco, a sinistra di Ginetta, dalla parte della finestra, e ti vedo di spalle, indovinando appena il tuo viso oltre la zazzera bionda.
Ed è un bel po’ che non ci si vede.
Alfonsa
Franco Braga